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Messaggi del 12/07/2015

Canzoniere petrarchesco 14

Post n°1835 pubblicato il 12 Luglio 2015 da valerio.sampieri
 

Canzoniere

91

La bella donna che cotanto amavi
subitamente s'è da noi partita,
et per quel ch'io ne speri al ciel salita,
sí furon gli atti suoi dolci soavi.

Tempo è da ricovrare ambo le chiavi
del tuo cor, ch'ella possedeva in vita,
et seguir lei per via dritta expedita:
peso terren non sia piú che t'aggravi.

Poi che se' sgombro de la maggior salma,
l'altre puoi giuso agevolmente porre,
sallendo quasi un pellegrino scarco.

Ben vedi omai sí come a morte corre
ogni cosa creata, et quanto all'alma
bisogna ir lieve al periglioso varco.


92

Piangete, donne, et con voi pianga Amore;
piangete, amanti, per ciascun paese,
poi ch'è morto collui che tutto intese
in farvi, mentre visse, al mondo honore.

Io per me prego il mio acerbo dolore,
non sian da lui le lagrime contese,
et mi sia di sospir' tanto cortese,
quanto bisogna a disfogare il core.

Piangan le rime anchor, piangano i versi,
perché 'l nostro amoroso messer Cino
novellamente s'è da noi partito.

Pianga Pistoia, e i citadin perversi
che perduto ànno sí dolce vicino;
et rallegresi il cielo, ov'ello è gito.


93

Più volte Amor m'avea già detto: Scrivi,
scrivi quel che vedesti in lettre d'oro,
sí come i miei seguaci discoloro,
e 'n un momento gli fo morti et vivi.

Un tempo fu che 'n te stesso 'l sentivi,
volgare exemplo a l'amoroso choro;
poi di man mi ti tolse altro lavoro;
ma già ti raggiuns'io mentre fuggivi.

E se 'begli occhi, ond'io me ti mostrai
et là dov'era il mio dolce ridutto
quando ti ruppi al cor tanta durezza,

mi rendon l'arco ch'ogni cosa spezza,
forse non avrai sempre il viso asciutto:
ch'i' mi pasco di lagrime, et tu 'l sai.


94

Quando giugne per gli occhi al cor profondo
l'imagin donna, ogni altra indi si parte,
et le vertú che l'anima comparte
lascian le menbra, quasi immobil pondo.

Et del primo miracolo il secondo
nasce talor, che la scacciata parte
da se stessa fuggendo arriva in parte
che fa vendetta e 'l suo exilio giocondo.

Quinci in duo volti un color morto appare,
perché 'l vigor che vivi gli mostrava
da nessun lato è piú là dove stava.

Et di questo in quel dí mi ricordava,
ch'i' vidi duo amanti trasformare,
et far qual io mi soglio in vista fare.


95

Cosí potess'io ben chiuder in versi
i miei pensier', come nel cor gli chiudo,
ch'animo al mondo non fu mai sí crudo
ch'i' non facessi per pietà dolersi.

Ma voi, occhi beati, ond'io soffersi
quel colpo, ove non valse elmo né scudo,
di for et dentro mi vedete ignudo,
benché 'n lamenti il duol non si riversi.

Poi che vostro vedere in me risplende,
come raggio di sol traluce in vetro,
basti dunque il desio senza ch'io dica.

Lasso, non a Maria, non nocque a Pietro
la fede, ch'a me sol tanto è nemica;
et so ch'altri che voi nessun m'intende.


96

Io son de l'aspectar omai sí vinto,
et de la lunga guerra de' sospiri,
ch'i' aggio in odio la speme e i desiri,
ed ogni laccio ond'è 'l mio core avinto.

Ma 'l bel viso leggiadro che depinto
porto nel petto, et veggio ove ch'io miri,
mi sforza; onde ne' primi empii martiri
pur son contra mia voglia risospinto.

Allor errai quando l'antica strada
di libertà mi fu precisa et tolta,
ché mal si segue ciò ch'agli occhi agrada;

allor corse al suo mal libera et sciolta:
ora a posta d'altrui conven che vada
l'anima che peccò sol una volta.


97

Ahi bella libertà, come tu m'ài,
partendoti da me, mostrato quale
era 'l mio stato, quando il primo strale
fece la piagha ond'io non guerrò mai!

Gli occhi invaghiro allor sí de' lor guai,
che 'l fren de la ragione ivi non vale,
perch'ànno a schifo ogni opera mortale:
lasso, cosí da prima gli avezzai!

Né mi lece ascoltar chi non ragiona
de la mia morte; et solo del suo nome
vo empiendo l'aere, che sí dolce sona.

Amor in altra parte non mi sprona,
né i pie' sanno altra via, né le man' come
lodar si possa in carte altra persona.


98

Orso, al vostro destrier si pò ben porre
un fren, che di suo corso indietro il volga;
ma 'l cor chi legherà, che non si sciolga,
se brama honore, e 'l suo contrario abhorre?

Non sospirate: a lui non si pò tôrre
suo pregio, perch'a voi l'andar si tolga;
ché, come fama publica divolga,
egli è già là, ché null'altro il precorre.

Basti che si ritrove in mezzo 'l campo
al destinato dí, sotto quell'arme
che gli dà il tempo, amor, vertute e 'l sangue,

gridando: D'un gentil desire avampo
col signor mio, che non pò seguitarme,
et del non esser qui si strugge et langue.


99

Poi che voi et io piú volte abbiam provato
come 'l nostro sperar torna fallace,
dietro a quel sommo ben che mai non spiace
levate il core a piú felice stato.

Questa vita terrena è quasi un prato,
che 'l serpente tra' fiori et l'erba giace;
et s'alcuna sua vista agli occhi piace,
è per lassar piú l'animo invescato.

Voi dunque, se cercate aver la mente
anzi l'extremo dí queta già mai,
seguite i pochi, et non la volgar gente.

Ben si può dire a me: Frate, tu vai
mostrando altrui la via, dove sovente
fosti smarrito, et or se' piú che mai.


100

Quella fenestra ove l'un sol si vede,
quando a lui piace, et l'altro in su la nona;
et quella dove l'aere freddo suona
ne' brevi giorni, quando borrea 'l fiede;

e 'l sasso, ove a' gran dí pensosa siede
madonna, et sola seco si ragiona,
con quanti luoghi sua bella persona
coprí mai d'ombra, o disegnò col piede;

e 'l fiero passo ove m'agiunse Amore;
e lla nova stagion che d'anno in anno
mi rinfresca in quel dí l'antiche piaghe;

e 'l volto, et le parole che mi stanno
altamente confitte in mezzo 'l core,
fanno le luci mie di pianger vaghe.

Francesco Petrarca

 
 
 

Ggelosia

Post n°1834 pubblicato il 12 Luglio 2015 da valerio.sampieri
 

Ggelosia

Accidentaccio! fatem' er piacere;
Un'antra vorta, nu lo salutate.
Sa cche cce provo tanto dispiacere.
E Ilei me le f' apposta "ste bbullate!

Ched'è la prima vorta? Annat' annate.
Com'è? saranno quattro o ccinque sere,
V' hann'arivisto a ssede' dar drughiere,
Che stavio a ffa' 'na mucchia de scimmiate.

- Chi vve l'ha ddetto? Famo 'na scommessa,
Ch'è stata vostra madre, 'st' impicciona?
Io, la sòcera, incora, nu' l'ho mmessa.

Ner caso poi sarà ppane arifatto, (1)
Annate a dda' li pizzichi a Ggiggiona;
Intant' a mme nu' mmc ne preme affatto.

Nota: 1. Vi rendo la pariglia.

Giggi Zanazzo
11 Agosto 1883.
(Da: "Poesie e prose scelte", Perino, pag. 121)

"ddà li pizzichi a Ggiggiona" è espressione che si trova anche a pagina 16 del medesimo volume, nel brano intitolato "L'amore in Trestevere", del quale riporto qui un estratto:
Giggi - Allora vór dì' che mme la leggerò dda me. (Legge) «Carissimo amante. Ve faccio consapere che siccome ho ssaputo pe' pparte de' mi' sorella cuggina Tuta, che nun lo so' si vvoi la conoscete, la moje der sor Onofrio, che jerissera voi stavavio in de la bbottega der tripparolo in Panico a sgrinfia' co quela bbella gioja de la su' fija e cche je dassivo insinenta un pizzico e cche ppoi quanno Tuta ve fece dice: Bravo sor Giggi, mo vado a fa la spia a la vostra regazza, lei se n'usci de fianco cor di': Ditejelo puro a quela ciovettona. Dunque pe la quale io no ne voglio più sapere gnente affatto de voi, il quale mi farete il santo piacere da nun seccamme ppiù e de nun mette ppiù ppiede drento casa mia.
Addio, addio state bbene e suono la vostra infelicissima amante. Nina Pappini.
Salutateme vostra sorella Marietta e diteglie che ddopo domani l'aspetto a ccasa. Addio. Fine ».
Nina. - Mbè! Che nun v'aribatte ? Annate annate puro a dda' li pizzichi a Giggiona, intanto a mme nun me ne preme affatto. Che siate scandato voi e llei!
Giggi. - E ddico, ce volete puro bbatte de cassa ?
Nina. - Sicuro! Che nun v'aribbatte ? Gnente gnente me lo voressivo nega'?
Giggi. - Piano! Io nun dico questo! (mettennose 'na mano sur petto) e ssarebbe un boja si lo negassi.! Ma quello che nun posso manna' ggiù è l'affare der pìzzico! È l'affiire der pizzico che so' ddu' ggiorni che mme sta qui e nu' lo posso ignotte!
Nina. (Sminchionata) Povero rintorcinato!
Giggi. (Co' ffóco) E je vorrebbe di' a 'sta sora Tuta, spiaccia nata, si ccome pò ffa' a inventasse certe bbojerie; perchè ffnarmente poi è vvero che je so' ito avanti co' le mano, ma pperò fu ppe' ffamme da 'na spilla.
Nina. - Scuse magre!
Giggi. - E vvoi allora nun ce credete!
Nina. - Insomma a le corte; la confidenza c'è stata, ecco er busilli.
Giggi. - Che cconfidenza, nun se sa!
Nina. - Sicuro, confidenza! confidenza! E anzi da 'sto momento in poi nun me vienite più intorno, cercate a squajavve, perchè vvardà' (fa un gesto) ciò fiatto tanto de crocione.
Giggi. - E quanto me ne preme. Vederete che dde regazza drento Roma nun ce sarete antro che vvoi!

 
 
 

De claris mulieribus 009

Capitolo IX

Europa, Reina di Creta

Pensano alcuni che essa fusse figliuola di Fenice; ma molti più dicono, quella essere stata generata da Agenore, che fu re di Fenicia, e fu di sì maravigliosa bellezza, che, non avendola veduta, Giove re di Creta s’innamorò di lei, e per rubare quella, egli uomo possente mettendo agguati, dicono, che per ruffianeccio di parole di alcuno avvenne, che sollazzandosi quella fanciulla, seguendo gli armenti di suo padre, discese della montagna al lido di Fenicia; e presa incontanente, e menata in mare in una nave, nella quale era per insegna un bianco toro, fu condotta in Creta. E penso, che non sia da lodare che alle fanciulle sia commessa troppa licenzia di andare sollazzando, o che elleno ascoltino le parole di ognuno; perchè ho letto, quelle essere state macchiate, che fanno questo, di brutte macchie, le quali eziandio non può tanto lavare la bellezza di perpetua castità. Da queste cose ha tolto materia la favola nella quale si legge, che Mercurio costrinse al lido gli armenti di Fenice, e che Giove si convertì in toro, e nuotando portò Europa vergine in Creta. Ma gli antichi si discordano in che tempo fusse fatta questa rapina. Quegli che la pongono più antica, dicono che fu fatta regnando ancora Danao in Argo; altri dicono, che regnando Acrisio, e quegli di dietro dicono che fu regnando Pandione, re di Atene: la qual cosa pare agli tempi di Minosse suo figliuolo, e d’Europa. Alcuni dicono che Giove la sforzò, e che dappoi fusse moglie di Asterio, re di Creta, e che di quelli avesse tre figliuoli, Minos, Radamante e Sarpedone, i quali sono chiamati figliuoli di Giove, perchè alcuni affermano che Asterio e Giove sono una medesima cosa. La quale discordia appartenendo ad altri molti, s’accordano, Europa essere stata famosa per lo matrimonio di grande Dio. Affermano ancora alcuni; che dal suo nome è denominata Europa, che è la terza parte del mondo, perpetualmente, o che fosse perchè fu di singolare nobiltà, essendo quelli di Fenicia famosi nel suo tempo per molte virtudi, essendo quelli adornati di molti stemmi dei suoi antichi; o che fusse per riverenzia del divino marito, e per rispetto dei figliuoli; ovvero per ispezial virtù di Europa medesima, la quale io concedo non solamente maravigliosa donna per la virtù, essendo denominata parte del mondo da lei, ma eziandio per una maravigliosa statua di metallo consacrata per Pittagora, sommo filosofo, a Taranto a nome di Europa.

Giovanni Boccaccio

De claris muljeribus
VOLGARIZZAMENTO
DI MAESTRO DONATO ALBANZANI DA CASENTINO
[ca. 1336 - fine secolo XIV]

 
 
 

Canzoniere petrarchesco 13

Post n°1832 pubblicato il 12 Luglio 2015 da valerio.sampieri
 

Canzoniere

81

Io son sí stanco sotto 'l fascio antico
de le mie colpe et de l'usanza ria
ch'i' temo forte di mancar tra via,
et di cader in man del mio nemico.

Ben venne a dilivrarmi un grande amico
per somma et ineffabil cortesia;
poi volò fuor de la veduta mia,
sí ch'a mirarlo indarno m'affatico.

Ma la sua voce anchor qua giú rimbomba:
O voi che travagliate, ecco 'l camino;
venite a me, se 'l passo altri non serra.

Qual gratia, qual amore, o qual destino
mi darà penne in guisa di colomba,
ch'i' mi riposi, et levimi da terra?


82

Io non fu' d'amar voi lassato unquancho,
madonna, né sarò mentre ch'io viva;
ma d'odiar me medesmo giunto a riva,
et del continuo lagrimar so' stancho;

et voglio anzi un sepolcro bello et biancho,
che 'l vostro nome a mio danno si scriva
in alcun marmo, ove di spirto priva
sia la mia carne, che pò star seco ancho.

Però, s'un cor pien d'amorosa fede
può contentarve senza farne stracio,
piacciavi omai di questo aver mercede.

Se 'n altro modo cerca d'esser sacio,
vostro sdegno erra, et non fia quel che crede:
di che Amor et me stesso assai ringracio.


83

Se bianche non son prima ambe le tempie
ch'a poco a poco par che 'l tempo mischi,
securo non sarò, bench'io m'arrischi
talor ov'Amor l'arco tira et empie.

Non temo già che piú mi strazi o scempie,
né mi ritenga perch'anchor m'invischi,
né m'apra il cor perché di fuor l'incischi
con sue saette velenose et empie.

Lagrime omai da gli occhi uscir non ponno,
ma di gire infin là sanno il vïaggio,
sí ch'a pena fia mai ch'i' 'l passo chiuda.

Ben mi pò riscaldare il fiero raggio,
non sí ch'i' arda; et può turbarmi il sonno,
ma romper no, l'imagine aspra et cruda.


84

- Occhi piangete: accompagnate il core
che di vostro fallir morte sostene.
- Cosí sempre facciamo; et ne convene
lamentar piú l'altrui, che 'l nostro errore.

- Già prima ebbe per voi l'entrata Amore,
là onde anchor come in suo albergo vène.
- Noi gli aprimmo la via per quella spene
che mosse d 'entro da colui che more.

- Non son, come a voi par, le ragion' pari:
ché pur voi foste ne la prima vista
del vostro et del suo mal cotanto avari.

- Or questo è quel che piú ch'altro n'atrista,
che' perfetti giudicii son sí rari,
et d'altrui colpa altrui biasmo s'acquista.


85

Io amai sempre, et amo forte anchora,
et son per amar piú di giorno in giorno
quel dolce loco, ove piangendo torno
spesse fïate, quando Amor m'accora.

Et son fermo d'amare il tempo et l'ora
ch'ogni vil cura mi levâr d'intorno;
et più colei, lo cui bel viso adorno
di ben far co' suoi exempli m'innamora.

Ma chi pensò veder mai tutti insieme
per assalirmi il core, or quindi or quinci,
questi dolci nemici, ch'i' tant'amo?

Amor, con quanto sforzo oggi mi vinci!
Et se non ch'al desio cresce la speme,
i' cadrei morto, ove più viver bramo.


86

Io avrò sempre in odio la fenestra
onde Amor m'aventò già mille strali,
perch'alquanti di lor non fur mortali:
ch'è bel morir, mentre la vita è dextra.

Ma 'l sovrastar ne la pregion terrestra
cagion m'è, lasso, d'infiniti mali;
et piú mi duol che fien meco immortali,
poi che l'alma dal cor non si scapestra.

Misera, che devrebbe esser accorta
per lunga experïentia omai che 'l tempo
non è chi 'ndietro volga, o chi l'affreni.

Piú volte l'ò con ta' parole scorta:
Vattene, trista, ché non va per tempo
chi dopo lassa i suoi dí piú sereni.


87

Sí tosto come aven che l'arco scocchi,
buon sagittario di lontan discerne
qual colpo è da sprezzare, et qual d'averne
fede ch'al destinato segno tocchi:

similmente il colpo de' vostr'occhi,
donna, sentiste a le mie parti interne
dritto passare, onde conven ch'eterne
lagrime per la piaga il cor trabocchi.

Et certo son che voi diceste allora:
Misero amante, a che vaghezza il mena?
Ecco lo strale onde Amor vòl che mora.

Ora veggendo come 'l duol m'affrena,
quel che mi fanno i miei nemici anchora
non è per morte, ma per piú mia pena.


88

Poi che mia speme è lunga a venir troppo,
et de la vita il trappassar sí corto,
vorreimi a miglior tempo esser accorto,
per fuggir dietro piú che di galoppo;

et fuggo anchor cosí debile et zoppo
da l'un de' lati, ove 'l desio m'à storto:
securo omai, ma pur nel viso porto
segni ch'i'ò presi a l'amoroso intoppo.

Ond'io consiglio: Voi che siete in via,
volgete i passi; et voi ch'Amore avampa,
non v'indugiate su l'extremo ardore;

ché perch'io viva de mille un no scampa;
era ben forte la nemica mia,
et lei vid'io ferita in mezzo 'l core.


89

Fuggendo la pregione ove Amor m'ebbe
molt'anni a far di me quel ch'a lui parve,
donne mie, lungo fôra a ricontarve
quanto la nova libertà m'increbbe.

Diceami il cor che per sé non saprebbe
viver un giorno; et poi tra via m'apparve
quel traditore in sí mentite larve
che piú saggio di me inganato avrebbe.

Onde piú volte sospirando indietro
dissi: Ohimè, il giogo et le catene e i ceppi
eran piú dolci che l'andare sciolto.

Misero me, che tardo il mio mal seppi;
et con quanta faticha oggi mi spetro
de l'errore, ov'io stesso m'era involto!


90

Erano i capei d'oro a l'aura sparsi
che 'n mille dolci nodi gli avolgea,
e l'vago lume oltra misura ardea
di quei begli occhi, ch'or ne son sí scarsi;

e 'l viso di pietosi color' farsi,
non so se vero o falso, mi parea:
i' che l'ésca amorosa al petto avea,
qual meraviglia se di súbito arsi?

Non era l'andar suo cosa mortale,
ma d'angelica forma; et le parole
sonavan altro, che pur voce humana.

Uno spirito celeste, un vivo sole
fu quel ch'i'vidi: et se non fosse or tale,
piagha per allentar d'arco non sana.

Francesco Petrarca

 
 
 

Rime eteree 01-05

Post n°1831 pubblicato il 12 Luglio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime eteree
di
Torquato Tasso

I

Avean gli atti leggiadri e 'l vago aspetto
già rotto il gelo ond' armò sdegno il core,
e le vestigia de l' antico ardore
conoscea già dentro al cangiato petto;

e nutrir il mio mal prendea diletto
con l' esca dolce d' un soave errore,
sì mi sforzava il lusinghiero Amore
che s' avea ne' begli occhi albergo eletto:

quand' ecco novo canto il cor percosse,
e spirò nel suo foco, e 'n lui più ardenti
rendé le fiamme da' bei lumi accese.

Né crescer sì, né sfavillar commosse
vidi mai faci a lo spirar de' venti,
come il mio incendio allor forza riprese.

II

Su l' ampia fronte il crespo oro lucente
sparso ondeggiava, e de' begli occhi il raggio
al terreno adducea fiorito maggio
e luglio a i cori oltra misura ardente.

Nel bianco seno Amor vezzosamente
scherzava, e non ardia di fargli oltraggio,
e l' aura del parlar cortese e saggio
fra le rose spirar s' udia sovente.

Io, che forma celeste in terra scorsi,
rinchiusi i lumi, e dissi: "Ahi, come è stolto
sguardo che 'n lei sia d' affisarsi ardito!"

Ma de l' altro periglio non m' accorsi:
che mi fu per l' orecchie il cor ferito,
e i detti andaro ove non giunse il volto.

III

Ninfa, onde lieto è di Diana il coro,
fiori coglier vid' io su questa riva;
ma non tanti la man cogliea di loro,
quanti fra l' erbe il bianco piè n' apriva.

Ondeggiavano sparsi i bei crin d' oro,
ond' Amor mille e mille lacci ordiva,
e l' aura del parlar dolce ristoro
era dal foco che da gli occhi usciva.

Fermò la Brenta per mirarla il vago
piede, e le feo del suo cristallo istesso
specchio a' bei lumi ed a le treccie bionde.

Poi disse: "Al tuo partir sì bella imago
partirà ben, Ninfa gentil, da l' onde,
ma 'l cor fia sempre di tua forma impresso".

IV

Fuggite, egre mie cure, aspri martiri,
sotto 'l cui peso giacque oppresso il core:
ché per albergo or lo destina Amore
a le sue gioie, a' suoi dolci desiri.

Sapete ben che quand' avien ch' io miri
que' soli accesi di celeste ardore,
non sostenete voi l' alto splendore,
né 'l fiammeggiar di duo cortesi giri.

Ma via fuggite, qual notturno e fosco
stormo d' augelli inanzi al dì, che torna
a rischiarar questa terrena chiostra.

E già, s' a certi segni il ver conosco,
vicino è 'l sol che le mie notti aggiorna,
e veggio Amor che me l' addita e mostra.

V

Veggio, quando tal vista Amor m' impetra,
sovra l' uso mortal madonna alzarsi
tal, ch' entro chiude le gran fiamme, ond' arsi,
riverenza, e stupor l' anima impetra.

Tace la lingua allora e 'l piè s' arretra,
e i miei sospir son chetamente sparsi:
pur nel pallido volto può mirarsi
scritto il mio affetto, quasi in bianca pietra.

Ben ella il legge, e 'n dir cortese e pio
m' affisa, e forse perché ardisca e parle,
di sua divinità parte si spoglia.

Ma sì quest' atto adempie ogni mia voglia,
ch' io più non cheggio, e non ho che narrarle,
ché quanto unqua soffersi allora oblio.

Torquato Tasso

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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