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Messaggi del 04/09/2015

Giotto (Vasari)

Post n°1977 pubblicato il 04 Settembre 2015 da valerio.sampieri
 

Giotto
Pittor Fiorentino

Quello obligo istesso che hanno gli artefici pittori alla natura, la quale continuamente per essempio serve a quegli che, cavando il buono da le parti di lei piú mirabili e belle, di contrafarla sempre s'ingegnano, il medesimo si deve avere a Giotto. Perché, essendo stati sotterrati tanti anni dalle ruine delle guerre i modi delle buone pitture et i dintorni di quelle, egli solo, ancora che nato fra artefici inetti, con celeste dono, quella ch'era per mala via, resuscitò, e redusse ad una forma da chiamar buona. E miracolo fu certamente grandissimo che quella età e grossa et inetta avesse forza d'operare in Giotto sí dottamente, che 'l disegno, del quale poca o nessuna cognizione avevano gli uomini di que' tempi, mediante sí buono artefice, ritornasse del tutto in vita. E nientedimeno i principii di sí grande uomo furono nel contado di Fiorenza, vicino alla città xiiii miglia. Era l'anno mcclxxvi nella villa di Vespignano uno lavoratore di terre, il cui nome fu Bondone, il quale era tanto di buona fama nella vita e sí valente nell'arte della agricoltura, che nessuno che intorno a quelle ville abitasse era stimato piú di lui. Costui, nello aconciare tutte le cose, era talmente ingegnoso e d'assai, che dove i ferri del suo mestiero adoperava, piú tosto che rusticalmente adoperati e' paressino, ma da una mano che gentil fussi d'un valente orefice o intagliatore, mostravano essere esercitati. A costui fece la natura dono d'un figliuolo, il | quale egli per suo nome alle fonti fece nominare Giotto. Questo fanciullo, crescendo d'anni, con bonissimi costumi e documenti mostrava in tutti gli atti, ancora fanciulleschi, una certa vivacità e prontezza d'ingegno straordinario ad una età puerile. E non solo per questo invaghiva Bondone, ma i parenti e tutti coloro che nella villa e fuori lo conoscevano. Per il che, sendo cresciuto Giotto in età di x anni, gli aveva Bondone dato in guardia alcune pecore del podere, le quali egli ogni giorno quando in un luogo e quando in un altro l'andava pasturando, e venutagli inclinazione da la natura dell'arte del disegno, spesso per le lastre, et in terra per la rena, disegnava del continuo per suo diletto alcuna cosa di naturale, o vero che gli venissi in fantasia. E cosí avenne che un giorno Cimabue, pittore celebratissimo, transferendosi per alcune sue occorrenze da Fiorenza, dove egli era in gran pregio, trovò nella villa di Vespignano Giotto, il quale, in mentre che le sue pecore pascevano, aveva tolto una lastra piana e pulita e, con un sasso un poco apuntato, ritraeva una pecora di naturale, senza esserli insegnato modo nessuno altro che dallo estinto della natura. Per il che fermatosi Cimabue, e grandissimamente maravigliatosi, lo domandò se volesse star seco. Rispose il fanciullo che, se il padre suo ne fosse contento, ch'egli contentissimo ne sarebbe. Laonde domandatolo a Bondone con grandissima instanzia, egli di singular grazia glielo concesse. Et insieme a Fiorenza inviatisi, non solo in poco tempo pareggiò il fanciullo la maniera di Cimabue, ma ancora divenne tanto imitatore della natura, che ne' tempi suoi sbandí affatto quella greca goffa maniera, e risuscitò la moderna e buona arte della pittura, et introdusse il ritrar di naturale le persone vive, che molte centinaia d'anni non s'era | usato. Onde, ancor oggi dí, si vede ritratto, nella cappella del Palagio del Podestà di Fiorenza, l'effigie di Dante Alighieri, coetaneo et amico di Giotto, et amato da lui per le rare doti che la natura aveva nella bontà del gran pittore impresse; come tratta Messer Giovanni Boccaccio in sua lode, nel prologo della novella di Messere Forese da Rabatta e di Giotto.

Furono le sue prime pitture nella Badia di Fiorenza, la cappella dello altar maggiore, nella quale fece molte cose tenute belle; ma particularmente in una storia della Nostra Donna, quando ella è annunziata da l'Angelo, nella quale contrafece lo spavento e la paura, che nel salutarla Gabriello la fé mettere con grandissimo timore quasi in fuga. Et in Santa Croce quattro cappelle, tre poste fra la sagrestia e la cappella grande: nella prima, e dove si suonono oggi le campane, vi è fatto di sua mano la vita di San Francesco, e l'altre due, una è della famiglia de' Peruzzi e l'altra de' Giugni, et un'altra dall'altra parte di essa cappella grande. Nella cappella ancora de' Baroncelli è una tavola a tempera, con diligenza da lui finita, dentrovi l'Incoronazione di Nostra Donna con grandissimo numero di figure picciole et un coro d'angeli e di santi, fatta con diligenzia grandissima, et in lettere d'oro scrittovi il nome suo. Onde gli artefici, che consideraranno in che tempo questo maraviglioso pittore, senza alcun lume della maniera, diede principio al buon modo di disegnare e del colorire, saranno sforzati averlo in perpetua venerazione. Sono ancora in detta chiesa altre tavole, et in fresco molte altre figure, come sopra il sepolcro di marmo di Carlo Ma[r]supini aretino, un Crocifisso con la Nostra Donna e San Giovanni e la Magdalena a' piè della Croce. E da l'altra banda della chiesa, sopra la sepoltura di Lionardo Aretino, una Nunziata verso l'altare maggiore, | la quale è stata ricolorita da altri pittori moderni, come nel refettorio uno albero di croce e storie di San Lodovico et un Cenacolo; e nella sagrestia, ne gli armarii, storie di Cristo e di San Francesco. Nel Carmino, alla cappella di San Giovanni Batista, lavorate in fresco tutte le storie della vita sua, e nella Parte Guelfa di Fiorenza una storia della fede cristiana in fresco, dipinta perfettissimamente. Fu condotto ad Ascesi a finir l'opera cominciata da Cimabue, dove passando da Arezzo lavorò nella pieve la cappella di San Francesco sopra il battesimo, et in una colonna tonda, vicino a un capitello corinzio antico bellissimo, dipinse un San Francesco e San Domenico. Al duomo fuor d'Arezzo una cappelluccia, dentrovi la Lapidazione di Santo Stefano con bel componimento di figure. Finite queste opere si condusse ad Ascesi, a l'opra cominciata da Cimabue, dove acquistò grandissima fama, per la bontà delle figure che in quella opera fece, nelle quali si vede ordine, proporzione, vivezza e facilità donatagli dalla natura e dallo studio accresciuta, percioché era Giotto studiosissimo e di continuo lavorava. Et allora dipinse nella chiesa di Santa Maria de gli Agnoli e, nella chiesa d'Ascesi de' frati minori, tutta la chiesa dalla banda di sotto. Sentí tanta fama e grido di questo mirabile artefice Papa Benedetto XII da Tolosa che, volendo fare in San Pietro di Roma molte pitture per ornamento di quella chiesa, mandò in Toscana un suo cortigiano, che vedesse che uomo era questo Giotto e l'opere sue, e non solamente di lui, ma ancora degli altri maestri che fussino tenuti eccellenti nella pittura e nel musaico. Costui, avendo parlato a molti maestri in Siena, et avuti disegni da loro, capitò in Fiorenza per vedere l'opere di Giotto e pigliar pratica seco; e cosí una mattina, arrivato in bot|tega di Giotto che lavorava, gli espose la mente del papa et in che modo e' si voleva valere dell'opera sua. Et in ultimo lo richiese che voleva un poco di disegno per mandarlo a Sua Santità. Giotto, che cortesissimo era, squadrato il cortigiano prese un foglio di carta et in quello, con un pennello che egli aveva in mano tinto di rosso, fermato il braccio al fianco per farne compasso e girato la mano, fece un tondo sí pari di sesto e di proffilo, che fu a vederlo una maraviglia grandissima. E poi, ghignando, volto al cortigiano gli disse: «Eccovi il disegno». Tennesi beffato il mandato del papa, dicendo: «Ho io [a] avere altro disegno che questo?» Rispose Giotto: «Assai e pur troppo è quel che io ho fatto: mandatelo a Roma insieme con gli altri e vedrete se sarà conosciuto». Partissi il cortigiano da Giotto, e quanto e' pigliasse mal volentieri questo assunto, dubitando non essere uccellato a Roma, ne fece segno co 'l non esser satisfatto nel suo partire; pure, uscito di bottega e mandato al papa tutti e' disegni, scrivendo in ciascuno il nome e di chi mano egli erano, tanto fece nel tondo disegnato da Giotto e nella maniera che egli l'aveva girato, senza muovere il braccio e senza seste, fu conosciuto dal papa e da molti cortigiani intendenti quanto egli avanzasse di eccellenzia tutti gli altri artefici de' suoi tempi. E perciò, divulgata[s]i questa cosa, ne nacque quel proverbio familiare e molto ancora ne' nostri tempi usato: «Tu sei piú tondo che l'O di Giotto». Il quale proverbio non solo per il caso donde nacque si può dir bello, ma molto piú per il suo significato, che consiste nella ambiguità del tondo, che oltra a la figura circulare perfetta significa ancora tardità e grossezza d'ingegno. Fecelo dunque il predetto papa venire a Roma, onorandolo grandemente e con premi riconoscendolo, dove fece la Tribuna | di San Pietro et uno angelo di sette braccia, dipinto sopra l'organo, e molte altre pitture, parte ristaurate da altri a' nostri dí, e parte nel rifondare le mura nuove, disfatte, e traportate da lo edificio del vecchio San Piero fin sotto l'organo; come una Nostra Donna che era in su[r] un muro, il quale, perché ella non andasse per terra, fu tagliato attorno et allacciato co' travi e ferri, e murata di poi per la sua bellezza dalla pietà et amore che portava all'arte il gentilissimo Messer Niccolò Acciaiuoli, dottore fiorentino, con altre restaurazioni moderne di pittura e di stucchi per abellire questa opera di Giotto. Fu di sua mano la nave del musaico, fatta sopra le tre porte del portico, nel cortile di San Pietro, la quale fu sí maravigliosa, et in quel tempo di tal disegno, d'ordine e di perfezzione, che le lode universalmente datele da gli artefici e da altri intendenti ingegni meritamente se le convengono. Fu chiamato a Napoli dal Re Ruberto, il quale gli fece fare in Santa Chiara, chiesa reale edificata da lui, alcune cappelle, nelle quali molte storie del Vecchio e Nuovo Testamento si veggono. Dove ancora, in una cappella, sono molte storie dell'Apocalisse, ordinategli (per quanto si dice) da Dante, fuor uscito allora di Firenze e condotto in Napoli anch'egli per le parti. Nel Castello de l'Uovo fece ancora molte opere, e particularmente la cappella di detto Castello. E fu sí da quel re amato, che oltra la pittura pigliò grandissimo piacere del suo ragionamento, avendo egli alcuni motti et alcune risposte molto argute, come fu quando dicendogli un giorno il re che lo voleva fare il prim'uomo di Napoli, «E per ciò», gli rispose Giotto, «son io alloggiato vicino a Porta Reale per esser il primo di Napoli». Et un'altra volta, dicendogli il re: «Giotto, s'io fusse in te, ora che fa caldo, tralasserei un poco il dipignere», rispose: «Et | io, se fussi in voi, farei il medesimo». Fecegli dunque fare molte cose in una sala che il Re Alfonso Primo ruinò per fare il castello, e cosí nella Incoronata. Dicesi che gli fu fatto dal re dipignere per capriccio il suo reame, per che Giotto gli dipinse uno asino imbastato, che teneva a' piedi un altro basto nuovo e, fiutandolo, faceva segno di desiderarlo; e su l'uno e l'altro basto era la corona reale e lo scettro della podestà. Domandato dunque Giotto da 'l re, nel presentargli questa pittura, de 'l significato di quella, rispose tali i sudditi suoi essere e tale il suo regno, nel quale ogni giorno nuovo signore desideravano. Ora, partitosi da Napoli, fu intertenuto in Roma dal Signor Malatesta da Rimini, che condottolo nella sua città moltissime cose nella chiesa di San Francesco gli fece dipignere; le quali da Sigismondo, figliuolo di Pandolfo, che rifece la chiesa tutta di nuovo, furono guaste e rovinate. Fece ancora nel chiostro di detto luogo, a l'incontro della facciata della chiesa, la istoria della Beata Michilina a fresco, che fu una delle piú belle et eccellenti cose che Giotto facesse, per le leggiadrissime considerazioni che ebbe questo rarissimo artefice nel dipignerla. Perché, oltra la bellezza de' panni, e la grazia e la vivezza delle teste de gli uomini e delle donne, che sono vivissime e miracolose, egli è cosa singularissima una giovane che v'è, bellissima quanto piú esser si possa, la quale, per liberarsi da la calumnia dello adulterio, giura sopra di un libro, con gli occhi fissi negli occhi del proprio marito, che giurar la faceva per diffidanza d'un figliuol nero partorito da lei, il quale in nissun modo che suo fusse poteva credere. Costei (cosí come il marito mostra lo sdegno e la diffidenza nel viso) fa conoscere, con la pietà della fronte e de gli occhi, a coloro che intentissimamente la contemplano, la innocenzia | e la simplicità sua, et il torto che se le faceva in farla giurare, e nel publicarla a torto per meretrice. Medesimamente grandissimo affetto fu quel ch'espresse questo ingegnosissimo artefice in un infermo di certe piaghe; dove tutte le femmine che vi sono dattorno, offese dal puzzo, fanno certi torcimenti schifosi, i piú graziati del mondo. Et in un altro quadro vi si veggono scorti bellissimi fra una quantità di poveri attratti; et è maravigliosissimo l'atto che fa la sopradetta beata a certi usurai, che le sborsano i danari della vendita delle sue possessioni, per dargli a' poveri, e le pare che i denari di costor putino; e vi è uno che, mentre quegli annovera, pare ch'accenni al notaio che scriva, e co 'l tenere le mani sopra i denari, fa conoscere, con garbatissima considerazione, l'affezzione e l'avarizia sua. Mostrò Giotto in tre figure, che in aria sostengano l'abito di San Francesco, figurate per l'obedienza e la pazienzia e la povertà, molta bella maniera di panni, i quali con bello andare di pieghe, morbidamente colorite, fanno conoscere a coloro che le mirano, che egli era nato per dar luce all'arte della pittura. Ritrasse di naturale il signor Malatesta in una nave, che pare vivissimo; et alcuni marinai et altre genti che, di prontezza e di affetto nelle attitudini loro, fanno conoscere l'eccellenzia di Giotto, come si vede in una figura, che parlando con alcuni si mette una mano al viso, sputando in mare. E certamente, fra tutte le cose fatte da Giotto in pittura, questa si può dire essere una delle migliori, perché non vi è figura, in cosí gran numero di figure, che non abbia in sé grandissimo e bell'artificio, e non sia posta con capricciosa attitudine. E però non mancò il Signor Malatesta, vistosi nascere nella sua città una delle piú belle cose del mondo, premiarlo e magnificamente lodarlo. Finiti i lavori di quel si|gnore, pregato da un prior fiorentino, che allora nella chiesa di San Cataldo, in quella città, era da' suoi superiori mandato, che egli volesse dipignerli, fuor della porta della chiesa, un San Tomaso d'Aquino che a' suoi frati leggesse la lezzione, esso per l'amicizia che seco aveva non mancò di satisfarlo, faccendoli una pittura molto lodevole. E di quivi partito andò a Ravenna, et in San Giovanni Vangelista fece una cappella a fresco lodata molto. Tornossi poi con grandissimo onore e con grandissima facultà a Fiorenza, dove in San Marco fece un Crocifisso in sul legno grande lavorato a tempera, maggiore che 'l naturale, in campo d'oro, il quale fu messo a mano destra in chiesa; et un simile ne fece in Santa Maria Novella, sul quale Puccio Capanna suo creato in compagnia di lui lavorò, et ancora oggidí è locato sopra la porta maggiore nell'intrata della chiesa. Dipinse in fresco nel medesimo luogo un San Lodovico, sopra al tramezzo della chiesa a man destra, sotto la sepoltura de' Gaddi; e ne' frati umiliati in Ogni Santi una cappella e quattro tavole. E fra l'altre una, dentrovi una Nostra Donna, con molti angeli attorno et il figliuolo in braccio; et un Crocifisso grande in legno, da 'l quale Puccio Capanna, pigliando il disegno, molti per tutta Italia ne lavorò, avendo presa molto la pratica e la maniera di Giotto. Nel tramezzo della chiesa in detto luogo è appoggiata una tavolina a tempera, dipinta di mano di Giotto con infinita diligenza e con disegno e vivacità dentrovi la Morte di Nostra Donna, con gli Apostoli che fanno l'essequie, e Cristo che l'anima in braccio tiene; da gl'artefici pittori molto lodata, e particularmente da Michel Agnolo Buonaroti, attribuendole la proprietà della storia essere molto simile al vero. Oltra che le attitudini nelle figure con grandissima grazia dello arte|fice sono espresse. E veramente fu in que' tempi un miracolo il vedere in Giotto tanta vaghezza nel dipignere e considerare ch'egli avesse appreso quest'arte senza maestro.

Avvenne che, per aver Giotto nel disegno fatto una bellissima pratica, li fu fatto fare molti disegni, e non solamente per pitture, ma per fare delle sculture ancora; come quando l'Arte de' Mercatanti volse far gettar di bronzo le porte del Batisteo di San Giovanni, egli disegnò per Andrea Pisano tutte le storie di San Giovanni Batista, ch'è quella porta che volta oggi verso la Misericordia. Ma quanto e' valesse nella architettura lo dimostrò nel modello del campanile di Santa Maria del Fiore, che essendo mancato di vita Arnolfo Todesco, capo di quella fabrica, e desiderando gli operai di quella chiesa, e la Signoria di quella città, che si facesse il campanile, Giotto ne fece fare co 'l suo disegno un modello di quella maniera todesca che in quel tempo si usava, e per averlo egli ben considerato, inoltre disegnò tutte le storie che andavano per ornamento in quella opera. E cosí scompartí di colori bianchi, rossi e neri in sul modello, tutti que' luoghi dove avevano andare le pietre et i fregi, con grandissima diligenzia, et ordinò che 'l circuito da basso fussi in giro di larghezza de braccia 100, ciò è braccia 25 per ciascuna faccia e l'altezza braccia 144; nella quale opera fu messo mano l'anno mcccxxxiiii e seguitata del continuo, ma non sí che Giotto la potessi veder finita, interponendosi la morte sua. Mentre che questa opera si andava fabricando, fece egli, nelle Monache di San Giorgio, una tavola, e nella Badia di Fiorenza, in uno arco sopra la porta di dentro alla chiesa, tre mezze figure, oggi dalla ignoranzia d'uno abbate fatte imbiancare per illuminare la chiesa. Nella sala grande del Podestà di Fiorenza, per mettere paura a i | popoli dipinse il commune ch'è rubato da molti; dove in forma di giudice con lo scettro in mano a sedere lo figura, e le bilance pari sopra la testa, per le giuste ragioni ministrate da esso, et aiutato da quattro figure, dalla Fortezza con l'animo, dalla Prudenzia con le leggi, dalla Giustizia con l'armi e dalla Temperanza con le parole; pittura bella et invenzione garbata, propria e verisimile. Partissi di Fiorenza per fare nel Santo di Padova alcune cappelle, dove molto dimorò, perché fece ancora nel luogo dell'arena una Gloria Mondana, la quale gli diede molto onore. Et a Milano trasferitosi quivi ancor lavorò, et a Fiorenza ritornatosi, alli viii di gennaio nel mcccxxxvi rese l'anima a Dio, onde da gli artefici pianto et a' suoi cittadini assai doluto, non senza portarlo alla sepoltura con quelle esequie onorevoli che a una tanta virtú com'era quella di Giotto si convenissi, et a una patria come Fiorenza, degna d'uno ingegno mirabile come il suo. E cosí quel giorno non restò uomo, piccolo o grande, che non facesse segno con le lacrime o co 'l dolersi della perdita di tanto uomo. Il quale, per le rare virtú che in lui risplenderono, meritò, ancora che e' fosse nato di sangue vile, lode e fama certo chiarissima.

Il campanile di Santa Maria del Fiore fu seguitato e tirato avanti da Taddeo Gaddi suo discepolo, in su lo stesso modello di Giotto. Et è opinione di molti, e non isciocca, che egli desse opera alla scoltura ancora, attribuendogli ch'e' facesse due storiette di marmo che sono in detto campanile, dove si figurano i modi et i principii dell'arti, ancora che altri dichino solamente il disegno di tali storie essere di sua mano. Restò in memoria della sua sepoltura in Santa Maria del Fiore, dalla banda sinistra entrando in chiesa, un mattone di marmo, dove è sepolto il corpo suo.

I discepoli suoi furono Taddeo sopradetto e Puccio Capanna, | che in Rimini nella chiesa di San Cataldo de' frati predicatori, dipinse un voto d'una nave che par che affoghi nel mare, con gente che gettano le robe nel mare. Et evvi Puccio di naturale, fra un buon numero di marinari. Fu ancora suo discepolo Ottaviano da Faenza, che in San Giorgio di Ferrara, luogo de' monaci di Monte Oliveto, dipinse molte cose; et in Faenza sua patria, dove egli visse e morí, dipinse nello arco sopra la porta di San Francesco una Nostra Donna con San Piero e San Paulo. E Guglielmo da Forlí, che fece molte opere, e particularmente la cappella di San Domenico nella sua città. Furono similmente creati di Giotto Simon Sanese, Stefano Fiorentino e Pietro Cavallini romano, et altri infiniti, i quali molto alla maniera et alla imitazione di lui s'accostarono. Restò nelle penne di chi scrisse a suo tempo, e poi, tanta maraviglia del nome suo, per esser stato primo a ritrovare il modo di dipignere, perduto inanzi lui molti anni, che dal Magnifico Lorenzo Vecchio de' Medici, facendosi egli di questo maestro ogni giorno piú maraviglia, meritò d'avere in Santa Maria del Fiore la effigie sua scolpita di marmo; e dal divino uomo Messer Angelo Poliziano lo infrascritto epitaffio in sua lode, acciò che quegli che verranno eccellenti e rari in qual si voglia professione, debbino valorosamente esercitarsi per avere di sí fatte memorie, meritandole, in lode loro dopo la morte, come fe' Giotto:

ILLE EGO SVM PER QVEM PICTVRA EXTINCTA REVIXIT
CVI QVAM RECTA MANVS TAM FVIT ET FACILIS
NATVRAE DEERAT NOSTRAE QVOD DEFVIT ARTI
PLVS LICVIT NVLLI PINGERE NEC MELIVS
MIRARIS TVRRIM EGREGIAM SACRO AERE SONANTEM?
HAEC QVOQVE DE MODVLO CREVIT AD ASTRA MEO
DENIQVE SVM IOTTVS. QVID OPVS FVIT ILLA REFERRE?
HOC NOMEN LONGI CARMINIS INSTAR ERIT

Giorgio Vasari (1511-1574), Le vite de più eccellenti architetti, pittori et scultori (1550)

 
 
 

Er voto

Er voto

Senti st’antra. (1) A Ssan Pietro e Mmarcellino
sce (2) stanno scerte Moniche bbefane,
c’aveveno pe vvoto er contentino
de maggnà ttutto-cuanto co le mane.

Vedi si una forchetta e un cucchiarino,
si un cortelluccio pe ttajjacce (3) er pane,
abbi da offenne Iddio! N’antro tantino
leccaveno cor muso com’er cane!

Pio Ottavo però, bbona-momoria, (4)
che vvedde una matina cuer porcaro,
je disse: "Madre, e cche vvò ddí sta storia?

Sete state avvezzate ar Monnezzaro?! (5)
Che vvoto! un cazzo. A ddio pò ddàsse groria (6)
puro (7) co la forchetta e ccor cucchiaro".

Giuseppe Gioachino Belli
Roma, 2 febbraio 1833
Sonetto 853

Note:
1 Altra.
2 Ci.
3 Tagliarci.
4 In una visita che loro fece all’improvviso.
5 Immondezzaio.
6 Può darsi gloria.
7 Pure.

 
 
 

Giovanni Guidiccioni 2

XXI
Di M. Giovanni Guidiccione

11

Dunque, BUONVISO mio, del nostro seme
Debbe i frutti raccor barbara mano,
E da le piante coltivate in vano
I cari pomi via portarne insieme?

Questa madre d’imperi ognora geme
(Scolorato il real sembiante umano)
Sì larghi danni e ’l suo valor sovrano,
La libertate e la perduta speme;

E dice: "O Re del ciel, se mai t’accese
Giust’ira a raffrenar terreno orgoglio,
Or tutte irato le saette spendi.

Vendica i miei gran danni e le tue offese,
O quanto è ingiusto il mal, grave il cordoglio,
Tanto del primo mio vigor mi rendi".


12

Vera fama fra i tuoi più cari sona
Ch’al paese natio passar da quelle
Quete contrade, ov’or dimori, e belle
(Né spiar so perché) disio ti sprona.

Qui sol d’ira e di morte si ragiona,
Qui l’alme son d’ogni pietà rubelle,
Qui i pianti e i gridi van sovra le stelle,
E non più al buon ch’al rio Marte perdona;

Qui vedrai i campi solitarii e nudi,
E sterpi e spine in vece d’erbe e fiori,
E nel più verde april canuto verno;

Qui i vomeri e le falci in via più crudi
Ferri converse, e pien d’ombre e d’orrori
Questo de’ vivi doloroso inferno.


13

Empio ver me di sì gentil riesci,
Amor, che col velen de la paura
Stempri il mio dolce, e men che mai secura
Fai l’alma allor che tu più ardito cresci.

Pur dianzi mi gradisti, or mi rincresci,
Sì poco il tuo gioir diletta e dura.
Strugga, signor, questa gelata cura
Tua pietà ardente, o fuor del mio pett’esci.

Che s’io deggio languir quando più fissi
Nel profondo del ben sono i miei spirti,
Io prego che ’l tuo stral più non mi tocchi.

S’allor ch’io gelo in alta fiamma udissi
Quel che ’l sentito ben mi vieta dirti,
Verresti a lacrimar ne’ suoi begli occhi.


14

Mal vidi, Amor, le non più viste e tante
Bellezze sue, se nel più lieto stato
Dovea languire, e con la morte a lato
L’orme seguir de le leggiadre piante.

Spesso col sol de le sue luci sante
Chiudo il mio dì seren, l’apro beato,
E scorgo ivi il Piacer ch’è teco armato
Contra i sospetti del mio cor tremante.

Ma nulla val: che da’ begli occhi lungi
Tal nasce giel da le mie fiamme vive
Che visibilemente ogni ben more.

Forse sei tu che poi mi segui e giungi
E nanzi a lei, ch’ogni tuo ardir prescrive,
Lusinghi e queti l’affannato core.


15

Scaldava Amor ne’ chiari amati lumi
Suo’ acuti strai d’una pietà fervente,
Per più fero assalirmi il cor dolente
Mentre n’uscian duo lagrimosi fiumi.

Io, che le ’nsidie e i suoi duri costumi
So per lungo uso, allor subitamente
Spingo ’l cor nel bel pianto u’ vita sente,
Perché ’n calda pietà non si consumi.

Come ne la stagion men fresca suole,
Se la notte la bagna, arida erbetta
Lieta mostrarsi all’apparir del sole,

Ris’ei ne la rugiada de’ begli occhi,
Baciolli e disse: "Amor, la tua saetta
Di pietà non tem’io che più mi tocchi".


16

Le tue promesse, Amor, come sen vanno
Spesso vote di fé verso i martiri,
Come nascon nel cor feri desiri
Quando interdette le speranze stanno!

Non è presto al venir se non il danno:
Io ’l so che ’l sento; e tu che lieto il miri
Dammi dond’io talor dolce respiri
Dal grave peso di sì dolce affanno.

Per virtù del tuo santo aurato strale
Raccolta sia la mia speranza ov’ebbe
Albergo già sì aventuroso e degno;

Sostenti la tua fé pena mortale,
Ed al cader non sia meno il sostegno
Che desti al cor quando di lui t’increbbe.


17

Se ’l vostro sol, che nel più ardente e vero
Eterno Sol s’interna e si raccende,
Splendesse or qui come su ’n cielo splende,
Tanto a’ vostr’occhi bel quanto al pensiero,

L’Aquila avria dove fermar l’altero
Guardo, ch’or forse oscura nube offende,
E quel ch’a spegner l’alta luce intende
Del buon nome cristian saria men fero.

Che, come quel che per Vittoria nacque,
E per quella vivrà, gli apriria ’l fianco,
Quasi folgor che fenda eccelsa pianta;

E voi lieta non men che cara e santa
Cantereste i suoi gesti e l’ardir franco,
Qual celeste sirena in mezzo all’acque.


18

Quanto a’ begli occhi vostri e quanto manca
A’ seguaci di Cristo, poi che morte
Spense quel sol ch’or la celeste corte
Alluma e ’l cerchio bel di latte imbianca!

Quei non vedon più cosa onde la stanca
Mente nel gran desio si riconforte,
Ma piangon l’ore ai lor diletti corte
E la luce a’ bei giorni oscura e manca.

Questi contra ’l furor del fero Scita,
Ch’or sì possente vien ne’ nostri danni,
Avrian ferma speranza di salute:

Ch’un raggio sol della sua gran vertute
Vincer potria la costui voglia ardita,
E le nebbie sgombrar de’ nostri affanni.


19

Se ben sorge talor lieto il pensiero
A’ caldi raggi del suo amato sole,
E vede il volto ed ode le parole,
Quasi in un punto poi l’attrista il vero.

Quanto più pago andria sciolto e leggiero
Ad imparar ne le celesti scole
Gli alti segreti e quelle gioie sole,
Se l’occhio vivo lo scernesse e vero!

Percioché fisso nel suo caro obietto
A la mente daria sì fida aita
Che non l’impediria l’ira e ’l dolore.

Allor vedrebbe il ben fermo e perfetto,
E tutta piena d’un beato ardore
Gusteria il dolce di quell’alma vita.


20

GIOVIO, com’è che fra l’amaro pianto
De l’alta donna tua, fra tanti affanni,
Fra le triste membranze e i neri panni,
S’oda sì dolce e sì felice canto?

Cercando il suo bel sol col pensier santo,
Ch’a morte studia far onta ed inganni,
Cred’io che s’erga a quei superni scanni
Ov’oda e ’mprenda il suon mirabil tanto.

Che come vince l’armonia celeste
L’uman udir, così ’l bel dir ne lega
I sensi d’un piacer che suol beare.

Deh perché ’l mio, che ’ndarno l’ali spiega,
Seco non guida al ciel, sol perché queste
Voci del nome suo sian dolci e chiare?


21

Tu, che con gli occhi ove i più ricchi e veri
Trionfi addusse e tenne il seggio Amore,
Festi pago il desio, dolce il dolore,
E serenasti i torbidi pensieri,

Tu (potrò in tanto duol mai dirlo?), ch’eri
Specchio di leggiadria, di vero onore,
Sei spenta; ed io pur vivo in sì poche ore,
Misero essempio degli amanti altieri.

Aprasi il tetro mio carcer terreno,
E tu, vero e nuovo angelo celeste,
Prega il Signor che mi raccolga teco,

E per te salvo sia nel bel sereno
Eterno, come fui felice in queste
Nubi mortali, ove or son egro e cieco.

Giovanni Guidiccioni
Da: Rime diverse di molti Eccellentissimi Autori (a cura di Lodovico Domenichi - Giolito 1545)

 
 
 

Giovanni Guidiccioni 1

XXI
Di M. Giovanni Guidiccione

1

Viva fiamma di Marte, onor de’ tuoi,
Ch’Urbino un tempo e più l’Italia ornaro,
Mira che giogo vil, che duolo amaro
Preme or l’altrice de’ famosi eroi.

Abita morte ne’ begli occhi suoi,
Che fur del mondo il sol più ardente e chiaro,
Duolsene il Tebro, e grida: "O duce raro,
Muovi le schiere onde tant’osi e puoi,

E qui ne vien dove lo stuol de gl’empi
Fura le sacre e gloriose spoglie,
E tinge il ferro d’innocente sangue.

Le tue vittorie e le mie giuste voglie,
E i diffetti del fato ond’ella langue,
Tu che sol dèi con le lor morti adempi".


2

Dal pigro e grave sonno, ove sepolta
Sei già tanti anni, omai sorgi e respira,
E disdegnosa le tue piaghe mira,
Italia mia, non men serva che stolta.

La bella libertà, ch’altri t’ha tolta
Per tuo non sano oprar, cerca e sospira,
E i passi erranti al camin dritto gira
Da quel torto sentier dove sei volta.

Che se risguardi le memorie antiche,
Vedrai che quei che i tuoi trionfi ornaro
T’han posto il giogo e di catene avvinta.

L’empie tue voglie a te stessa nemiche,
Con gloria d’altri e con tuo duolo amaro,
Misera, t’hanno a sì vil fine spinta.


3

Da questi acuti e dispietati strali,
Che Fortuna non sazia ognora aventa
Nel bel corpo d’Italia, onde paventa
E piange le sue piaghe alte e mortali,

Bram’io levarmi omai su le destre ali
Che ’l desio impenna e dispiegar già tenta,
E volar là dove io non veggia e senta
Quest’egra schiera d’infiniti mali.

Che non poss’io soffrir chi fu già lume
Di beltà, di valor, pallida e ’ncolta
Mutar a voglia altrui legge e costume,

E dir versando il glorioso sangue:
"A che t’armi Fortuna? A che sei volta
Contra chi vinta cotanti anni langue?".


4

Questa, che tanti secoli già stese
Sì lungi il braccio del felice impero,
Donna de le provincie e di quel vero
Valor che ’n cima d’alta gloria ascese,

Giace vil serva, e di cotante offese
Che sostien dal Tedesco e da l’Ibero
Non spera il fin, che indarno Marco e Piero
Chiama al suo scampo ed a le sue difese.

Così caduta la sua gloria in fondo,
E domo e spento il gran valor antico,
A i colpi de l’ingiurie è fatta segno.

Puoi tu, non colmo di dolor profondo,
BUONVISO, udir quel ch’io piangendo dico,
E non meco avampar d’un fero sdegno?


5

Prega tu meco il ciel de la su’ aita,
Se pur (quanto devria) ti punge cura
Di quest’afflitta Italia, a cui non dura
In tanti affanni omai la debil vita.

Non può la forte vincitrice ardita
Regger (chi ’l crederia?) sua pena dura,
Né rimedio o speranza l’assecura,
Sì l’odio interno ha la pietà sbandita.

Ch’a tal (vostre rie colpe e di Fortuna)
È giunta, che non è chi pur le dia
Conforto nel morir, non che soccorso.

Già tremar fece l’universo ad una
Rivolta d’occhi, ed or cade tra via,
Battuta e vinta nel suo estremo corso.


6

Fia mai quel dì che ’l giogo indegno e grave
Scotendo con l’esilio de gli affanni
Possiam dire: "o graditi e felici anni,
O fortunata libertà soave!

Cosa non fia che più n’affliga e grave,
Or che ’l ciel largo ne ristora i danni,
Or che la gente de’ futuri inganni,
O d’altra acerba indegnità non pave"?

Fia mai quel dì che bianca il seno e ’l volto
E la man carca di mature spiche
Ritorni a noi la bella amata Pace?

E ’l mio BUONVISO con onor raccolto
Fra i degni Toschi c’han le Muse amiche
Senta cantar d’Amor l’arco e la face?


7

Il Tebro, l’Arno, il Po queste parole
Formate da dolor saldo e pungente
Odo io, che sol ho qui l’orecchie intente,
Accompagnar col pianto estreme e sole:

"Chiuso e sparito è in queste rive il sole,
E l’accese virtù d’amore spente;
Ha l’oscura tempesta d’occidente
Scossi i be’ fior de’ prati e le viole;

E Borea ha svelto il mirto e ’l sacro alloro,
Pregio e corona vostra, anime rare,
Crollando i sacri a Dio devoti tetti.
Non avrà ’l mar più le nostr’acque chiare,

Né per gl’omeri sparse i bei crin d’oro
Fuor le Ninfe trarran de l’onde i petti".


8

Il non più udito e gran publico danno,
Le morti, l’onte, e le querele sparte
D’Italia, ch’io pur piango in queste carte,
Empieran di pietà quei che verranno.

Quanti (s’io dritto stimo) ancor diranno:
"O nati a peggior anni in miglior parte!",
Quanti movransi a vendicarne in parte
Del barbarico oltraggio e de l’inganno!

Non avrà l’ozio pigro e ’l viver molle
Loco in quei saggi ch’anderan col sano
Pensiero al corso de gl’onori eterno;

Ch’assai col nostro sangue avemo il folle
Error purgato di color ch’in mano
Di sì belle contrade hanno il governo.


9

Mentre in più largo e più superbo volo
L’ali sue spande e le gran forze muove
Per l’italico ciel l’augel di Giove,
Come re altero di tutti altri e solo,

Non vede accolto un rio perfido stuolo
Entro al suo proprio e vero nido altrove,
Ch’ancide quei di mille morti nuove
E questi ingombra di spavento e duolo;

Non vede i danni suoi, né a qual periglio
Stia la verace santa fé di Cristo,
Che (colpa, e so di cui) negletta more;

Ma tra noi vòlto a insaguinar l’artiglio,
Per fare un breve e vergognoso acquisto
Lascia cieco il camin vero d’onore.


10

Ecco che muove orribilmente il piede
E scende quasi un rapido torrente
Da gli alti monti nuova ingorda gente,
Per far di noi più dolorose prede,

Per acquistar col sangue nostro fede
A lo sfrenato lor furore ardente;
Ecco ch’Italia, misera dolente,
L’ultime notti a mezzo giorno vede.

Che debbe or Mario dir, che fe’ di queste
Fere rabbiose già sì duro scempio,
E gli altri vincitor di genti strane,

Se quest’alta reina in voci meste
Odon rinovellare il dolor empio,
E ’n van pregar chi le sue piaghe sane?

Giovanni Guidiccioni
Da: Rime diverse di molti Eccellentissimi Autori (a cura di Lodovico Domenichi - Giolito 1545)

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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