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Messaggi del 14/09/2015

Camillo Scroffa 2

I cantici di Fidentio Glottochrysio Ludimagistro.

VII

Mandami in Syria, mandami in Cilicia,
Mandami ne la Gallia ulteriore,
Nel mar rubeo, c’ ha i flutti di cruore,
In Paphlagonia, in Bithynia, in Phenicia.

Fammi paupero, (1) ò dammi gran diviCia. (2)
Fà il mio gymnasio vacuo à tutte l’ hore,
Fal locuplete (3) con mio grande honore,
Fà ch'io sia mesto, ò sia pien di letiCia.

Fammi san, fammi valetudinario, (4)
Fammi di questo globo mondiale
Monarcha, ò fammi in carcere penare:

Di Camillo il mio cor fia saettario,
Ch’ essendo in lui l’ arundine lethale
Fixa, non val latibuli cercare.

Note:
1 povero
2 dovizia, ricchezza.
3 fallo guadagnare.
4. fammi godere di buona salute.



VIII

Io cantarei tanto mellifluamente,
Ch'io farei parer ansere un’ olore,
Et extrarrei da l’ obdurato core
Mille sospir quotidianamente;

Et vedrei permutar molto sovente
Quell’ ampia fronte, ove hà il vexillo Amore,
Et gli ocelli contriti del suo errore
Dar pharmaco al mio cor humanamente;

E 'l nome, ch’ ogn’ hor invoco e desio,
Assai piu sublimepeta farei,
Che l’ alite non è del sommo Jove;

Se ’l mio Carmil, le cui bellezze nove
S’ han pedissequi fatti i pensier miei,
Grate aure un dì prestasse al cantar mio.



IX

Non da l’Olympo al centro infimo teReo,
Nè dà l’ Orto Phebeo fin’ à l’ interito
Exta, per qualche ingente mio demerito,
Un cor del tuo più adamantino e feReo.

Lapso (1) è un triennio, ch’ io deficio (2) e pereo.
Tui gratia , nè però d’ exiguo merito
Doni il mio famulitio, onde sì teRito
Si afflitto son, ch’ io gesto aspetto cereo.

Et se ignoto mi fosse, che l’ adagio
Dice, che ’l marmo e ogn’ aspra cote rigida
Fracta riman da diuturna guTula:

Sò che non prestolando altro suffragio
Humata già saria la carne e frigida,
E la voce, ove hor clama, inane e mutula.

Note:
1 trascorso.
2 manco.



X

Empio, immite Camil, poichè con studio
Hai sempre ricercato intento e assiduo,
Di far con la mia morte orbato e viduo
Dele lettere humane l'aureo studio,

Non perder hora così bel tripudio,
Vien, non procrastinar, che più residuo
Homai non hò di vita integro un biduo,
Et già morte comincia il suo preludio.
 
Vien, che cibo si fia dolce e lautissimo,
Vedermi in questo lectulo languescere (1)
Magro, pallido, afflitto, seminanime:

E s’ hai timor che'l tuo advento optatissimo
Mi faccia aliquantisper convalescere,
Porta teco un prigione, (2) e fammi exanime.

Note:
1 languire in questo piccolo letto.
2 la parola è poco intellegibile nel testo.



XI

O giorno con lapillo albo signando,
Giorno al mio gaudio & al mio ben fatale,
Aureo, felice, & più del mio natale
Da me perpetuamente celebrando:

Quand’ io credea migrar del secur, quando
Credea proxima haver l’ hora lethale,
Tu propitio di me scacci ogni male,
E mi vai tutto dentro exhilarando.

Tu santo dì, tu luce amata e cara,
Dopo absentia sì ria, pene sì dure,
Rendi à questi occhi il suo Camillo adorno.

Drizzate tosto Messer Blasio un'ara,
Datemi il plectro, portate igne e chure,
Ch'io vò far sacrificio a sì bel giorno.

Camillo Scroffa

Sonetti tratti da: I cantici di Fidentio Glottochrysio Ludimagistro. Con aggiunta di poche altre vaghe composizioni nel medesimo genere. Alcune delle quali ora solamente sono date in luce.
In Vicenza. MDCCXLIII Per Pierantonio Berno stampatore, e Libraio. Con licenza de’ Superiori

 
 
 

De claris mulieribus 29

CAPITOLO XXIX.
Delle donne de’ Compagni di Jason.

Noi non sappiamo lo numero, nè i nomi delle donne de’ Menj; o che sia per la pigrizia di quei che scrissero al suo tempo, o che sia per difetto della lunghezza del tempo, è indegna cosa; avendo meritato quelle grandissima lode di gloria per grandi opere. Ma poichè così è paruto alla odiosa fortuna, isforzerommi, con quanta arte potrò, redurre quelle nominate, a mio potere, con degna lode alla memoria di quegli che verranno drieto, come quelle che bene l’hanno meritato. Dunque i Menj furono de’ compagni di Jason, e degli Argonauti giovani famosi di non piccola nobiltà, i quali compiuta l’andata di Colco, tornati in Grecia, lasciata la loro antica patria, elessero loro sedia appresso i Lacedemonj; dai quali non solamente fu concesso la cittadinanza a quegli amorevolmente, ma furono ricevuti tra i Senatori i quali reggevano la Repubblica. Della quale splendida cortesia i successori non ricordandosi, ardirono, volere sottomettere per sè la pubblica libertà a vituperosa servitù. Furono in quel tempo ricchissimi giovani, e non solamente famosi per sua virtù, ma eziandio circondati di doppia chiarezza per li parentadi de’ nobili Lacedemonj e intra le altre cose avevano bellissime donne, le quali erano nate de’ nobili cittadini. E certamente non è l’ultima parte dell’onore del mondo; al quale onore s’accostavano grandi sette, per le quali non sentivano l’amistà della patria pubblicamente, ma, appropriandola a’ suoi meriti, montarono a tanta matteria, che pensarono, dovere essere messi innanzi agli altri: di che egli caddero a cupidità di signoria, ed a questo posero sua forza ad occupare la Repubblica presuntuosamente. Per la qual cosa, scoperto lo peccato, furono presi, e messi in prigione per l’autorità della Repubblica, furono sentenziati a pena capitale, come nemici della patria. E dovendo loro essere data la morte da’ manigoldi, la seguente notte secondo l’usanza de’ Lacedemonj, le loro donne triste e piangendo, per deliberazione de’ mariti pigliarono questo consiglio, e secondo lo pensiero non indugiarono; ma fatto sera, in oscure vestimenta, con la faccia coperta e piena di lagrime andavano alle prigioni per vedere i mariti. Lievemente fu loro conceduto dalle guardie andare a quegli, perchè erano gentili donne. Ai quali essendo arrivate, non si spese il tempo in lagrime e in pianto; ma subito, manifestato lo suo consiglio a’ mariti, mutate le vesti, imbendati quegli a modo di femmine, piangendo e cogli occhi bassi a terra, mostrando tristizia, aiutandogli l’oscurità della notte, e la reverenza, perchè erano nobili donne, ingannando le guardie, misono fuori quegli che dovevano morire, rimanendo elleno in luogo di quei dannati: e non fu conosciuto l’inganno infino che andando i manigoldi per fare morire i dannati, trovarono le mogli in luogo de’ mariti. E per certo fu grande e singolare amore delle donne. Ma lasciamo le beffe e l’inganno contro alle guardie, che fu salute de’ dannat; e che sia partito a’ Padri, e che sia seguito. E primieramente contemplarne alquanto la forza del matrimoniale amore, e l’ardire di quelle donne. Alcuni dicono, che non è più mortale odio, che quello delle discordie delle mogli, essendo che fermate in nodo indissolubile, secondo antico ordinamento di natura; e così quando elle convengono co’ loro mariti, lo suo amore passa tutti; perchè scaldato dal fuoco di ragione non arde istoltamente, ma scalda con piacere e scalda di tanta carità, che sempre vogliono e non vogliono pazientemente; e lo amore usato a sì piacevole unità non lascia alcuna cosa contro la sua conservazione, e non fa alcuna cosa pigramente e freddamente: e se la fortuna è contraria, di propria volontà sottentra alle fatiche e a’ pericoli; e con socia sollecitudine alla salute pensa e delibera; trova i rimedj, e fabbrica gl’inganni, se la bisogna il richiede. Questo, soavissimo e già formato con piacevole vivere, sospinse gli animi delle donne de’ Menj con tanto furore, che elle trovarono quegli inganni, i quali non avrebbono potuto vedere innanzi: nel pericolo de’ mariti, struggendo le forze dell’ingegno, apparecchiarono gl’istrumenti, e l’ordine delle cose che avevano a fare, acciocchè elle ingannassero le guardie accorte e aspre; e rimossa la oscurità de’ sensi, pensarono che niuna cosa si dee lasciare per la salute di quello che noi amiamo; e cercata la pietà nell’intimo segreto del cuore, acciocchè elle traessero i mariti del pericolo, con presuntuoso ardire entrarono in quello, acciocchè il casto amore delle mogli assolvesse quegli che parevano esser tenuti da duro e capitale supplicio, traendogli delle mani de’ manigoldi. E queste, che parve grandissima cosa, beffata la possanza delle leggi per pubblico decreto e autorità del Senato, e ingannata tutta la volontà della città, acciocchè compiessero quello che elle desideravano, non temerono rimanere serrate sotto la signoria delle ingannate guardie in luogo dei dannati. E certamente io non sono sufficiente ad ammirazione di così pura fede, di così integro amore. Per questo ho per fermo, se elle avessero amato temperazione, e fossero state congiunte a quelli con sottile legame, sarebbe stato lecito a quella stare pigre in ozio a casa loro, e non arebbono queste fatto sì fatte cose. E acciocchè con poche parole io conchiuda molte cose, ardisco affermare, queste essere stati veri e certi uomini, e quegli giovani Menj essere state le femmine che faceano quella finzione.

Giovanni Boccaccio

De claris muljeribus
VOLGARIZZAMENTO
DI MAESTRO DONATO ALBANZANI DA CASENTINO
[ca. 1336 - fine secolo XIV]

 
 
 

Vent'ora e un quarto

Vent'ora e un quarto

Su, cciocchi, monci, (1) mascine da mola:
lesti, ché ggià è ffinita la campana.
Ch’edè? (2) Vv’amanca una facciata sana?
È ppoco male; la farete a scola.

Via, sbrigàmose, (3) alò,(4) cch’er tempo vola;
mommó (5) ddiluvia e la scola è llontana.
Nun è vvaganza, no: sta sittimana
don Pio nun dà cc’una vaganza sola.

Dico eh, nun zeminamo (6) cartolari:
nun c’incantamo pe le strade: annamo (7)
sodi, e a scola nun famo (8) li somari.

Scola santa! e cchi è cche tt’ha inventato!
Quadrini bbenedetti ch’io ve chiamo!
Che rriposo de ddio! che ggran rifiato! (9)

Note:
1 Pigri.
2 Che è?
3 Sbrighiamoci.
4 Allons. [Questo francesismo appare almeno 18 volte nei sonetti del Belli. VS]
5 Or ora. [La grafia "mommó" appare almeno 16 volte nei sonetti del Belli (due volte come "mommò"). 262 volte appare la grafia "mó (11 delle quali come "mò"; altre 76 volte appare "mo"; 6 volte "mmone" (1 delle quali come "mmóne"); 11 volte mmommó (3 volte mmommò) e 1 mommone. Infine ci sono: mmo 11 volte, mmó 143 volte e mmò 2 volte. VS]
6 Non seminiamo.
7 Andiamo.
8 Facciamo.
9 Ristoro.

Giuseppe Gioachino Belli
15 gennaio 1835
(sonetto 1429)

 
 
 

Pija su, porta a'ccasa

Post n°2020 pubblicato il 14 Settembre 2015 da valerio.sampieri
 

Pija su, porta a'ccasa

E ddì a mamma che sso' ccerase

Quann'abbitavo a vvia der Ghettarello,
Ce stava incontra mme 'na pacioccóna,
Cusì bbôna, credete, ccusi bbôna,
Che mme faceva arisvortà' er cervello.

Io daje a ddije: grugnettino bbello;
Lei se sa, cce godeva, la bbriccona!
Quant'un giorno su' zzia vinne a ssapello,
E pper un pélo un antro po' la sôna.

"Na vorta fra li vetri, indovinate?
Ce vedo un'ombra; dico: "quest' è Llalla;"
E je faccio: "Bbongiorno: come state?"

Che straccio de figura bbuscarona!
Era la zzia la pòssin'ammazzalla.
M'arispose: "sto ccome 'na... minchiona!"

Giggi Zanazzo
2 febbraio 1882.
(Da: "Poesie e prose scelte", Perino, pag. 175)

 
 
 

Fra du' amiche

Post n°2019 pubblicato il 14 Settembre 2015 da valerio.sampieri
 

III.

Fra du' amiche

Che ne dichi? - De che? Che c'è de novo?
- Che, nu' lo sai? - Ma no. - Nun hai sentito
De Checca? - No, di' un po'. - Be', lei ha trovo. (1)
- Dichi davéro ch'ha trovo marito?

- Propio accusì. - Co' quer grugno stranito? (2)
Co' quela faccia più gialla d'un ovo?
Co' quele cianche? (3) E chi se n'è incecito, (4)
Di'? - Nun te lo so dì, ma mo ce provo

De sapéllo da Nèna. (5) - Oh, brava! Eppoi
Dimmelo. E er tuo? - Je piji 'na saetta
Dove se trova! - E nun te sposa? - Eh, a noi

Tutt'a traverso! Questo, fija cara,
E' un anno e più che me port'in barchetta (6).
- Cérchen'un antro. - Fija mia, magara! (7)

Note: 1. Trovato. - 2. Stranito, da strani (stranire), "far diventare strano, mettere di malumore;" (rifless. stranisse, stranirsi). Onde, grugno stranito significa: "viso che mostra un malumore abituale". - 3. Gambe. - 4. E chi è rimminchionito d'amore per lei? - 5. Maddalena. - 6. Mi porta a spasso. - 7. Magari!

Luigi Ferretti
Centoventi sonetti in dialetto romanesco, Firenze, G. Barbèra, Editore, 1879, pag. 51

 
 
 
 
 

INFO


Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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