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Messaggi del 04/02/2015

Il Dittamondo (6-08)

Post n°1194 pubblicato il 04 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO SESTO

CAPITOLO VIII


La bella tema e ’l vago ragionare 
tanto mi piacque, ch’i’ dissi a Solino: 
"Costui è d’altra forma che non pare". 
Ed ello a me: "Con questo suo latino 
noi ce n’andrem, se tu mi chiederai, 5 
pur dietro a lui, come ci fa il cammino. 
E però pensa, in mentre che tu vai, 
di trarne frutto e, da poi ch’ei si tace, 
entra in parol di quel che piú voglia hai". 
Allor, per lo consiglio suo verace, 10 
mi trassi a lui e dissi: "O frate mio, 
dir non saprei quanto il tuo dir mi piace. 
E perché sappi il ver di me, com’io 
d’Italia sol per saper novitade, 
come costui t’ha detto, mi partio, 
però ti prego che, per tua bontade, 
m’allumini onde Iacob discese 
seguendo, apresso, d’una in altra etade". 
Cosí com’ello il mio parlare intese, 
rispuose: "In tutto sono al tuo piacere". 20 
E ’n questo modo a ragionar mi prese: 
"Dal principio del mondo dèi sapere 
può sei mila anni al tempo, ove ora se’, 
con cinquecen sessanta sei avere. 
E tutto questo tempo partito è 25 
in sei etadi: la prima si pone 
e scrive da Adam fino a Noè; 
da Noè la seconda si dispone 
in fino ad Abraam; la terza trova 
David, che padre fu di Salamone; 30 
la quarta giunge in fin che si rinnova 
la trasmigrazion di Babilona, 
quando il Giudeo perdé ogni sua prova; 
la quinta tanto il tempo suo sperona, 
che ’l nostro Sole apparve in questo mondo 35 
sol per dar luce a ogni persona; 
la sesta in fine al dí grande e giocondo 
per li buon, dico, durerá per certo; 
per li rei no, ché i piú cadranno al fondo. 
Or de la prima poco ci è scoperto, 40 
per quel ch’io truovi in ogni volume: 
e però in breve tel dirò aperto. 
Lo primo giorno, cielo, terra e lume 
Iddio creò; il secondo, divise 
l’acqua da l’acque, come mare e fiume; 45 
lo terzo, il mar da la terra recise; 
arbori, erbe, folti boschi e pruna, 
come tu vedi, per lo mondo mise; 
lo quarto, fece sole, stelle e luna; 
lo quinto, pesci, uccelli e ogni cosa 50 
che dentro l’acque e per l’aer si rauna; 
lo sesto, fece Adamo e la sua sposa 
con le sue mani e gli animai produsse; 
il settimo dí in tutto si riposa. 
In un bel paradiso a star condusse 55 
Adam e Eva; ma per l’inobbedienza 
volse che l’una e l’altro fuor ne fusse. 
Miseli al mondo in pianto e in temenza 
e diede loro l’argomento adesso 
a tutte piante e a ogni semenza. 60 
Ingeneraro tre figliuoli apresso: 
Cain fu il primo, che in l’agricoltura 
avaramente avea il suo cor messo; 
Abel fu poi, ch’ebbe l’anima pura, 
fedele a Dio, e sí come pastore 65 
le pecore guardava a la pastura. 
Cain sacrificando al suo Signore 
de’ frutti suoi, a lui non parea 
che li aggradisse a fè né con amore. 
Abel, che de la greggia sua prendea 70 
sempre il migliore a far suo sacrifizio, 
diritto il fumo al cielo andar vedea. 
Per questa invidia Cain fuor da l’ospizio 
il sangue del fratello al campo sparse, 
ben che gran pena portò poi del vizio. 75 
Seth fu il terzo dei fratelli e parse 
al padre che Dio per cambio gliel desse 
d’Abel, di cui il cor li cosse e arse. 
La prima cittá, ch’al mondo si fesse, 
Cain fondò e per Enoch ei volse, 80 
un suo figliuolo, che Enoch nome avesse. 
Colui, che prima due femine tolse 
in un tempo per moglie, Lamech fue, 
che ’l sangue pria creato al mondo spolse. 
In fra gli altri figliuoli, n’ebbe due 85 
d’Ada: Iabel ed a costui do vanto 
che pria s’attenda con le genti sue. 
Iubal, suo frate, trovò modo al canto, 
ad organi e chitarra e, s’io non erro, 
in questo spese il tempo tutto quanto. 90 
Tubalcain, di Sella, rame e ferro 
fabbricò prima e ogni altro metallo 
e fe’ carbon di castagno e di cerro. 
Questa schiatta Caina senza fallo 
multiplicava come la mala erba, 95 
se non è coltivata in buono stallo. 
Di Seth, lo qual fu per opra e per verba 
puro e fedele e con fermo disio, 
nemico d’ogni creatura acerba, 
nacque Enos e costui, per quel che io 100 
possa sapere, per certo fu il primo 
lo quale invocasse il nome di Dio. 
Discese Enoch di questo buono vimo, 
lo qual fu servo a Dio e con lui sparve 
nel terren paradiso, com’io stimo. 105 
Suo figliuol fu che visse e non li parve 
presso a mille anni di dover far casa, 
sí poco pregiò il tempo e l’etá parve. 
È costui avo a quel che si travasa 
per mar con l’arca e con ogni animale, 110 
in fin che vide la pioggia rimasa,
quando spirò ogni cosa mortale".
 
 
 

Meo Patacca 01-5

Post n°1193 pubblicato il 04 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

Tutte, da i tre scalini pe' drittura
Vanno a fornì in tel mezzo di quel vano;
Qui sta un marmoro fino, di figura
Bislonga, et è tutto d'un pezzo, e sano.
Sostenta una gran machina, fattura
D'una famosa, et eccellente mano,
Et è un bel Gnore sopra d'un cavallo,
E tutti dui son fatti di metallo.

Questa fra l'altre è una mirabil' opra,
Ch'i ciospi antichi a Roma hanno lassata;
Luccica il bronzo, e par ch'oro lo copra;
Tiè l'animai con brio 'na gamma alzata,
Crespo ha 'l collo, alto el capo, e ce sta sopra
Marc'Antonino Pio, che sollevata
In atto di trionfo ha la man dritta,
E sotto in lode sua ce sta una scritta.

Arrivato qui MEO l'osserva, e attorno
Gira coll'occhio, e ghigna, e si rincora;
Ma poi sbotta co' dir: "Chi sa, ch'un giorno
Qui non ce s'alzi un'altra statua ancora;
Chi sa nol merti un che dich'io". Restorno
Senza capi' tutti intontiti allora;
Ma in realtà fu questo indizio espresso,
Che l'amico parlava di sè stesso.

Con rimenata da trasteverino
Seguitò 'l viaggio, e co' sgherrosi passi
Scontrafava l'annar d'un Paladino,
Nè la cedeva manco alli gradassi;
Poi giusto in mezzo di Campo Vaccino,
Loco in dove s'impara a far a sassi,
Si ferma, e dice: "Questo il Campidoglio
Sia per me adesso, io qui parlà ve voglio".

Campo Vaccino è un loco for di mano
Vicino al Colisèo, poco abbitato,
In dove del bestiame grossolano
Ogn'otto giorni ce se fa el mercato.
È largo e longo assai, ma tutto piano,
In tel mezzo dal sole è riparato,
Se d'arbori cresciuti tutti a un paro,
Da capo a piedi c'è doppio filaro.

Vuò MEO salir in alto, e una barozza
Vede lassata lì dalli carrari;
Ammasca ancora una colonna mozza.
Che gli par meglio assai per un suo pari;
Su questa dunque, perchè è piana e tozza
Ce zompa de potenza a piedi pari,
Perchè de fa' 'sti salti haveva in uso,
Ce resta sopra ritto, come un fuso.

Si mette potenziuto un braccio al fianco
In un sussiego d'homo di valore;
Stanno li sgherri tutti, come un branco
Di tanti agnelli attorno al su' pastore,
O pur, come dinanzi a un salt'in banco
Li regazzi si fermano in cert'hore,
Ch'a casa loro non ne fan parola,
Allor, ch'o vanno, o tornano da scola.

Così incominza, e fa' del bello in piazza
Intanto MEO, ch'è parlator di pezza:
"O del sangue de Troja incrita razza
Sempre a gran rischi, et a gran prove avvezza!
Sentite MEO PATACCA, che schiamazza
Con lingua di dolor, e d'amarezza,
E in tel havervi a dir, se che cos'habbia,
Gli rosica le viscere la rabbia.

E lo sapete pur, e lo sapete,
Che la feccia del monno, i Turchi indegni
D'abbuscà Vienna bella hanno gran sete,
Che già ci fanno sopra i lor disegni;
Penzano poi far peggio, e non volete
Ch'io sputanno velen, vomiti sdegni?
Ah, che bigna ch'io sfoghi, e non stia queto,
Ma pe' rabbia che ci ho, mozzichi el deto.

Se VIENNA casca, ahimè, che poco doppo
Italia se ne va, va Roma a sacco;
Ce vorria presto ce vorria un intoppo,
Prima de sopportà così gran smacco;
Lo sta' così a vedè sarebbe troppo,
Senza impedine un così brutto acciacco;
Se succede, ch'il Turco un dì ce cucchi,
Saremo peggio assai de mammalucchi.

E dove sono, e dove l'antenati
Nostri nonni, bisnonni, e sgherri antichi?
A fè, che se si fussero trovati
In così fatte buglie, in questi intrichi,
Come noi non sariano scioperati,
Che salvamo la panza pè li fichi;
Ma sariano volati ippeso fatto,
A dar a quei Margutti un scacco matto.

Semo pur del su' sangue, e pur quest'aria
Ha pasciuti ancor loro, e su 'sta terra
Spasseggiorno pur tutti, e perch'è varia
Da qual fu allor la nostra gente sgherra?
Perchè al valor di quelli, oggi è contraria
Di noi la schiatta, se il timor l'atterra?
Dunque con tanto nostro disonore
Sarà el sangue l'istesso, e non el core?

Se dal cassone alzassero la testa,
E per un poco gli tornasse el fiato,
So che durian: "Che vergognezza è questa
Che v'habbia a spaventà Turco malnato?
Che più vedè, che più aspettà ve resta,
Hor, che bando al valor da voi fu dato,
Se no che la canaglia malandrina,
A Roma venga a fa' de voi tonnina?

Se nelle nostre ceneri scintilla
Non sapete trova', ch'il cor v'accenna
Di romanesco ardir, se non sfavilla
Sdegno in voi, ch'implacabili ve renna,
Se non scaglia saette ogni pupilla,
Non si dica da voi, nè sì pretenna,
Mentre sete alla grolia e al monno ignoti,
D'esser figli di noi, di noi nipoti".

Ma perchè i morti rinfaccià non sanno
La viltà nostra, se parlà non ponno,
Io vi dirò, che troppo rei si fanno
Quei, che seguir l'essempio lor non vonno.
Ve fo sapè ve fo, ch'in men d'un anno
Mi' pà, ne sballò quattro, e sei mi' nonno;
Hor che fatto haveranno i più valenti,
Che forzi fumo ancor nostri parenti?

 
 
 

Della Casa 13: rime

Post n°1192 pubblicato il 04 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

LXI

Di là, dove per ostro e pompa e oro
fra genti inermi ha perigliosa guerra,
fuggo io mendico e solo, e di quella esca
ch'i' bramai tanto, sazio, a queste querce
ricorro, vago omai di miglior cibo,
per aver posa almen questi ultimi anni.

Ricca gente e beata ne' primi anni
del mondo, or ferro fatto, che senz'oro
men di noi macra in suo selvaggio cibo
si visse, e senza Marte armato in guerra;
quando tra l'elci e le frondose querce
ancor non si prendea l'amo entro a l'esca.

Io, come vile augel scende a poca esca
dal cielo in ima valle, i miei dolci anni
vissi in palustre limo; or fonti e querce
mi son quel che ostro fummi e vasel d'oro:
così l'anima purgo, e cangio guerra
con pace, e con digiun soverchio cibo.

Fallace mondo, che d'amaro cibo
sì dolce mensa ingombri! Or di quella esca
foss'io digiun, ch'ancor mi grava, e 'n guerra
tenne l'alma co' i sensi ha già tanti anni!
ché più pregiate che le gemme e l'oro
renderei l'ombre ancor de le mie querce.

O rivi, o fonti, o fiumi, o faggi, o querce,
onde il mondo novello ebbe suo cibo,
in quei tranquilli secoli de l'oro!
Deh come ha il folle poi cangiando l'esca
cangiato il gusto, e come son questi anni
da quei diversi in povertate e 'n guerra!

Già vincitor di gloriosa guerra
prendea suo pregio da l'ombrose querce:
ma d'ora in or più duri volgon gli anni,
ond'io ritorno a quello antico cibo
che pur di fere è fatto e d'augelli esca,
per arricchire ancor di quel primo oro.

Già in prezioso cibo o 'n gonna d'oro
non crebbe, anzi tra querce e 'n povera esca,
virtù, che con questi anni ha sdegno e guerra.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 323



LXII

Già lessi, e or conosco in me, sì come
Glauco nel mar si pose uom puro e chiaro,
e come sue sembianze si mischiaro
di spume e conche, e fersi alga sue chiome;

però che 'n questo Egeo che vita ha nome
puro anch'io scesi, e 'n queste de l'amaro
mondo tempeste, ed elle mi gravaro
i sensi e l'alma ahi di che indegne some!

Lasso: e soviemmi d'Esaco, che l'ali
d'amoroso pallor segnate ancora
digiuno per lo cielo apre e distende,

e poi satollo indarno a volar prende:
sì 'l core anch'io, che per sé leve fôra,
gravato ho di terrene esche mortali.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 57 (pag. 29)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 325

Note:
E' fra i sonetti chiosati dal Garigliano per gli Umoristi. La favola ci dà Esaco convertito in corvo marino, e risponde all'Egeo della vita. Ma chi spiega l'amoroso pallore dell'ali? Volle forse alludere alla propria passione; ma è frase di senso chiuso, benché non le manchi vaghezza.
(Carrer, cit., pag. 313)



LXIII

O dolce selva solitaria, amica
de' miei pensieri sbigottiti e stanchi,
mentre Borea ne' dì torbidi e manchi
d'orrido giel l'aere e la terra implica,

e la tua verde chioma ombrosa, antica
come la mia, par d'ognintorno imbianchi,
or, che 'nvece di fior vermigli e bianchi
ha neve e ghiaccio ogni tua piaggia aprica,

a questa breve e nubilosa luce
vo ripensando, che m'avanza, e ghiaccio
gli spirti anch'io sento e le membra farsi;

ma più di te dentro e d'intorno agghiaccio,
ché più crudo Euro a me mio verno adduce,
più lunga notte, e dì più freddi e scarsi.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 58 (pag. 30)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 326

Note:
Sonetto mirabile, scritto, come credo, presso al Montello, di che vedi le note qui adietro al sonetto LII. Abbiamo nelle lettere del Casotti molte varianti, che per essere di gran maestro, e sopra componimento finitissimo, sarebbero da consultare. Ecco la principale (versi 3-4):
Mentre al bel colle tuo gli omeri e i fianchi
Ignudi agghiaccia aspra stagion nemica.
Tutti sentiranno il perchè della scelta fatta dell'altro modo.
(Carrer, cit., pag. 313)



LXIV

Questa vita mortal, che 'n una o 'n due
brevi e notturne ore trapassa, oscura
e fredda, involto avea fin qui la pura
parte di me ne l'atre nubi sue.

Or a mirar le grazie tante tue
prendo, ché frutti e fior, gielo e arsura,
e sì dolce del ciel legge e misura,
eterno Dio, tuo magisterio fue.

Anzi 'l dolce aer puro e questa luce
chiara, che 'l mondo a gli occhi nostri scopre,
traesti tu d'abissi oscuri e misti:

e tutto quel che 'n terra o 'n ciel riluce
di tenebre era chiuso, e tu l'apristi;
e 'l giorno e 'l sol de le tue man sono opre.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 59 (pag. 30)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 327

Note:
Sonetto commentato a dilungo da Torquato Tasso in una lezione, e levato a cielo nel dialogo intitolato La Cavalletta. E chi non si contentasse dell' esame del Tasso, legga Francesco d'India che dettò un discorso per dichiarare il concetto filosofico del componimento.
(Carrer, cit., pag. 314)

 
 
 

Il Dittamondo (6-07)

Post n°1191 pubblicato il 04 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO SESTO

CAPITOLO VII


"O grazioso sole, che mi guidi, 
dissi a Solin, cerchiam ben questo regno 
ch’è tanto degno e che giá mai non vidi: 
lungo tempo è ch’io n’ho l’animo pregno". 
Ed el: "Come a te, piace, sia; ché sai 
che sol per contentarti teco vegno". 
Giunti in Betania, a notar non trovai 
piú che gli mur del monister di Lazaro, 
che Gottifré fe’ bello e ricco assai. 
Certo, io non so niun cristian sí gazaro 
che, se vedesse quel loco rimoto 
chiuso tra cedri, tra ulivi e mazaro, 
che non venisse pietoso e divoto: 
per che quanto a me dolse qui non scrivo, 
poi che per tutto mi fu chiaro e noto. 
Pur di sotto al bel Monte de l’ulivo, 
per Iosaphat fu poi la nostra via, 
dove Cedron vi bagna ogni suo rivo. 
Se sospirato avea l’anima mia 
per Lazaro, qui pianse a veder dove 
fu seppellita la somma Maria. 
Indi partiti, volgemmo a Emaus, dove 
Cristo, frangendo il pan, fu conosciuto 
dopo la morte, com’è scritto altrove. 
E poi ch’io ebbi quel loco veduto, 
un pellegrin si mosse e ’l cammin prese 
né piú né meno come avrei voluto. 
Per ch’io dissi fra me: Costui m’intese 
come se stato dentro al mio cor fosse; 
e ’n verso Betelem diritto scese. 
Lontanato dal muro e da le fosse, 
si volse a me e ’n vèr la guida mia 
e ’n questo modo a ragionar si mosse: 
"A ciò che meno ci gravi la via, 
buono è d’alcuna cosa ragionare, 35 
ch’oltre ci porti e che util ci sia". 
E Solino in vèr lui: "Tu dèi pensare 
che costui, con cui sono, altro non chiede 
ch’udire o veder cosa da notare. 
Però, s’alcuna se ne sente o vede 40 
per te antica, fa’ che tu ne ’l cibi". 
Per ch’ello incominciò, movendo il piede: 
"Tutti i Giudei fun dodici tribi, 
li quai disceson dai dodici frati, 
che ’ngenerò Iacob et hic et ibi. 45 
Giuda fu l’un, del qual, se ben tu guati, 
David di grado in grado e Salamone 
per dritta linea funno ingenerati. 
Cosí Iosepo dopo piú persone, 
di Maria sposo, fu di questa schiatta, 50 
come Matteo nel suo principio pone. 
Or pensa come il mondo si baratta: 
ché, di sangue real, fabbro fatto era: 
e chi nol crede ha ben la testa matta. 
Dal lato di Maria funno Anna e Ismera 55 
d’Azacar figlie, del tribú Leví 
sacerdotale, come Luca avera. 
Qui del cuor apri l’uno e l’altro dí, 
ché sempre lo ’ntelletto si diletta 
piú quanto intende meglio ciò che di’. 60 
D’Ismera dico che nacque Isabetta, 
moglie di Zaccaria, e di lor due 
l’anima del Battista benedetta. 
D’Anna, che sposa di Gioachin fue, 
nacque la nostra Luna, onde ’l Sol venne 65 
ch’alluminò il mondo e ’l ciel lá sue. 
Non molto tempo Gioachin la tenne, 
perché morio; ond’ella con gran doglia 
vedova stette il tempo che convenne; 
poi, per seguir de’ parenti la voglia, 70 
si sposa a Cleofas, fratel di quello 
che balió Cristo e che ’l vestio e ispoglia. 
Due figliuoli ebbe questa santa d’ello, 
Simeone e Maria, la quale Alfeo 
isposò poi e diedeli l’anello. 75 
Questa Maria quattro figliuoli feo: 
Iacob e Simeone funno i primi; 
apresso, come par, seguí Taddeo, 
Iosep il quarto e voglio che tu stimi 
che Barsabas si noma e fu sortito 80 
per esser con Mattia de’ piú sublimi. 
Morissi d’Anna il secondo marito 
e, come al nostro sommo Padre piacque, 
ch’al miglior sempre drizza l’occhio e ’l dito, 
Salome poi la sposa e di lor nacque, 85 
dico, la terza Maria solamente, 
e qui di piú figliuoi crear si tacque. 
Questa terza fu poi tanto possente, 
che partorio di Zebedeo due stelle, 
ciascuna tanto innanzi a Dio lucente, 90
che molto poche in cielo son sí belle".
 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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