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Progetto Quid

Post n°2336 pubblicato il 19 Settembre 2017 da namy0000
 

Ago, filo e tessuti, nell’atelier di Anna dove le donne trovano il riscatto: “Progetto Quid”Recuperano gli scarti di grandi aziende e li trasformano in capi firmati. La cooperativa sociale è nata quattro anni fa con 13 dipendenti, ora ne ha 80: tra loro ex detenute, vittime di tratta, storie difficili. A dicembre fattureranno due milioni

di Paolo Foschini

Il logo è una molletta di legno per stendere e a pensarci è già un bel simbolo: è fatta di due pezzi diversi, ma funziona solo se c’è una molla a unirli e fanno leva uno sull’altro. «Un oggetto semplice - dice Anna - che nella mia testa tiene insieme varie cose: solidarietà, rispetto per l’ambiente, mercato». Dopodiché dietro il simbolo c’è la faccenda concreta, che in principio era semplicemente questa: recuperare tessuti di scarto per farne nascere prodotti nuovi, affidare il lavoro a persone di scarto per farne nascere persone nuove. Doppio «recupero di marginalità», lo chiamerebbero gli esperti. Da una parte stoffe di alta qualità, quelle di marchi leader della moda, che in quanto avanzi di produzione finirebbero al macero. Dall’altra ex detenuti o detenute, immigrati con storie tremende, donne vittime di tratta o violenza, chi più ne ha più ne metta, che i maceri più vari della vita li hanno attraversati o ci sono in mezzo di persona. E che però nel Progetto Quid hanno trovato la via non solo per uscirne ma soprattutto non ripiombarci di nuovo.

È una cooperativa, l’ha inventata nel 2013 una veronese che si chiama Anna Fiscale. Nel 2014 ha 13 dipendenti, fattura 300 mila euro e vince il Premio Europeo per l’Innovazione Sociale. Nel 2015 ci lavorano in venti e fanno mezzo milione. L’anno scorso in cinquanta per un milione, unici italiani invitati a Hong Kong come speaker al Forum Mondiale dell’impresa sociale. Ora sono 80, adesso come allora per la maggior parte donne, in dicembre toccheranno i 2 milioni e hanno appena vinto un altro premio per l’Innovazione sociale. Social+Profit si può, se l’idea è buona e si è capaci.

Infatti non è che Anna ci sia arrivata dal niente. Laurea triennale in economia a Verona, magistrale in management delle istituzioni internazionali in Bocconi a Milano, master in Scienze politiche a Parigi, poi quattro mesi in India a trattare microcredito ed emancipazione femminile, altri quattro ad Haiti a occuparsi di campi profughi e disaster reduction, altri quattro a Bruxelles sulla cooperazione internazionale: «Alla fine però ho capito che volevo fare qualcosa per la mia città, e ho ricominciato da Verona». Punta in alto, trova soci e designer, presenta il progetto, datemi quel che buttereste, trova aziende che ci credono, gli aiuti iniziali diventano partnership.

Lasciato il laboratorio in cui erano ospiti di un’altra coop, la Santa Maddalena di Canossa, oggi Quid ne ha uno tutto suo dove tra produzione e uffici lavorano in 60. Poi c’è il personale di cinque negozi diretti (due a Verona, uno a Mestre, uno a Bassano e uno a Cadriano d’Emilia). Più un laboratorio nel carcere di Verona in cui una quindicina di detenute stanno facendo la formazione e sanno già che scontata la pena saranno assunte. Oggi le ex detenute di Quid sono tre.

Come cooperativa sociale la legge prevederebbe che il 30 per cento dei suoi dipendenti appartengano a «categorie svantaggiate». Di fatto Quid ne impiega oltre il 50 per cento. Ma quelli sono solo gli «svantaggiati ufficialmente riconosciuti», sorride Anna: contando anche gli altri si supera il 60. E spiega: «In effetti è una cosa bizzarra, ma finora la legge ha sempre riconosciuto come categorie svantaggiate solo gli invalidi, i tossicodipendenti, i disabili e gli ex detenuti, a patto che la loro pena sia finita da non oltre 18 mesi». Come dire che se in galera hai fatto dieci anni e sei fuori da due non sei più svantaggiato, ma disoccupato e basta. «E non solo. Per la legge non rientrano o non rientravano nella categoria svantaggiati i migranti, i richiedenti asilo, le donne vittime di tratta o di violenza. Ora pare vengano riconosciuti anche loro. Ma solo come formalità: per chi li assume non è previsto alcun vantaggio né incentivo».

Quid assume anche questi ultimi da sempre. Almeno una decina, per dire, solo le donne vittime di tratta. Tutti con contratto, stipendio a partire da mille euro netti per il full-time.

Oltre ai negozi diretti la distribuzione può contare su una trentina di punti-vendita multibrand in tutta Italia. Nei primi si trovano soprattutto le «indipendent collections», le linee di abbigliamento e accessori ideate in proprio dall’a alla z. Nei secondi sempre di più — da Calzedonia a Canadians, da Altromercato a Naturasì — ci sono anche prodotti progettati in collaborazione con le rispettive aziende, dalle ciabattine alle borse agli accessori più vari. «La ricerca di nuovi partner – dice Anna – è continua. Chi ci viene a trovare si affeziona al progetto proprio a livello umano e dobbiamo veramente tanta riconoscenza a tanti». Come Battista Saibene, patron della Lisa di Como, che fa tessuti per camicie e che a Quid è vicino da sempre. O Sandro Veronesi di Calzedonia che attraverso Rita Ruffoli, della Fondazione San Zeno da lui creata, sottolinea proprio il valore dell’up-cycling — il «rimettere in circolo migliorando», un passo più in là del puro re-cycling — realizzato da esperienze come Quid. O come Roberto Zenoni, direttore generale di NaturaSì, per la cui distribuzione Quid realizza dai cesti portapane alle magliette promozionali: «La lotta allo spreco conviene — dice — da tutti i punti di vista: economico e umano. Pare ovvio, eppure è una battaglia». I partner in totale sono una quindicina.

Infine ma non ultima la squadra. Cambiata nel tempo, oggi insieme con Anna ruota attorno a quattro cardini. Il socio co-fondatore Ludovico Mantoan, attuale amministratore delegato, 34 anni; Valeria Valbusa, 33, creativa e modellista; Marco Penazzi, 29, responsabile di sviluppo e rapporti istituzionali; e poi Orsola Pelli, unica con un curriculum lavorativo ultratrentennale, dall’Europa al Bangladesh, direttrice di produzione a Quid dal 2015. «C’è un valore d’impresa — conclude Anna — che si chiama credibilità di ritorno. Il mercato oggi la riconosce. È l’apprezzamento economico dovuto anche al solo fatto di partecipare a un progetto etico importante. Il futuro è lì».

 

 

 
 
 
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