Creato da namy0000 il 04/04/2010

Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

Messaggi di Dicembre 2017

Epifania

Post n°2481 pubblicato il 31 Dicembre 2017 da namy0000
 

Epifania è una parola che deriva dal greco antico e significa “svelarsi”, “apparire”, “rendersi manifesto”. Nella storia della Salvezza, l’Epifania è il momento in cui Gesù viene adorato dai Re Magi che rappresentano – anche nelle loro diversità fisiche – l’intera umanità. Non a caso, molte diocesi hanno scelto di celebrare in questo giorno la “Festa delle genti” a significare l’unitarietà della famiglia umana davanti al Bambino.
Per questo lascia sconcertati l’annuncio di un assessore comunale della città di Trieste di una festa della Befana rigorosamente destinata solo ai bambini italiani (autarchia?) ai quali soli verranno consegnati doni e giocattoli. La decisione, non è del Comune ma di un gruppo cui il Comune stesso ha demandato l’organizzazione dell’evento in una delle piazze più famose del capoluogo giuliano, e che l’assessore ha difeso a spada tratta. Una compagine di estrema destra, Forza Nuova, che si è già fatta notare per avere distribuito pacchi alimentari solo agli italiani. 
Tutto questo in una città che, per storia e per cultura, è sempre stata un crocevia. La patria di Italo Svevo – nato Aron Hector Schmitz – figlio di padre tedesco e di madre italiana che nella scelta del nome da scrittore sublima e rende chiaro l’impasto di cui è fatta Trieste. 
Bene ha fatto quindi la Caritas diocesana a esprimere «il più vivo rammarico per le dichiarazioni dell’assessore Giorgi riguardo l’esclusività riservata ai bambini italiani circa la raccolta doni in occasione della prossima Festa della Befana durante il mercatino in piazza Ponterosso». La scelta di avallare il metodo per distribuire i doni crea un solco tra i bambini che fin da piccoli sarebbero costretti a fare conoscenza con discriminazioni dovute, ricorda ancora la Caritas, «a etnia, origine e provenienza». E getterebbe i semi di una chiusura all’interno della società giuliana che potrebbe avere pesanti conseguenze.
Durante queste feste di Natale abbiamo assistito a numerosi episodi di solidarietà e di attenzione all’altro che fanno ben sperare. Accanto a questi, però, talvolta si sono insinuati casi di intolleranza mascherati da difesa delle tradizioni italiane.
La Caritas triestina non fa distinzioni di «etnia, origine e provenienza». Soprattutto tra i più piccoli, i bambini appunto. (
Avvenire, sabato 30 dicembre 2017). 

 
 
 

Assieme ai profughi

Serbia. Generazione Erasmus? Per capodanno assieme ai profughi

Ragazzi della generazione Erasmus, abituati a pensare all’Europa come a uno spazio senza frontiere, festeggeranno il nuovo anno con le famiglie di migranti che hanno seguito la rotta balcanica per finire intrappolate in Serbia, dove ormai si trovano da mesi, alcune da molto di più, nella speranza che prima o poi un varco si apra nella cortina dentro la quale si è rinserrata la Ue. Finita la festa, da domani ricominceranno a distribuire vestiti pesanti, impermeabili, calze, scarpe e kit scolastici ai bambini.
Si chiamano Sara (28 anni, di Milano, psicologa e insegnante di sostegno), Vincenza (33, cooperante, brindisina ma milanese di adozione), Davide (25, di Trento, laureato in sociologia), Federica (27, di Brescia, iscritta a un master alla Bicocca): passeranno il Capodanno nel campo profughi di Bogovadja, vicino a Belgrado.
I 4 giovani volontari hanno aderito al progetto "emergenza freddo" lanciato da Caritas Ambrosiana, che nel campo di transito allestito dal governo serbo ha aperto con Caritas Italiana e Ipsia un «Social Cafè», uno spazio di socializzazione gestito dagli stessi profughi: il solo luogo dove gli ospiti possono incontrarsi e stare insieme.
«Fa molto freddo, anche oggi la temperatura ha toccato -2. Purtroppo nessuno è attrezzato per passare un inverno rigido in alloggi così precari e soprattutto i bambini sono a rischio di ipotermia, polmonite e altre malattie respiratorie molto pericolose. Le mamme non sanno più cosa fare per difendere i figli dal gelo. Per questo dopo i canti e i balli e la lotteria che abbiamo organizzato per domani, ci rimetteremo subito al lavoro. Già oggi, dopo la Messa, abbiamo consegnato i regali ai più piccoli e i guanti che ci sono stati donati da Caritas», raccontano in una conference call improvvisata via WhatsApp.

Caritas Ambrosiana, Ipsia (ong delle Acli), Caritas Italiana e Caritas Valjevo lavorano nel centro da ottobre 2016 con uno staff di operatori locali e internazionali. Dopo gli ultimi arrivi nei mesi scorsi, la situazione è stazionaria: i profughi ospiti sono circa 200. «I trafficanti di uomini li portano fino al confine serbo-ungherese, promettono un passaggio oltre frontiera e invece li derubano e maltrattano. A quel punto sono costretti a tornare indietro e arrivano qui», spiega Silvia Maraone, operatrice.
A causa del blocco imposto dai governi ungherese e croato, nel campo di transito serbo si è formata una comunità multinazionale di siriani, afghani e iracheni ma anche alcuni nigeriani che hanno tentato la via di terra, anziché la traversata del Mediterraneo, passando dalla Turchia. Sono in maggioranza donne e bambini che spesso hanno subito torture e violenze lungo il loro viaggio iniziato, in alcuni casi, anche due anni fa e che ora, da mesi, sono intrappolati a un passo dal loro sogno.

 

Una situazione paradossale di cui è diventata un simbolo la tragica vicenda di Madina, la bambina di 6 anni finita sotto un treno mentre cercava di attraversare il confine serbo-croato, alla fine di novembre. La piccola, secondo il racconto che la madre ha fatto all’Agence France Presse, sarebbe stata investita mentre stava facendo ritorno in Serbia con il resto della famiglia seguendo i binari della ferrovia lungo i quali proprio le guardie di frontiere croate di Tovarnik li avevano scortati.
«Il padre non si dà pace e ora, assistito da un’associazione serba e da un gruppo di avvocati croati, ha presentato un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo e uno a Zagabria contro la polizia croata – ci aggiorna Silvia Maraone, che ha conosciuto tutta la famiglia quando per qualche mese è stata ospite del campo di Bogovadja –. Noi ci auguriamo che vinca. Sarebbe importante per loro e per tutti coloro che si trovano in questa situazione assurda». (Francesco Chiavarini, Avvenire, sabato 30 dicembre 2017)

 
 
 

Cibo per i poveri

Post n°2479 pubblicato il 31 Dicembre 2017 da namy0000
 

Marta, a 79 anni, recupera il cibo per i poveri

 

Una bicicletta è progettata per trasportare una persona e non certo decine di chili di cibo. Eppure, la bici della signora Marta ormai ci è abituata, grazie a un cestello davanti al manubrio, una cassetta appoggiata sulla ruota posteriore e un sellino ben appiattito.
Da anni viene caricata quasi come un camioncino e spinta a mano da una donna forte, determinata e che semplicemente ha voglia di fare del bene. Marta ogni mattina percorre il consueto itinerario. Intorno alle 9 passa davanti a tre diversi supermercati e cerca ciò che viene quotidianamente gettato, ma che resta ancora perfettamente commestibile. Raccoglie tutto il possibile e se ne va a casa con la sua bicicletta smisuratamente carica, con oltre 40 chilogrammi di generi alimentari ogni giorno.
«È incredibile – racconta – quanto spreco ci sia ancora oggi. Viene gettato il cibo prossimo alla scadenza oppure quello contenuto in confezioni non più perfette, magari a causa di un urto durante il trasporto. In questo periodo, ad esempio, ci sono le arance: se una è andata a male, buttano via intero l’intero sacchetto da 5 chili. È vergognoso». Ma la signora Marta è tenace.
Non si vergogna a rovistare nei cassonetti dei supermercati, anche se viene guardata continuamente con sospetto dai passanti e di certo senza particolare simpatia neppure dai responsabili dei supermercati: «Non mi interessa. Lo faccio perché so che ci sono persone che hanno bisogno e che mi aspettano». Tre volte alla settimana, infatti, carica la sua auto di tutte le provviste raccolte e va a distribuirle a chi ha bisogno.
«Ho iniziato quasi per caso, portando qualche genere alimentare a una famiglia che, a causa della crisi economica, si era ritrovata a perdere tutto. In poco tempo, poi, il giro si è allargato e continuavano ad arrivarmi segnalazioni di nuove situazioni di disagio. Adesso seguo 8 famiglie, per un totale di oltre venti persone. Mi accolgono sempre a braccia aperte e con grande dignità. Non mi hanno mai chiesto nulla e riescono a non sprecare mai nulla. Con la farina si fanno il pane, con il latte producono da soli le formaggette. Ciò che avanza (quando avanza) viene portato in una sorta di scuola popolare che ospita gratuitamente anche a dormire persone in grave indigenza».
Alla sua età presta con estrema modestia un servizio importante a favore dei fratelli più poveri. E il suo rammarico è che, quando lei sarà troppo stanca, non ci sia più nessuno ad aiutarli».
Per ora, però, la signora Marta è ancora energica e molto risoluta: «Soprattutto i politici e i decisori pubblici dovrebbero rendersi conto della situazione reale e di quanta povertà esista ancora oggi. C’è chi veste alla moda e mangia a crepapelle e chi non ha più nulla. Tutti dovremmo darci da fare e, invece, siamo troppo insensibili ai bisogni del prossimo».

 
 
 

Senza parole

Post n°2478 pubblicato il 30 Dicembre 2017 da namy0000
 

“padre Gheddo e mio padre si conobbero, in Vietnam, e passarono anche alcuni giorni assieme. Ne nacque un’amicizia duratura. Mi piacerebbe potere immaginare i dialoghi fra il missionario animato da una fede di roccia, e mio padre, che dalla Ritirata di Russia era tornato con la silenziosa certezza di un Dio assente. Chissà, mi chiedo, cosa si dicevano quei due, nel mezzo della guerra del Vietnam. Certo avranno condiviso un pezzo di quel parmigiano che mio padre, nato a Parma, sempre si portava dietro, religiosamente, nella sua vecchia caotica valigia. Ma, tornando alle cartoline, mi viene da domandarmi perché quelle di padre Gheddo ai nipoti erano fitte fitte di parole, e quelle di mio padre così laconiche.

Anche a casa, del resto, a noi bambini lui non raccontava niente o quasi dei mondi che aveva visto, mondi quasi sempre insanguinati dalla violenza degli uomini. Probabilmente pensava che non fossero cose da raccontare a dei bambini. Padre Piero, invece, traboccava di racconti.Forse perché la sua gran fede gli permetteva di riconoscere, anche nei luoghi più travagliati, il filo tenace di una speranza. Certo perché negli occhi dei bambini, delle madri, pure in Paesi tormentati, dal Vietnam alla Cambogia all’Etiopia, vedeva con certezza un’attesa di pace. Da adulta, e diventata giornalista, anche io ho conosciuto Gheddo. «Ah, la figlia di Egisto!», mi accolse con un abbraccio, e capii allora quanto bene voleva a mio padre. Mi colpì, nella sua apparentemente semplice persona di prete nato in un paesino del Vercellese, come una gran forza.

 

Era stato nei più sperduti e miserabili angoli del mondo, aveva visto la ferocia e la fame, eppure era un uomo assolutamente certo del fatto che la vita è un bene. Se ne era andato fino agli ottant’anni compiuti in giro per strade remote e pericolose, sempre seminando una parola, quella del Vangelo. E mi disse: «Io so, io ho visto che il Vangelo, là dove arriva, opera, e cambia la vita degli uomini». C’era, c’è, una positività travolgente in padre Gheddo. Chissà, mi sono domandata, che cosa gli ribatteva mio padre, e se non ha avuto la tentazione, davanti a una fede simile, di cedere, di convincersi. Lui che sulle cartoline scriveva solo «Ciao, papà», e tutto il resto era spazio bianco, silenzio, cose che non voleva raccontare. Mentre il suo amico sacerdote e missionario e giornalista scriveva con una grafia minuta, in fila zeppe di parole, e poi anche sui margini, perché lo spazio non gli bastava: tanto di bello aveva da dire ai suoi nipoti, pure da mondi in guerra. Certo com’era che, a ogni latitudine, Dio abita nel fondo del cuore di ogni uomo. (Marina Corradi, Avvenire, 29 dic. 2017). 

 
 
 

Un mondo buttato via

Post n°2477 pubblicato il 29 Dicembre 2017 da namy0000
 

Un mondo buttato via.

Kadir van Lohuizen, fotografo, ha attraversato il pianeta per vedere come alcune grandi città, in quattro continenti, gestiscono la loro spazzatura.

Ogni giorno nel mondo si producono 3.500.000 di tonnellate di rifiuti solidi, dieci volte in più rispetto a100 anni fa. (…) I paesi più ricchi generano più rifiuti per abitante, soprattutto scarti inorganici (come la plastica, la carta e l‘alluminio) ed elettronici (come giocattoli ed elettrodomestici rotti), e in proporzione meno scarti organici. I paesi con un reddito pro capite medio o basso producono invece un’alta percentuale di materiali organici, tra il 40 e l’85 per cento del totale. Nel mondo ogni anno si buttano via più di 300 milioni di tonnellate di plastica e quasi la stessa quantità, secondo il World economic forum, galleggia attualmente negli oceani. Circa un terzo dei prodotti alimentari finisce nella spazzatura. (…) L’Europa usa di più gli inceneritori e costruisce le discariche soprattutto in zone periferiche, mentre in altri continenti gli impianti si trovano spesso in città. ‹‹Se non cominciamo a ridurre gli sprechi e a trattare la spazzatura come una risorsa, le generazioni future affogheranno nell’immondizia››, afferma il fotografo.

A Lagos (Nigeria) vivono 21 milioni di persone che producono 2 milioni di tonnellate di rifiuti ogni anno. ‹‹Non solo la città fatica a gestire i rifiuti prodotti dalla popolazione, ma deve trattare anche quelli che arrivano illegalmente dall’Europa e dagli Stati Uniti››, spiega Kadir. ‹‹Non c’è un cattivo odore come in altre discariche nel mondo, perché i nigeriani non sprecano il mangiare››… Mahashakti Nigeria è una compagnia che ricicla alluminio e lo esporta poi in Giappone e in India.

New York (Stati Uniti). Gli Stati Uniti sono il paese che produce più rifiuti al mondo. New York è la città che ne genera di più: 33 milioni di tonnellate all’anno, per una popolazione di 20 milioni di persone… Nel 2016 il sindaco della città, Bill de Blasio, ha avviato l’iniziativa Rifiuti zero con l’obiettivo di ridurre la quantità di rifiuti non compostabili, migliorare il riciclaggio ed eliminare del tutto il trasferimento della spazzatura entro il 2030…

Jakarta (Indonesia).  Molti dei rifiuti prodotti a Jakarta finiscono nella discarica di Bantar Gebang, una delle più grandi al mondo: si estende su oltre 110 ettari e riceve più di 6.000 tonnellate di rifiuti al giorno. Le migliaia di persone che ci lavorano si spostano tra montagne di spazzatura che arrivano a 25 metri di altezza. Non ci sono inceneritori e non c’è un’industria del riciclo. I corsi d’acqua s’intasano spesso a causa dei rifiuti, provocando inondazioni. L’Indonesia è uno dei paesi che scarica di più i rifiuti negli oceani” (Internazionale n. 1235 del 15 dic. 2017).

 
 
 

AREA PERSONALE

 

ARCHIVIO MESSAGGI

 
 << Dicembre 2017 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
        1 2 3
4 5 6 7 8 9 10
11 12 13 14 15 16 17
18 19 20 21 22 23 24
25 26 27 28 29 30 31
 
 

CERCA IN QUESTO BLOG

  Trova
 

FACEBOOK

 
 
Citazioni nei Blog Amici: 3
 

ULTIME VISITE AL BLOG

namy0000monellaccio19cassetta2lcacremaprefazione09annamatrigianonoctis_imagoacer.250karen_71m12ps12Penna_Magicanonnoinpensione0donmarco.baroncinilisa.dagli_occhi_bluoranginella
 

ULTIMI COMMENTI

Grazie per aver condiviso questa esperienza così intensa e...
Inviato da: Penna_Magica
il 08/02/2024 alle 11:19
 
RIP
Inviato da: cassetta2
il 27/12/2023 alle 17:41
 
Siete pronti ad ascoltare il 26 settembre le dichiarazioni...
Inviato da: cassetta2
il 11/09/2022 alle 12:06
 
C'è chi per stare bene ha bisogno che stiano bene...
Inviato da: cassetta2
il 31/08/2022 alle 18:17
 
Ottimo articolo da leggere sul divano sorseggiando gin...
Inviato da: cassetta2
il 09/05/2022 alle 07:28
 
 

CHI PUò SCRIVERE SUL BLOG

Solo l'autore può pubblicare messaggi in questo Blog e tutti gli utenti registrati possono pubblicare commenti.
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 
 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963