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Un mondo nuovo

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Messaggi del 16/09/2017

Uno degli artisti contemporanei

Post n°2332 pubblicato il 16 Settembre 2017 da namy0000
 

Ai Weiwei, “uno degli artisti contemporanei più noti e controversi, cinese, designer, architetto, video maker, attivista, questo sessantenne figlio di Pechino è anche la più fastidiosa spina nel fianco del regime cinese ora guidato dal primo ministro Li Keqiang. Da trent’anni, muovendosi tra politica e ricerca artistica, porta avanti una coerente lotta per la libertà d’espressione. Le sue opere (dipinti, foto, video, mega installazioni) evidenziano il contrastato rapporto tra tradizione e modernità, che in nessun altro Paese appare oggi lacerante come in Cina. Denunciano le storture del neocapitalismo. Vicino agli ultimi, non solo in Cina, ovunque nel mondo l’umanità venga calpestata, da anni segue il dramma dei migranti. Ha raccolto immagini e testimonianze, assemblate con sguardo personale. Figlio del poeta Ai Qing, da adolescente lo segue con la famiglia nel deserto del Gobi quando viene confinato per le idee poco comuniste. Dal 1981, studia e lavora a New York, appassionandosi all’arte concettuale di Duchamp e alla pop art di Andy Warhol. Primi successi, ma nel 1993 rientra in Cina per seguire il padre malato.  Attorno a lui si forma un gruppo di giovani artisti che lamentano la perdita dell’eredità culturale per colpa del consumismo. Ai Weiwei realizza Forever, installazione fatta con centinaia di biciclette senza pedali né catena (perché non portano da nessuna parte) che denuncia la massificazione. Nel 2005 apre un blog in cui critica il governo cinese. Quando nel 2008 un catastrofico terremoto colpisce la Regione di Sichuan e provoca 70.000 morti, s’indigna perché le autorità negano che gli studenti, a migliaia, siano rimasti sotto le macerie di scuole insicure. Cerca i parenti e pubblica i nomi di oltre 5.000 bambini deceduti. Il Governo oscura il blog e Ai viene malmenato. Lui reagisce, firmando un’altra installazione Snake Bag, enorme serpentone fatto di zaini scolastici. Weiwei, quale anche architetto, collabora alla costruzione del nuovo stadio di Pechino per le Olimpiadi 2008: il famoso nido d’uccello. Diserta però l’inaugurazione e denuncia lo sfruttamento degli operai che ci hanno lavorato. Risonanza mondiale. Il Governo reagisce, demolendo la sede del suo studio per presunte irregolarità, e facendolo arrestare per evasione fiscale.

Dal 3 aprile 2011, viene detenuto illegalmente per 81 giorni, isolato da tutti. Rilasciato, gli viene tolto il passaporto e vietato il web. Lui documenta tutto nel video S.A.C.R.E.D.

Nel 2014 usa 1,2 milioni di mattoncini Lego per fare i ritratti di 176 perseguitati politici: da Mandela a Snowden, da Galileo a Dante. Il web impazzisce e quando la Lego si dissocia, temendo conseguenze, vien messa alla berlina: deve ritrattare.

Nel 2015, Amnesty International nomina Ai Weiwei ambasciatore e gli fa restituire il passaporto. Lui vola da moglie e figlio in Germania, poi va a Lesbo. Colpito dal dramma dei rifugiati, realizza Reframe, mega installazione con decine di gommoni arancioni (quelli dei migranti) attaccati alle mura esterne di Palazzo Strozzi, a Firenze, dove questo inverno la mostra Ai Weiwei libero ne celebra inventiva e coraggio. Nell’ultimo anno, l’artista cinese gira il mondo per filmare volti e storie di chi emigra spinto da guerra o fame. Nasce così Human Flow. Ai Weiwei non è un semplice regista.

Weiwei, qual è il rapporto tra l’installazione di Firenze e questo docu-film Human Flow? ‹‹Si tratta dello stesso atteggiamento, ma con una diversa estetica. Un bimbo che prova dolore può urlare, ma può anche piangere in silenzio››.

Sul piano umano, cosa le lascia questa esperienza? ‹‹Un viaggio nella realtà così, senza sovrastrutture, ti stravolge. Come individuo, ho cercato però di non appassionarmi a una singola storia. Volevo conoscere il fenomeno migranti nella sua complessità››.

Ha impiegato un anno di tempo, girando in 23 paesi… ‹‹Non ci sono solo i profughi che annegano nel Mediterraneo. Oggi, più di 65.000.000 di persone nel mondo sono costrette da fame o guerre a lasciare le case. Il più grande esodo umano dopo il conflitto mondiale››.

Perché ha filmato immagini con la telecamera, altre col cellulare? ‹‹Lo stile è messaggero della realtà. Quella delle migrazioni è talmente immensa che mi ha suggerito uno stile a collage››.

Ogni tanto compare anche lei. ‹‹È stata una decisione importante, fatta al montaggio. La realtà si fa racconto solo quando si relaziona con l’individuo››.

Il suo sguardo è critico, specie con l’Europa dell’Est. L’Italia compare solo per alcune scene di Lampedusa… ‹‹L’Italia ha una lunga storia di emigrazione e di accoglienza. Anche per la posizione geopolitica. Credo che il vostro Paese sia coerente coi suoi valori, ma può far poco di fronte a un fenomeno così globale››.

Qualcuno la critica, dicendo che non si possono usare immagini così belle per raccontare questo dramma. ‹‹La storia dell’umanità è piena di grandi sofferenze. La tragedia dei migranti è solo una. Ma dalle sofferenze viene la spinta a migliorarsi. E questa è bellezza. Un artista deve saper osservare il bello che c’è anche nelle cose peggiori. Il cinema è un’elaborazione estetica della realtà››.

Nei luoghi in cui ha girato, c’è un elemento comune che l’ha colpita? ‹‹Lo sguardo innocente dei bambini. la stessa voglia di giocare, di correre dietro la nostra cinepresa. Dappertutto. Finché coglieremo l’umanità nello sguardo dei bambini ci sarà speranza. La speranza dà coraggio e fantasia. Se c’è fantasia, allora esiste ancora una possibilità. Ecco perché continuo a fare arte››. (FC n. 37 del 10 sett. 2017). 

 
 
 

Educazione delle emozioni

Post n°2331 pubblicato il 16 Settembre 2017 da namy0000
 

L’intervista di “Piazzasalento” a Beatrice S., quasi 40 anni spesi tra Consultorio familiare del distretto di Gallipoli e corsi con i ragazzi delle Superiori su educazione delle emozioni, educazione sessuale ed altri temi relativi a quella delicatissima fase della vita che è l’adolescenza. Adolescenti come i due ragazzi di Specchia ed Alessano di cui oggi tutti parlano (e sparlano): lui, 17 anni, di Alessano, ha ucciso con una pietra lei di 16 anni, di Castrignano del Capo. 

Più di qualcosa si è fatto sul versante delle donne; scarso il lavoro e quindi scarsi i risultati sul “se stesso” dell’uomo violento?  “Le aberrazioni mentali cui assistiamo sgomenti lo dicono; altri atteggiamenti meno eclatanti sembrano più accettabili ma devono preoccupare lo stesso. Il punto di partenza, la radice della questione è, a mio parere, che la donna ha fatto un percorso di emancipazione in cui l’uomo non sempre c’è stato, ha imparato, ha raggiunto un’altra armonia di coppia. Anzi, si è sentito sopraffatto, ridimensionato, senza potere ed allora – specie nelle fasce meno abbienti – ha fatto e fa ricorso alla violenza come uno strumento di affermazione del sé.  Noemi viveva forse una relazione di questo genere”.

Anche se con contrasti interiori molto evidenti, tra dichiarazioni assolute di amore e confidenze dolorose e prossime al distacco…  “Questa è la condizione di fondo degli adolescenti, la distanza tra ciò che si è appreso e quello che fai. La mancanza di coerenza che magari rimproverano agli adulti è un connotato tutto loro: riconosco il male, so che il comportamento più giusto è interrompere quel tipo di rapporto ma poi non lo faccio. È un comportamento in linea con la fase culturale attuale, in cui manca l’elemento della riflessione. Si brucia tutto in fretta, di corsa: ti mando uno stimolo, tu non reagisci come volevo e io mi sento uno scarto, tutto in un fiat. Da quello che vedo, quel 17enne si sentiva uno scartato e nessuno ci aveva messo le mani. Anche quando è uscito dalla caserma dei carabinieri ieri sera tardi, davanti alla folla provocatoriamente lui l’ha aizzata, sbeffeggiata: un’ulteriore tentativo di affermazione di sé, come un bullo: è l’unica piattaforma comunicativa che ha, la forza”.

 

Per cominciare ad uscire dall’impotente annichilimento e dalla rabbia inconsulta e semplicistica, e per recuperare quel “percorso” che tanti uomini non hanno fatto, da dove bisogna ripartire? Ha dei casi limite, nella sua lunga esperienza, da poter indicare come possibili modelli?  “Nessuna verità rivelata. Quello che cerco di fare col mio lavoro è esaltare la cultura della ‘fragilità’ tanto da farla diventare una risorsa in grado di farci diventare uomini e donne consapevoli di sé. Certamente ogni istituzione educante dovrebbe attrezzarsi per agevolare il percorso di questi nostri giovani avventurieri dell’identità. Poi cominciamo col farci domande prima di esprimere opinioni e giudizi. Perché, ad esempio, l’emozione prevalente nei giovanissimi è la rabbia? cosa manca in questa società in cui ‘tutto è permesso’? Io non ho la risposta ma cominciamo a cercarla e magari scopriremo cose insospettabili in cui anche noi adulti siamo compromessi. Il pensiero in questi momenti va ai tanti ragazzi e ragazze seguiti in questi anni, i cosiddetti ‘minori del Tribunale’, dai quali ho molto imparato, soprattutto che la rabbia è frutto della disperazione e dell’umiliazione”.

 
 
 

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