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Messaggi di Settembre 2014

Quarti di arcobaleno. Ovvero quando i desideri guardano verso terra

Post n°400 pubblicato il 23 Settembre 2014 da viburnorosso
 

 

Ieri tornando a casa c’era l’arcobaleno. Un po’ incerto, ma comunque riconoscibile.
Un mezz’arco di mezz’arco di arcobaleno con i piedi affondati nell’uscita Prenestina del Gra.
E il bello è che non aveva manco piovuto.

 

Un arcobaleno senza pioggia è quasi una festa senza compleanno.
Anzi, di più.
Un frigo pieno, senza aver fatto la spesa.

 

Le attuali contingenze abbassano la portata dei miei desideri.

 
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Il serpente mascherato. Ovvero quando anche l’inconscio ti prende per il c***

Post n°399 pubblicato il 18 Settembre 2014 da viburnorosso

Sono giorni così. Dove così sta per “complicati, storti, spigolosi”.
Ho preso un grosso impegno lavorativo, un impegno di quelli che visti dalla prospettiva di un anno prima non rivelano tutto il peso che si portano appresso.
Un falso magro, insomma. Come quell’amica che in foto sembra una taglia 40.
Il fatto è che molto tempo fa ho detto “Va bene!” e ora, a distanza di una settimana, non mi posso certo più tirare indietro.
Così mi ripeto mantra automotivazionali del tipo:
“Hai voluto la bicicletta? Pedala!”.
Oppure “Ora che sei in ballo, balla!”.

Però a furia di ripetermeli si svuotano di ogni significato.  Esattamente come succedeva da bambina, quando facevo l’esperimento di dire tante volte una stessa parola – di solito tamburo o bicicletta– e poi all’improvviso accadeva che la parola si trasformava in un ammasso informe di fonemi insignificanti.  Allora era arrivato il momento di metterla giù e lasciarla riposare.

Solo che stavolta non posso mettere giù un bel niente.
Così, quando anche i mantra automotivazionali hanno esaurito la loro funzione, passo alla strategia catastrofista, che è l’ultima spiaggia delle pratiche persuasive.
Si tratta infatti di una strategia da me elaborata per fare fronte a situazioni estreme. Ma come tutte le misure speciali, va usata solo nei casi limite.
Un po’ come si fa con la protezione civile, che non la chiami per far uscire il gatto del vicino della fontana coi pesci rossi.

La strategia catastrofista consiste nell’ampliare la prospettiva e spostare l’obiettivo dalla propria miserrima condizione all’universo mondo, usando come argomento che per quanto male possano andarmi le cose, il loro andamento non si rifletterà negativamente sulle irrisolvibili problematiche della società contemporanea, tipo, chessò, la crisi israelo-palestinese o la fame nel mondo.

Se vogliamo, la strategia catastrofista è una variante del teorema del “mal comune mezzo gaudio” con in aggiunta alcuni elementi della teoria del “Chi è causa del suo mal, pianga se stesso!”
Che si tratti di un paradosso argomentativo è evidente, perché se anche le cose mi andassero per il verso giusto, comunque i suddetti problemi non se ne gioverebbero.

Quindi, come la metti, la metti, le cose andranno comunque male: la differenza è solo di grado tra il male e il peggio.  
Questo sul fronte lavorativo.

Perché, come se non bastasse, sul fronte domestico si ammassano una serie di contrattempi di quelli che ti fanno convincere dell’esistenza di qualche divinità spietata e barbara. E correre a comprare incensi per propiziartela.
Così problemi seri e difficilmente risolvibili si intrecciamo come serpenti a bagatelle noiose ed evitabili, in un nodo impossibile da districare.

Già, come serpenti. Perché è questo che ho sognato l’altra notte.
Nei momenti di difficoltà infatti la mia attività onirica diventa per intensità e contenuti direttamente proporzionale al mio livello di inquietudine.
E così ho sognato che avevo preso in casa tre bisce per vincere la mia atavica repulsione ai rettili. Ora, di per sé, l’idea sarebbe anche lodevole, se non fosse che anche in sogno le tre bestiole continuavamo a ripugnarmi, nonostante raccontassi a tutti con studiata disinvoltura come avessi vinto la mia paura, e che è bene liberarsi dai proprio pregiudizi e altre edificanti cazzate di questo tipo.
Se non che ad un certo punto del sogno decidevo che delle bisce ne avevo abbastanza, e che era meglio riporle nel terrario. Il terrario, bello e spazioso,  lo tenevo al posto del nuovo TV color al plasma da 50 pollici (del quale ora ho anche la prova onirica che si tratti di un oggetto ingombrante ed inutile).
Insomma, per farla breve – anche perché diciamolo, già sentire i sogni degli altri è noioso quasi quanto vedere le diapositive delle vacanze in Tunisia dei vicini di pianerottolo, figuriamoci poi i racconti di una che procede di digressione in digressione – dicevo, per farla breve, dovendo ritrovare le simpatiche bestiole, iniziavo ad eseguire la ripugnante attività di spostare cose con relativa suspense onirica al sollevamento di ogni oggetto.
Alla fine dell'opera osservavo soddisfatta le bisce nel terrario, anche per dimostrarmi che definitivamente avevo superato il mio disgusto.
Ed ora viene il bello. A quel punto del sogno mi accorgevo che uno dei tre animaletti, il più piccolo ad essere precisi, indossava degli occhiali da supereroe. Una mascherina, insomma. Avete presente?
Come quella di Robin l’“amico” Batman. Ed era pure colorata. Tipo quei travestimenti plasticosi e brillanti che i bambini usano a Carnevale per trasformarsi nei loro beniamini.
Insomma, questa mascherina conferiva al rettile un aspetto simpatico ed affabile.
E su questa gradevole immagine il sogno si chiudeva.

Ora io non mi sono mai cimentata con la nobile arte della divinazione, però ho come la sensazione che il serpente mascherato, metafora degli inestricabili e complessi problemi che mi avviluppano anche in sogno, volesse in fondo dirmi che anche una situazione incasinata può rivelare simpatici risvolti.

E siccome la cosa è oggettivamente impossibile, oltre che un tantino paradossale, se ne deduce che ho un inconscio fetente che si diverte a sbeffeggiarmi financo in sogno.

Mentre a me basterebbe dormire.  
Un sonno senza sogni, gentile e ristoratore.
E che si prolunghi preferibilmente fino al primo ottobre.

 

 

 

 
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Castelli in aria (per giunta antichi)

Post n°398 pubblicato il 03 Settembre 2014 da viburnorosso

Antico castello. C’è scritto sull’insegna del bar. Se sono fortunata ci parcheggio davanti la mattina, quando vado al lavoro. Oppure appena girato l’angolo, sul retro. 

Comunque, di lì, ci passo per forza, leggo l’insegna e poi scendo le scale del sottopasso che porta alla metro Rebibbia.

A quel punto, di solito, parte in automatico una visione che mi accompagna il più delle volte fino alla macchinetta obliteratrice: immagino che un tempo – o forse un mai, che però nell’immaginazione si dilata in un tempo antico, andato – immagino che un tempo, dicevo, lì c’era un castello.

Si tratta di una fantasia ricorrente, che passa agevolmente per i tornelli della coscienza senza manco venire notata.
Del resto siamo così pieni di pensieri pendolari che viaggiano a sbafo su e giù per i nostri ragionamenti da non riuscire a controllarli tutti.

In ogni caso è una bella cosa da immaginare. Il castello dico.
Mi piace pensare che alla periferia del bello, capolinea metro B, ci possa essere stato un tempo un castello.
Un castello che oggi sarebbe antico. Con il fossato, i merli e l’edera che si arrampica su per la torre, in cui la principessa prigioniera attende l’arrivo del suo cavaliere.

Costruisco questa fantasia mescolando in libertà un po’ di Lucrezia Borgia, un po’ di Crociate, un po’ di ciclo cavalleresco, un po’ di Scozia.
Ne viene fuori un quadro filologicamente scorretto, ma comunque adatto allo scopo.
Che poi è quello di allontanare per qualche istante pensieri più noiosi.
Soprattutto di mattina, soprattutto di lunedì, soprattutto di inizio settembre.

E così anche oggi ero lì che attingevo distrazione dal pozzo del mio castello, quand’ecco che d’improvviso l’occhio si è messo a guardare quello che si era sempre limitato a vedere.
L’insegna del bar intendo.
Era sempre la stessa, ovviamente, manco che fosse stata rinnovata o tirata a lucido.
Sbiadita quel tanto da giustificare la solenne vetustà dell’antico … CASELLO!

Sì, avete letto bene: CASELLO!
Capite?
Vuol dire che per anni avevo costruito castelli in aria, edificato palazzi su fondamenta inesistenti.
Perché laddove io vedevo un castello, c’era sempre stato un casello.

D’accordo, direte voi, era pur sempre un’immagine di fantasia, e una fantasia dovrebbe essere indifferente alla veridicità del presupposto che l'ha creata.
Lo so. E 
così dovrebbe essere in effetti.

Ma scoprire che la principessa non era rinchiusa nella torre del maniero ad attendere il suo amato, ma dentro un bussolotto della diramazione Roma Nord a riscuotere pedaggi autostradali, mi impedisce di continuare a praticare la sospensione dell’incredulità.
Perché è anche da scoperte del genere che si sacrifica la fede a favore del dubbio.
E poi si finisce col non credere più a nulla.

Per fortuna che Babbo Natale esiste ancora.

 
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