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Messaggi di Gennaio 2017

Lettera a un fanciullo al suo ingresso nell'alfabeto. Ancora di 'Selvaggi lettori'

Post n°933 pubblicato il 26 Gennaio 2017 da giuliosforza

Post 862

Lettera ad un bambino al suo ingresso nell’alfabeto.

Eccoti dunque entrato nel gregge. Fino a qualche mese fa vagavi libero per le valli i prati i boschi della bella Terra e  con tutte le altre creature in essa spiranti ne odoravi i profumi, ne udivi i suoni, ne gustavi i sapori, ne ammiravi i colori, ne percepivi  i moti interiori, con essa, tua grande Madre, in consonanza, ancor non rescisso il funicolo ombelicale che ad essa ti legava. Tutti i tuoi sensi, interni ed esterni, erano tesi come corde d’arpa a vibrare al primo alito della “Mente che il Tutto dall’interno alimenta e, diffusa  per la sua immensa mole, la agita vivificandola in ogni sua parte” (Eneide VI, 19-22). Leggevi, oh se leggevi, intendevi, oh se intendevi, “planando sul mondo,senza sforzo il linguaggio dei fiori e delle cose mute” (Baudelaire, Fleurs du mal, Élévation), leggendo e intendendo nell’alfabeto della Natura-Dio, creatrice di sé e di se stessa ai tuoi sensi risuonante.  Ora sei entrato nel mondo dell’artificio, nell’alfabeto inventato dagli uomini per dire le cose, dar loro un nome che ‘de-finendole’ le mortifica al fine annullandole, se la essenza loro è il legame, anzi l’identità col diveniente Tutto sempre nuovo e sempre diverso e sempre con se stesso permanente identico; con quel Tutto nel quale, come suo porsi negli enti, l’Essere si significa. Ora sei entrato nel mondo della convenzionalità,  del plagio, dell’indottrinamento, di cui l’alfabeto degli umani è il veicolo; ora sei esposto al rischio più grande in cui un nato dall’uomo possa incorrere: quello  dell’ag-gregazione, dell’ingreggiamento, del plagio, dell’indottrinamento. In quel carcere che chiamano scuola ti trasmetteranno , variamente epurato, edulcorato, distorto, inventato, tutto quanto i predecessori hanno od avrebbero pensato, ma faranno poco per stimolarti a pensare con la tua testa. Ti trasmetteranno la storia scritta dai vincitori, selezioneranno per te, discrimineranno per te, falsificheranno per te, faranno di tutto perché, “ alla maniera delle mandrie, tu segua le orme degli antecedenti diretto non là dove tu senti di dover andare, ma là dove dalla massa si va” ( Seneca, De vita beata, I, 3).

Il vecchio Opa è preoccupato per te. Con tutte le sue forze ti scongiura di non offrirti alla massa dei belanti, di rifiutarti agli argomenti di autorità, di tutti i più fragili. E ai vari Prosperi che presumeranno di indottrinarti di gridare come Calibano: “Tu mi hai insegnato a parlare e io ne approfitto per maledirti. Che la peste ti colga”. Quel giorno potrai dire di essere veramente nato all’umanità, nel quale considererai  kantianamente  “la Razionalità che è in te e negli altri sempre come fine e mai come mezzo”.  

Caro Fanciullo inedito

quando, grande, leggerai queste  righe di  Opa ormai  ridiscioltosi nelle cose, capirai quanto di provocatorio le sue parole contengano e quanto di vero; e intenderai l’implicita , suprema lode dell’alfabeto che esse paradossalmente rappresentano.  

Benvenuto dunque a te, Fanciullo inedito, nato a “sforzare il mondo a esistere” , e buon viaggio nella letificante babele degli alfabeti.

*

Battuta di Morgan Freeman nel film The magic of belle isle, un’incantevole vacanza: “Il motivo per cui ho smesso di scrivere? Lo stesso per cui ho smesso di essere religioso: Dio mi ha confidato di essere anche lui ateo”. Esilarante.

*

Così ho deciso di acquistare Lettori selvaggi, di Giuseppe Montesano, 1924 pagine di riletture di letture. 50 euro che Giunti, per l’eleganza dell’ edizione, si merita tutti, ma non certo per le inesattezze  e le sciatterie che rilevo  appena aperto il volume a caso (!) alla voce Bruno. Già nell’indice alfabetico, a pag.1842, trovo  Bruno, Giordano, quasi Giordano fosse il nome, mentre è risaputo che il cognome del Nolano è sì Bruno, ma il nome è Filippo e Giordano il nome …d’arte, quello assunto al momento della vestizione nel noviziato domenicano di San Domenico Maggiore a Napoli. Andando al testo, a pagina 424, trovo riportato, anziché achademico di nulla achademia  (come  si legge in copertina del Candelaio nell’edizione parigina del 1582), hacademico  di nulla hacademia, e subito dopo il verso d’ogni legge nemico e d’ogni fede, preso come motto a prestito dall’Orlando Furioso, storpiato in  d’ogni legge privo e d’ogni fede; subito poi alla pagina appresso  physis diventa fusis. Piccolezze di poco momento, minuzzarie, come direbbe il Nolano?  Nulla affatto. Io non le sopporto e m’ innervosiscono. Se nelle restanti  pagine gli svarioni dovessero avere la stessa frequenza, povero me. Mi toccherebbe cestinare 2000 pagine.

P. S. Mi dite che fine han fatto i bravi correttori di bozze in epoca cibernetica?  

­­­_______________________

 

Chàirete Dàimones!

Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano) 

 

 

 
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Minette "apis argumentosa". Lady Macbeth. Maria Callas. Due suites (Salomé, Uccello di Fuoco). Georges Pretre

Post n°932 pubblicato il 10 Gennaio 2017 da giuliosforza

Post 861

  Atmosfera nivale.

Cessata la tramontana, nel piccolo parco delle tartarughe pesa un silenzio surreale. Risospinto al calduccio tra le mura domestiche, trascorro la mattinata, in un accesso di masochismo, con le note tragiche e ironiche della Lady Macbeth di Sostakovic,  e il pomeriggio con le parole disperate  del dramma shakespeariano, tra le infamie di una lady ambiziosa e sanguinaria, l’ombra vendicatrice di Banquo e una foresta che avanza. Davvero una bella conclusione del periodo natalizio, della quiete alcyonia, di Mitra,  del Sole invitto. Cupa tristezza, nefasti presentimenti. Fosse davvero, la vita,  “una favola… raccontata da un idiota, e che non significa nulla”?

 *

Quarant’anni dalla scomparsa  di Maria Callas

Stanotte ho improvvisamente capito perché Marias Callas mi incantasse  e mi emozionasse così tanto, e continui a incantarmi  ed emozionarmi:  fu certo a causa della  sua intelligenza e della sua classica maschera tragica, ma soprattutto della fluidità della compattezza della trasparenza, e naturalmente della dolcezza,  della sua voce, fluidità trasparenza compattezza e dolcezza che son quelle di una  colata di miele.

Il paragone  della colata di miele è perfetto: mi viene alla mente ricontemplando l’immagine fatta incidere per me da  Minette  su una medaglia argentea: un’ape dell’Imetto, di quelle che deposero  un favo di miele sul labbro di Platone bambino, assicurandone dolcezza e facondia. Generosa  Minette! Ella (a cosa non può condurre l’amore!), ardiva stabilire, nella dedica che accompagnava il dono, un paragone tra me e il Filosofo platùs, “dalle ampie spalle”!…(O forse Minette, la birbona di questo e d’altro  capace, accennava  a sé medesima, alle proprie labbra di apis…argumentosa, “che fruga per compilar melliflua dolcezza”?).

 *

La notte mi rifaccio, sempre per bocca della Divina, con Bellini e Donizetti, le due vette del melodismo italiano, l’una dell’estremo nord, l’altra dell’estremo sud. Le due vette dell’italico Elicona.

 *

Ineguagliabile regalo di Rai5: due suites (Salomé e Uccello di Fuoco) e una Carmen in forma di concerto diretti da uno sorprendente Georges  Prêtre, il cui Fantasma, da poco liberatosi della gabbia corporea, ormai plana negli spazi musicali delle Sfere. Che di più di Oscar Wilde e Richard Strauss insieme, di Igor Strawinski nelle sue pagane fantasie, e di un Bizet all’apice della sua creatività? Non ricordavo un Prêtre tanto partecipe, anima e corpo, tanto ispirato: ogni gesto della sua mano, ogni espressione del suo viso, carichi della sua quasi centenaria ironia, del suo quasi centenario distacco, non potevano essere più adeguati al momento lirico evocato, non potevano maggiormente coinvolgermi e con- muovermi . Che  fossi travolto e abbruciato dal magma sonoro è dir poco. Fui fiamma con Fiamma.

 *

Forse dovrei farmi un altro regalo, Lettori selvaggi, di Giuseppe Montesano, Giunti editore, Roma 2016, pp. 1950, euro 70,50

  Leggo:

  “Quest'opera-mondo, che racconta la creatività umana, la letteratura, il pensiero, le arti figurative e la musica, dai lirici greci a Bob Dylan, da Catullo a Maria Callas, dal Gilgamesh a Roberto Bolaño - ognuno può trovare il ''da/a'' che preferisce, il più divertente, il più coerente, il più assurdo, il più iperbolico - è forse, prima di tutto, un atto d'amore. Amore verso la vita, prima ancora che verso la lettura, perché non c'è pagina, che parli di poesia T'ang, di sapienti indiani, di Marziale o di Friedrich Nietzsche, in cui non si intraveda nitidamente la vita del ragazzo, del giovane, dell'uomo che su quelle pagine si è entusiasmato, si è interrogato e ha sognato, e che di quelle pagine si è nutrito fino a tramutarle in sua carne e suo sangue...”.

  E il primo capitolo, reperibile in rete:

  “La vita è altrove, diceva Rimbaud: ma se la vita vera è altrove non vuol dire che questo mondo miracoloso va abbandonato! Al contrario: vuol dire amare ancora di più le apparenze e le superfici, l’ordine e la bellezza, il lusso, la calma e la voluttà. Il mondo falso che ci viene inflitto non basta a nessuno, a tutte le vite manca qualcosa di essenziale, e per trovare ciò che manca bisogna saperlo immaginare. Leggere vuol dire evocare apparizioni che ci mostrano tutte le vite che potremmo avere, e tutti i mondi che ci sono dentro il mondo. Non è un’operazione facile, perché la solitudine in cui si attua quella sorta di stregoneria evocatoria che è la lettura viene temuta da chi può concedersela, e tolta a chi potrebbe desiderarla. 

  Tutto sembra congiurare contro la magia che moltiplica il nostro io quando siamo l’avventuroso viaggio di Ulisse o quando siamo l’avventuroso pensiero di Platone, la magia che sale come un brivido estatico e voluttuoso quando siamo Beethoven o Coltrane, la magia che ci fa uscire da noi stessi quando l’occhio sprofonda nel mare da cui nasce eternamente la Venere di Botticelli e nella notte in cui si inabissa luminoso il campo di grano con corvi di Van Gogh. La vita vera è altrove, eppure l’unico altrove che esiste è qui: bisogna trovarlo o si è morti. La letteratura deve evadere dall’obbligo dell’attualità che è solo la decrepitudine che la nube mediatica vuole vendere come new: leggere è una delle poche armi rimaste a chi non voglia soccombere all’onnipresente sistema della menzogna che cambia persino il senso delle parole. Nell’immensa prigione a cielo aperto della Russia sovietica Platonov scriveva: ”Da noi si decide ogni cosa a maggioranza, ma quasi tutti sono analfabeti, e una volta o l’altra andrà a finire che gli analfabeti stabiliranno di fare dimenticare le lettere agli istruiti. Tanto più che fare disimparare l’alfabeto a pochi è più comodo che insegnarlo daccapo a molti…”. 

  Le parole di Platonov sono confinate in uno ieri fisicamente totalitario? O sono attuali nell’oggi di un pensiero totalitario che domani sarà anche fisico? In questo che è ormai quasi un post – mondo il gesto di sottrarsi per qualche ora alla giostra della realtà per vedere la realtà smascherata nelle pagine dei libri, è un gesto ribelle. Nella lettura il lettore si ferma, ferma il mondo e lo guarda e lo ascolta nel silenzio, senza lasciarsi trascinare in esso a occhi bendati. Le opere di scrittori e musicisti e filosofi, quando raggiungono l’incandescenza sensuale e conoscitiva che hanno nei Maestri, sono una via concreta di fuga dal pensare e sentire da ipnotizzati: svelano come la menzogna delle parole imprigiona le nostre vite, ma mostrano anche come le parole in rivolta possono scioglierci dalla rete di una realtà spacciata come l’unica possibile da ipnotizzatori ipocriti e ipnotizzati consenzienti.  

  Ma chi parla di letteratura e musica e filosofia oggi, in questo momento, in questo mondo, in questo orrore, non può fare a meno di sentirsi rintoccare in testa un’immagine di Céline:”A Bisanzio discutevano del sesso degli angeli mentre i Turchi stavano già spaccando le mura…”. Allora bisogna lasciar perdere tutto? No, perché c’è un’altra immagine che viene a visitarci in questo crepuscolo luccicante, quella di Socrate che, condannato a morte, certo della fine, pensa che sia venuto il tempo di imparare a suonare il flauto. Oggi la letteratura assomiglia molto a quel “suonare il flauto”: nel cono della lampada che chiude nel buio il mondo esteriore per qualche ora, nell’insonnia nevrotica che ci perseguita o in uno dei rari momenti di pace fatta con noi stessi e con tutto, si entra in altre realtà per scoprire chi siamo davvero. Forse il Sileno logico che vagava per Atene cercando una cura per la verità malata, voleva restare attento e vigile anche se tutto intorno a lui precipitava nell’insensato e nell’approssimativo: e fare una cosa inutile, o che a tutti sembrava tale, e farla con tutte le facoltà sveglie nonostante il pericolo, era per il vecchio Sileno logico la massima forma di resistenza, l’estremo modo per restare fedele a bellezza e verità”.  

Deciso. Mi regalerò Selvaggi lettori.

 

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Chàirete Dàimones!

Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano) 

 

 

 
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Il mio Capodanno

Post n°931 pubblicato il 04 Gennaio 2017 da giuliosforza

Post 860

 

Mi si continua a chiedere se credo o non credo.

La mia  ‘religiosità’ è tale da non poter essere costretta dentro nessuna formula. Ma nessuna formula nell’essenzialità dei suoi simbolismi le è aliena.

*

Di débauches, donde bisboccia, baldoria, abbuffata, gozzoviglia, non posso certo dirmi inesperto; sì invece di veglioni, per il semplice motivo che odio le convenzioni, gli assembramenti, i luoghi e i tempi stabiliti, le feste comandate. E’ per questo motivo che ho sempre preferito trascorrere la notte di San Silvestro in solitudine, leggendo e scrivendo, e la mattina di capodanno passeggiando per le vie finalmente deserte della città addormentata. I veglionanti stravaccati nei loro letti in-violati (nulla di più innocuo del talamo di Dìoniso briaco, pur se contornato di schiere di discinte menadi) non sanno cosa si perdono, che pace panica, che quiete alcionia, finalmente, nel sonno degli uomini e delle cose!

Stamane ho rivisitato, ben intabarrato a causa del freddo polare che infittisce i silenzi, quella parte del quartiere Trieste  che mi è più familiare, delimitata da Via Nomentana, via di Santa Costanza, Piazza Istria, Corso Trieste, viale Gorizia, quella parte, all’incirca, che rappresenta il teatro degli episodi che sono al centro dell’epopea narrata da Edoardo Albinati  nel suo ultimo pseudo-romanzo (il premiato e chiacchierato La Scuola cattolica,  di cui se una cosa è sicuramente sbagliata questa è la dicitura ‘romanzo’ sotto il titolo di copertina). Parcheggiata la macchina in Piazza Santa Costanza, proprio di fronte all’ingresso del San Leone Magno (massimo degrado  intorno, a cominciare dai cadenti intonaci delle mura perimetrali, dalle scritte dei balordi su di esse, dall’ ingorgo delle auto in sosta, dai mucchi di foglie sui marciapiedi, sicuramente mai rimosse dall’inizio della loro  non più recente caduta, dai sanpietrini abbandonati dall’epoca della loro rimozione; inqualificabile degrado che, se si eccettuano le tre vie principali, riguarda ancor di più tutte le anguste  viuzze che se ne diramano: Via Bolzano, via Parenzo, Via Tolmino, via Gradisca, via Bellinzona,  via San Marino, via Appennini,  via Alberoni, via Pola, alla quale non basta la presenza dell’imponente villa che ospita il prestigioso, dicono, Ateneo della Confindustria, la LUISS, o Libera Università internazionale di Studi Sociali “ Guido Carli”, per esser salvata dallo sconcio) imbocco via Bolzano, giusto il tempo di osservare  l’irriconoscibile ingresso, deturpato da una posticcia appendice metallica, di  quel che fu il nobile Auditorium leonino, salgo per via Parenzo e subito mi imbatto in un nuovo edificio di cemento bianco che vagamente ricorda una moschea senza minareti o un teatro tenda di periferia: la nuova facoltà di ingegneria, mi spiega un’antica signora impellicciata con cagnolino, della LUISS. Ma è via Tolmino che mi interessa, e precisamente il numero 12, dove negli anni Sessanta, e credo fino alla morte, abitò Vasco Pratolini.

Vasco Pratolini (che ogniqualvolta capito a Firenze non manco di salire a salutare al Cimitero delle Porte Sante che circonda San Miniato al Monte – ove, se si eccettua Bargellini, sono ospitati   quasi tutti gli scrittori fiorentini di fine Ottocento metà Novecento-  nel piccolo riquadro ricavato  ai piedi dell’ultimo tratto della ripidissima scalinata, ove i suoi resti fanno compagnia a quelli di Spadolini,  di Mario Cecchi Gori e di Annigoni)  non è certo lo scrittore toscano di cui mi sia più nutrito in gioventù, ma con Renato Fucini, Papini, Prezzolini, Soffici, Bargellini, Lisi, Rosso di San Secondo, Paolieri, Tozzi, Palazzeschi, Pea, Tobino, Giuliotti…  (non ahimé Luzi)  sicuramente egli ha collaborato a formare in me se non un bello stilo che m’ha fatto onore (Inf., I, 87) quel poco almeno di gusto della lingua che mi sono sforzato negli anni di salvaguardare. Alla lettura pubblica di Pratolini dedicai nel 1960 le riunioni del Circolo culturale giovanile “Giovanni Papini” che proprio al San Leone Magno avevo fondato, e a Pratolini mi rivolsi personalmente per invitarlo ad un incontro al quale si scusò di non potere partecipare; ma in una breve lettera, datata Via Tolmino, 12, Roma 11 febbraio 1961, così laconicamente rispose (e sarebbe bene gli storici della letteratura ne prendessero atto) ad una mia precisa domanda:

“Accettando rigorosamente le sue domande, dirò che tra i miei libri, quello che preferisco  è “Il Quartiere”; e quello che ritengo migliore   è Lo scialo”.

“Mi auguro che, voi discutendone, le ragioni vi appaiano chiare.

Cordiali saluti, vs

                                                     Vasco Pratolinini

Le sottolineature sono  dell’autore.

Per quanto mi riguarda, dei due romanzi  preferisco il primo, più fresco e meno ideologico, ambientato nel vecchio popolare quartiere di Santa Croce prima che le ristrutturazioni urbanistiche ne trasformassero, non so quanto deformandolo, completamente il volto.

Proseguendo la mia passeggiata nel deserto dell’altro quartiere pratoliniano, quello romano, ho improvvisamente una strana apparizione: una vecchietta piegata letteralmente in due, vestita completamente di nero (e all’antica, dal fazzoletto triangolare  annodato al mento, al  corpetto e al guarnello) avanza spedita al centro della carreggiata, incurante delle poche auto sopravvenienti, un rosario nero nella mano sinistra, un cagnolino minuscolo nero al guinzaglio nella destra. Hoffman e Poe non arrivarono a tanto nelle loro allucinazioni. Ma questa allucinazione non è. Davvero la vecchia  Befana, in vesti funeree,  mi appare in anticipo in via Pola, di fronte alla LUISS, fabbrica di ben diverse allucinazioni. Proseguendo tra il divertito e il pensoso raggiungo via Nomentana, che inizia  ad animarsi, lentamente avviandomi verso Sant’Agnese e fermandomi ad osservare tutta la serie di splendide ville proprietà di ordini religiosi femminili (tra esse, non so da quanto tempo, anche la storica clinica Anglo-americana) e l’ala del già Liceo classico sanleonino diventato sede legale del Link Kampus, emanazione dell’Università di Malta, presieduto da Vincenzo Scotti, il mio coetaneo  più volte ministro, e retto dall’economista De Maio: una delle tante strane università private sorte come funghi a Roma e in Italia all’epoca della Gelmini. E un’altra strabiliante  visione ho all’altezza della dirimpettaia Via Carlo Fea: due pattuglie-fantasma di CC e di poliziotti  che ancora vegliano, dopo sessanta anni, sulla residenza privata di Giovanni Gronchi,  sui suoi festini e le sue partouzes (notoria la passione smodata del pio Presidente per le donne, giovani e meno giovani, e innumerevoli le signore, alcune delle quali a me note,  chiacchierate come sue amanti).

Abbandonata l’ombra del peraltro simpatico Pisano (ne ricordo il toscano brio all’inaugurazione degli anni scolastici dell’Istituto Manieri-Copernico di via Faleria  alle quali, presidente ormai emerito, fin che visse non mancò di partecipare, da amico personale di Gino Manieri), dopo una  capatina al Mausoleo di Santa Costanza e a Sant’Agnese, che il gregge turistico non è ancora tornato ad invadere, mi riavvio al mio tugurio di Vigne Nuove-Porta di Roma. Le strade sono ancora pressoché deserte, Viale Libia è ancora percorribile, il Ponte delle Valli ancora una pista per bolidi. Proseguirò nel pomeriggio i miei tuffi nei silenzi alla Marcigliana, la  riserva naturalistica che ancora, e sempre più numeroso, alleva l’irco selvaggio e, con esso, bestias et universa pecora.

Chàirete

 

 

  

 

 

 

 
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