Perle & Perline

Post n°287 pubblicato il 16 Febbraio 2011 da manser11

"La presunzione mi serve come l'aria per respirare. Mi serve per migliorarmi. Mi serve per creare, per vivere. Che senso avrebbe "tutto questo" se non pensassi di essere BRAVO-MOLTO-BRAVO-CON-PUNTE-DI-GENIALITA' (con soventi cadute nella mediocrità)? Senza una dose giornaliera di sana presunzione non scriverei niente, SAREI NIENTE. Forse lo sono comunque, ma finchè sarò presuntuoso, vivrò." (Dottor Manser)

 
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IL FARDELLO

Post n°286 pubblicato il 10 Febbraio 2011 da manser11
 

Sciore e sciori, pochi giorni ancora e potrete leggere "Il fardello", l'ultimo ubriacante libro del Dottor Manser. Nel frattempo vi tolgo un po' di sete con una breve introduzione. Ci vediamo presto per i brindisi più seri. Invito riservato agli assetati di parole e ai drogati di curiosità.

 

Edizioni Il Foglio

NARRATIVA

www.ilfoglioletterario.it


ISBN 9788876062964

Pag. 137 - Euro 12,00


SIMONE MANSERVISI

Il fardello

 Quando il protagonista di questa storia surreale, “apprendista” scrittore il cui nome non è rivelato, si sveglia una mattina con una gobba pronunciata sulla schiena, comincia un viaggio oltre i confini della realtà con incursioni anche nel passato alla ricerca delle origini del fardello… Capisce presto che solo affrontando de visu certi fantasmi potrà alleggerire il suo “peso”. Ascoltare e seguire la voce dell’anima sarà l’unico modo per realizzare il sogno di una vita e “fottere” persino, con un tocco di presunzione e un pizzico di ironia, la Morte.

Simone Manservisi. Nasce a Roma nel 1974. Gestisce vari blog dove inserisce articoli, racconti e vignette che mettono spesso alla berlina usi e costumi di una società alla deriva. Ha pubblicato Come un fiore nel deserto (Editrice Nuovi Autori, 1997), Destinazione Moe (Oppure libri, 1999), La Grande Inculata (Cicorivolta Edizioni, 2006), Lo strano caso di gastrite del Sig. Bartezzaghi (Progetto Cultura, 2007), Il quaderno rosso (La Riflessione, 2009) e L’isola delle farfalle d’oro (Evoé, 2009).

  

 

Dalla quarta di copertina:

Ogni uomo nasce libero, ma da subito come un bue attaccato al giogo comincia a trascinarsi dietro fardelli sempre più pesanti. Solo chi ha il coraggio di seguire la sua natura ripulendola dall’inquinamento della massa può trovare la strada per ritornare all’antica libertà e alla serenità. Perché come scrive l’autore nel libro: “Il nocciolo della questione sta nella serenità. Per assaporare appieno la felicità bisogna essere prima sereni. Un uomo sereno è un uomo che ha imparato a camminare sulla corda tesa della vita, è un equilibrista provetto. Ogni tanto raggiunge una piattaforma stabile: la felicità. Si ferma un attimo e “serenamente” prosegue.  Vista l'ovvia impossibilità di vivere una felicità costante, è auspicabile trovare l'equilibrio con la serenità, stato che può diventare inalterabile e teoricamente perenne.

 
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Kerouac in Italia, 1966

Post n°285 pubblicato il 31 Gennaio 2011 da manser11
 

Dai venti ai venticinque anni circa ho subito fortemente il fascino di autori della beat generation: Kerouac, Ginsberg, Ferlinghetti, Borroughs. Più che dalla loro arte però, ero attratto dal "mito" e da qualcosa di vago che sentivo in comune con questi artisti maledetti, autodistruttivi e sensibili. Qualcosa che ritrovo ora in questo video, nello sguardo perso, ebbro, disilluso e al tempo stesso dolce e sognatore di Jack Kerouac qui intervistato da Fernanda Pivano nel 1966.

 
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NOTTE BUIA, NIENTE STELLE

Post n°284 pubblicato il 21 Gennaio 2011 da manser11
 

Un King ai massimi livelli partorisce quattro novelle, una più avvincente dell'altra, in un crescendo di fantasia e orrore che risulta ancor più inquietante in quanto orrore che potrebbe benissimo trovarsi "dietro l'angolo" di casa nostra. Un libro che tiene il lettore con il fiato sospeso dalla prima all'ultima pagina.

 
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Ultimi libri letti

Post n°283 pubblicato il 03 Gennaio 2011 da manser11

Gli ultimi libri che ho letto nel 2010 sono diversi tra loro e non tutti consigliabili a parer mio. Mi piace spaziare da un genere a un altro per non arenarmi in labirinti mentali che penso nuociano alla creatività e al sapere. L'anno l'ho dunque chiuso con questi tre titoli: "Il coniglio bianco" di Nino Treusch, "I vinti non dimenticano" di Giampaolo Pansa e "Cronaca di una morte annunciata" di Gabriel Garcia Marquez.

"Il coniglio bianco" è un thriller che parte con buone premesse e tratta un argomento interessante (la dannosità delle onde elettromagnetiche) ma che non riesce, sempre a mio modesto parere, a decolare e a tenere il lettore incollato alle pagine.

"I vinti non dimenticano" è la cronaca del dopoguerra visto dalla parte degli sconfitti. Pansa (ri)scrive la storia citando episodi di violenza anche estrema commessi dai comunisti dopo l'8 settembre. Per molti un libro (e un autore) revisionista con fini faziosi; per me una "normale" e universale cronaca dell'umana malvagità di tutte le guerre del mondo e del sentimento di vendetta che suscitano nei vincitori una volta terminate.

"Cronaca di una morte annunciata" è una storia molto "marqueziana", per chi conosce l'autore e ha letto "Cent'anni di solitudine". Qui il protagonista è il destino e la piega beffarda che può prendere. Bello ma non entusiasmante.

 
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PAROLE SOTTO L'ALBERO

Post n°282 pubblicato il 10 Dicembre 2010 da manser11

Un veloce consiglio per gli acquisti natalizi. Se volete regalare qualcosa di veramente utile, regalate un libro, un qualsiasi libro purché capace di attivare quella spugna spesso inutilizzata che abbiamo nella scatola cranica. Se poi volete regalarne uno dei miei, non posso che ringraziarvi per la fiducia. Trovate i libri del Dottor Manser (descritti nei post precedenti) su ibs.it e siti simili o sul sito degli editori che li hanno pubblicati. Le radici degli alberi più resistenti sono fatti di parole!

 
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Lettera a mio figlio sulla felicità

Post n°281 pubblicato il 05 Dicembre 2010 da manser11
 

Un bel libro da mettere sotto l'albero potrebbe essere Lettera a mio figlio sulla felicità di Sergio Bambarén, soprattutto se il destinatario del presente è una persona con l'anima luminosa e il cervello fino. Come dite?, non conoscete persone con queste caratteristiche? Vi capisco, faccio fatica anch'io a trovarne. Beh, motivo in più per illuminarli... Scherzi a parte, questo romanzo breve e intenso vale molto più del basso prezzo che pagherete per acquistarlo e ve lo consiglio lasciandovi in omaggio i passaggi che seguono.

"Non si invecchia in base al tempo che si ha alle spalle, si invecchia quando si inizia a dimenticare i sogni."

"... stavo imparando a convivere con me stesso e non avrei mai immaginato quante porte mi avrebbe aperto, negli anni a venire, questo atteggiamento nei confronti della vita."

"l'unica persona con cui si deve competere nella vita è se stessi."

"Soltanto chi osa spingersi un po' più in là scopre quanto può andare lontano, soltanto chi segue il proprio cammino ha la possibilità di vivere una vita basata sull'autenticità, l'amore, l'armonia. Soltanto chi cammina al ritmo della propria musica è davvero libero."

"La felicità non si trova una volta tagliato il traguardo, ma proprio nella strada che stai percorrendo, lungo il sentiero per raggiungere i sogni che hai deciso di inseguire."

"Dare senza chiedere nulla in cambio è il regalo più grande che tu possa fare al mondo, ogni giorno."

"... se riesci a raggiungere la pace interiore senza soffrire di solitudine, hai davvero compiuto il grande salto verso un'esistenza di quiete e serenità."

"La realtà è una condizione mentale, nient'altro."

"Vuoi crescere oppure invecchiare? La decisione spetta solo a te."

"Non dimenticare mai che un perdente non è colui che non raggiunge i suoi obiettivi, ma colui che vi rinuncia in partenza."

"E ricorda: stai bene attento a come vedi il mondo, perché il mondo sarà esattamente come lo vedi tu."

 
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L'isola delle farfalle d'oro

Post n°280 pubblicato il 28 Novembre 2010 da manser11

Ho appena finito di leggere un libro di cui riparlerò prossimamente e che consiglio a tutti: Lettera a mio figlio sulla felicità. Lo cito ora perché l'autore, Sergio Bambarén, ha sicuramente scritto quella splendida dichiarazione d'amore verso il figlio con gli stessi sentimenti che hanno spinto e ispirato me a scrivere questa favola. Solo che io parlavo ai miei amati nipotini. La sua lettera è un piccolo forziere ricco di consigli su come... crescere e non invecchiare. La mia favola si prefigge lo stesso scopo. Entrambi parliamo ai nostri bimbi, anche se tramite loro ci rivolgiamo poi a tutti i bimbi e gli adulti che posseggono una luce interiore capace di illuminare il mondo.

L'isola delle farfalle d'oro (Evoé edizioni, 2009, 77 pagine, 7 euro) comincia con zio Simone che dopo aver portato i nipotini Giulia e Riccardo a scegliere i regali per il Natale imminente, rimane in panne con il suo "macinino" sulla strada di ritorno verso casa. Fermo sotto un grande castagno inizia a raccontare loro una favola, la storia di un pilota d'aereo americano della seconda guerra mondiale che precipita su un'isola deserta abitata da farfalle d'oro parlanti. John Peterson, questo il nome del pilota, trascorrerà il resto dei suoi giorni in compagnia delle farfalle in un'osmosi di luce e colori interiori che arricchiranno sia l'uno che le altre, fino a che John, dopo un ultimo contatto "virulento" con il genere umano, porrà fine ai suoi giorni terreni; a quel punto le farfalle partiranno per una missione planetaria nel cui fine sta la morale (una delle morali!) della favola. Terminato il racconto il "macinino" riparte come per magia e lo zio riporta a casa dalla mamma i nipotini, ricevendo in dono prima di andarsene un regalo di valore inestimabile come solo certe emozioni sanno essere.

Con questo chiudo la carrellata di presentazione dei miei libri. Spero di avere incuriosito qualche nuovo lettore; ora lascio i fan del Dottor Manser in attesa de Il fardello, un'altra piccola tessera del puzzle che compone la mia vita non solo letteraria.

 
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Lo strano caso di gastrite del Sig. Bartezzaghi

Post n°279 pubblicato il 24 Novembre 2010 da manser11
 

Volendo considerare i miei libri come tessere di un puzzle, Lo strano caso di gastrite del Sig. Bartezzaghi (pubblicato nel 2007 con Progetto Cultura, pagine 96, 12 euro) si incastra perfettamente con La Grande Inculata, proprio come Destinazione Moe si incastrava con Come un fiore nel deserto. Storie e personaggi sono completamente diversi, ma un filo invisibile lega inequivocabilmente tutta la mia produzione letteraria dal primo all'ultimo libro, dal primo all'ultimo racconto. Per quanto riguarda questo thriller, ciò che lo lega al libro precedente è il bisogno di chiudere i conti col passato per cominciare a vivere pienamente il presente; va da sè che per il gioco degli incastri, questo tema verrà toccato anche nel libro in uscita, Il fardello.

Il protagonista de Lo strano caso di gastrite del Sig. Bartezzaghi è Saul Bartezzaghi, scrittore di successo che un giorno viene "illuminato" dal proprio stomaco, il quale gli dice che se non vuole morire dovrà iniziare a uccidere. E Saul, ad ogni attacco di gastrite, ucciderà. Le vittime sono appunto le persone responsabili dei suoi attacchi gastrici, i quali lo portano a smettere di scrivere per darsi a una forma d'arte molto più macabra... Lo scrittore serial killer svela tutti i particolari degli omicidi durante un'intensa giornata a casa dell'unico amico che gli è rimasto, Filippo Corona, editor della piccola casa editrice che pubblicò il suo primo libro. Sarà una discesa all'inferno per entrambi, ma una volta giunta a termine porterà entrambi a una svolta drastica nelle loro vite.

 
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LA GRANDE INCULATA

Post n°278 pubblicato il 17 Novembre 2010 da manser11
 

Nel 2006 pubblico con Cicorivolta Edizioni La Grande Inculata (122 pagine, 9,50 euro), il libro della svolta, ma non svolta artisco-letteraria, no no! Parlo di una svolta esistenziale: La Grande Inculata rappresenta una catarsi fondamentale nel corso della mia vita.

La storia è quella di Simone Skreta (per i più curiosi il cognome deriva da un personaggio del libro di Kundera), sobillatore professionista, affetto dal morbo di Giacomo Kellerman che lo rende allergico alla gente. La malattia non lascia scampo, anche se il viaggio a Utopia lo aveva illuso di potersi salvare. Scomparso Simone, la sorella viene in possesso di un manoscritto, un diario dove il fratello rivela un agghiacciante delitto compiuto con i suoi amici anni addietro: durante una cena avevano seviziato, ucciso e mangiato un ragazzino trovatosi disgraziatamente alla loro festa. La sorella cerca a questo punto di indagare sulla veridicità degli eventi descritti, intraprendendo un viaggio che la porterà molto lontano...

Era inevitabile che anche questo libro facesse rumore nel mio paesello balordo. Lasciando stare tutti i significati metaforici, impliciti, espliciti e filosofici che si possono trovare nella trama (e che molti non hanno colto), il "casino" scaturito dal libro è dovuto al fatto che si è detto che ho voluto sputtanare un bel po' di gente in quelle pagine. Niente di più falso. Forse sono stato ingenuo nel voler mettere nel cast amici e conoscenti come co-protagonisti, descrivendone alcuni come sfigati, cornuti o balordi, ma era tutta... scena; lo sanno anche loro che fatti e comportamenti descritti sono invenzioni! Ad ogni modo dopo la pubblicazione ho fatto una bella "scrematura" di amici e pseudoamici, la maggioranza dei quali posso oggi dire che non meritavano altro che essere accantonati.

In questi ultimi anni ho capito ulteriormente l'importanza di questo romanzetto e ho scoperto che avendo io "inculato il sistema" (anche se prima o poi il sistema ti incula di rimando) ero riuscito a mantenere vivo Robby, il ragazzino ucciso nel libro, mentre i miei complici non ne avevano avuto pietà. Oggi so che se non voglio diventare una specie di zombie, devo prendermi cura ogni giorno di Robby... Inoltre so che il Morbo di Kellerman, quello reale, è gradualmente scomparso; e Utopia, che nel momento in cui ne scrivevo era solo un sogno, esiste veramente. Può essere un luogo fisico o non-fisico che si raggiunge solo dopo un lungo viaggio mentale!

 
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IL QUADERNO ROSSO

Post n°277 pubblicato il 11 Novembre 2010 da manser11
 

E' il turno de Il quaderno rosso (pagine 104, 12 euro), considerato da qualcuno il mio romanzetto più riuscito e brillante. Scritto e stampato personalmente in 50 copie graffettate nel 2004 con il titolo Tony Stantuffo, ha visto il "successo" quando La Riflessione di Cagliari lo ha pubblicato nel 2009 con l'attuale titolo.

Il protagonista di questo surreale romanzo breve (di formazione) è appunto Tony Stantuffo, di professione "coltivatore di vizi". Tony vive di rendita grazie ai proventi degli affitti di un residence di sua proprietà, ama le donne (o meglio, più che le donne ama il sesso...), è un grande appassionato dei film porno di Selen, adora la Ceres, gli piace viaggiare e leggere i libri che ruba a causa di una sorta di cleptomania che lo affligge. Un giorno si trova tra le mani un misterioso quaderno rosso che racchiude un segreto di vitale importanza. Il guru Coluicheindicalaluce cerca di aiutarlo a decifrare quel mistero, ma sia lui che Tony sanno che dovrà farcela da solo. Ce la farà? Scoprirà quale fondamentale verità è racchiusa tra quelle pagine prima che sia troppo tardi?

C'è chi dice che Tony sono io. Beh, qui ci sarebbe da discutere giorni e notti. Premesso che in ogni personaggio/protagonista che creo c'è qualcosa di mio, per quanto riguarda Tony potrei dire di aver creato un alter ego che è allo stesso tempo opposto e speculare; non è un caso che sia anche diventato un personaggio "reale", con un volto, un corpo, un suo blog e il profilo facebook; e anche in questo caso ci sono differenze: per esempio il Tony del libro è descritto come molto magro, mentre il Tony in rete ha una pancia prominente. Diciamo che il Tony del quaderno potrebbe essere quello che avrei voluto essere io, o che probabilmente sarei io se fossi più cinico, insensibile ed estroverso, cosa che non mi dispiacerebbe per meglio galleggiare in un mondo di cacca come questo. Tony inoltre è benestante: può togliersi sfizi e coltivare vizi come meglio gli aggrada. Io no. Tony è un tombeur de femmes. Io no. Tony ruba ai ricchi... di parole per donare a sè stesso. Io non sono capace neanche di rubare una biro al tavolo di un bar. Tony è un viaggiatore bulimico. Io vorrei viaggiare di più. Per altri versi Antonio Pitigrilli (il vero nome del protagonista) mi somiglia al cento percento: sa come evolversi nell'ozio, beve litri di birra, diffida della gente, possiede un discreto senso dell'ironia e dell'autoironia, ha una prospettiva-fuori-dal-gregge delle "cose della vita", politica e religione incluse.

Se ci penso, senza rileggerlo perché non amo rileggere i miei vecchi libri, potrei definire Il quaderno rosso una sorta di libro autoterapeutico e portafortuna. L'ho scritto per trovare un giusto equilibrio tra Simone e Tony, tra quello che sono e quello che non ho. E di conseguenza, per scongiurare gli scenari catastrofici che potrebbero configurarsi dal non comprendere il segreto racchiuso nel quaderno.

 
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DESTINAZIONE MOE

Post n°276 pubblicato il 08 Novembre 2010 da manser11
 

Destinazione Moe rappresenta in un certo modo il prosieguo e la conclusione del discorso iniziato con Come un fiore nel deserto. Scritto sotto forma di diario e pubblicato con la Oppure libri di Roma nel 1999, il mio secondo libretto (76 pagine, 10.000 lire) mostra la metamorfosi del bravo ragazzo disilluso in giovane irrequieto alla ricerca della propria identità. Il percorso non è dissimile da quello di tanti adolescenti e post adolescenti: alcol, canne, voglia di esistere per qualcuno, per sé stessi; voglia di amare e sentirsi amati, voglia di correre, voglia di sentirsi protagonisti e non solo comparse. Chi può guardare la giovinezza dall'alto dell'esperienza sa quanto erto e incerto sia il cammino che contraddistingue quel periodo (parafrasando Vinicio Capossela, non c'è età più orribile di quella dei vent'anni e giù di lì); il protagonista di Destinazione Moe cerca disperatamente la SUA strada prima che il "ponte" crolli e lo lasci per sempre sulla sponda "sbagliata".

Il modo di scrivere è ancora naif, ma rispetto a Come un fiore nel deserto comincia a intravedersi una larvale personalità stilistica. Di quelle pagine adoro in particolare una frase di una presunzione notevole, ma che a distanza di anni sento ancora e sempre più mia: "... ho scoperto cose che la stragrande maggioranza delle persone non capirebbe nemmeno vivendo cinquanta vite." D'altra parte sono io Moe, e la mia destinazione (a parte quella che non risparmia nessuno) è ben diversa da quella della stragrande maggioranza delle persone.

 
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COME UN FIORE NEL DESERTO

Post n°275 pubblicato il 05 Novembre 2010 da manser11
 

Sai che faccio? Nell'attesa che esca il mio settimo e ultimo libro, ripercorro dall'inizio il mio cammino letterario edito. Era il 1997 quando uscì con l'Editrice Nuovi Autori di Milano Come un fiore nel deserto, un libretto autobiografico molto ingenuo e privo di stile e originalità, ma che fece molto scalpore nel paese dove vivo. Tra quelle pagine mi ero messo a nudo, parlando dei miei due grandi sogni infranti proprio nel periodo di maggior fragilità caratteriale; avevo perso il "Grande Amore" e insieme ad esso il treno per diventare un calciatore di buon livello. Ero praticamente a terra, e avevo cominciato a scavarmi la fossa. Il tunnel è stato buio e lungo ma alla fine ne sono uscito e oggi non posso che essere grato a quell'immensa sofferenza, perché altrimenti non sarei mai diventato quello che sono oggi. Cosa sono oggi? Niente di chè, solo un uomo che ha imparato a godere delle cose semplici della vita e a vedere l'anima delle persone.

Molti mi dissero che avevano pianto leggendo Come un fiore nel deserto;  il fatto in un certo senso mi ha sempre sorpreso, ma da un lato anche appagato: aver scritto con il cuore una storia semplice può significare che scrivere senza artifici è il miglior modo per entrare, appunto, nel cuore della gente. Se ripenso a quel mio primo romanzetto (67 pagine, 16.000 lire dell'epoca) mi vengono subito in mente i versi (perché era composto anche da versi) di una poesiola intitolata "Solo":

Sono solo quando penso / Sono solo quando parlo e tu non mi capisci / Sono solo quando piango /Sono solo quando vorrei essere e invece non ho neppure /Sono solo nell'illusione di una vita su misura / Ho forse colpa se il destino mi ha fatto nocciolo senza polpa? Sono solo e sempre lo sarò.

Quando scrissi queste parole profetiche quasi quindici anni fa, non avevano il significato che hanno assunto oggi. Allora parlavo di una solitudine disperata. Oggi non è più così: sono solo sì, ma la mia è una solitudine piena, che paradossalmente mi rende unico e allo stesso tempo mi fa sentire parte dell'universo. "Raggiungere il cielo e solcare il suo azzurro, per riuscire a sentirsi non più uno ma qualcuno, era la sua grande utopia" scrivo nella premessa. A quell'epoca travagliata e immatura diventare "qualcuno" voleva dire raggiungere un traguardo materiale; oggi essere "qualcuno" significa aver raggiunto una fondamentale meta spirituale. Senza presunzione posso dire di esserci arrivato a quella meta: oggi sono IO!

 
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Paolo Cortesi

Post n°274 pubblicato il 27 Ottobre 2010 da manser11

Dopo il figlio, il padre. Famiglia di artisti quella dei Cortesi. Mai come in questo caso le parole sono superflue; a contare sono le emozionanti fotografie che vi invito a visionare sul sito www.paolocortesi.com. Solo per chi ama il Bello e sa cogliere l'anima delle e nelle immagini...

Dalla biografia di Paolo Cortesi:

Sono nato a Bologna nel 1960 e vivo con la mia famiglia a Castello d' Argile, un piccolo paese della pianura emiliana a metà fra il mare e l'appennino. In questa specie di "terra di mezzo" ho sviluppato la mia passione per il mondo della Natura e il mirino della macchina fotografica è diventato la mia chiave di accesso a quel mondo a cui sento sempre più di appartenere. Dal punto di vista fotografico sono molto legato al mio territorio anche se non mi dispiace, di quando in quando, visitare altri luoghi più o meno esotici, più o meno lontani.

Non so dire quali siano i miei "soggetti preferiti" perchè ho scoperto che in Natura ogni cosa è  meravigliosa:   all'inizio erano gli uccelli nelle zone umide, ma ben presto anche gli insetti, le piante e i fiori , gli anfibi e i rettili, gli ambienti, le luci , i colori e le stagioni sono diventati protagonisti nelle mie fotografie.

Non amo i tecnicismi esasperati e le attrezzature complesse: ho sempre pensato che fra fotografo e soggetto meno roba c'è meglio è, per meglio godersi quel momento di contatto con la Natura sempre troppo breve.

La Natura ha sempre parlato il suo linguaggio attraverso le sue creature e le sue manifestazioni, un linguaggio che molto spesso non siamo più in grado di comprendere.

Credo che il ruolo del fotografo di natura non sia altro che quello di tramite, o interprete, attraverso il quale le cose di Natura possono raccontarsi: se il mediatore è stato bravo questi “racconti” possono affascinare.

Paolo Cortesi sul "set"

 
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Simone Cortesi

Post n°273 pubblicato il 22 Ottobre 2010 da manser11
 

Due righe (anche se ce ne vorrebbero almeno quattro, ma il tempo è tiranno e la mia peristalsi ancora di più...) per parlare di Simone Cortesi, fumettista di Castello d'Argile in provincia di Bologna. Simone, figlio del bravissimo fotografo Paolo (di cui posterò altre due righe prossimamente), ha da poco messo on line il suo blog l'ammazzacaffé. Invito tutti a visitarlo per scoprire questo artista fantasioso e il suo mondo surreale. Ci vediamo all'indirizzo http://simonecortesi.blogspot.com. Portate qualche birra, che poi si festeggia!

Una tavola "rubata" dal blog di Simone.

 
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WARRIORS

Post n°272 pubblicato il 17 Ottobre 2010 da manser11

Penso di aver citato "I guerrieri della notte" decine di volte nei miei discorsi, nei vari blog e persino nei miei libri; conservo ancora un fumetto da me disegnato datato 1986 ispirato proprio alla pellicola di Walter Hill. D'altra parte è uno dei miei film preferiti, film che avrò visto almeno trenta volte, l'ultima questa settimana. Ormai conosco i dialoghi a memoria, ma non mi ero mai soffermato sui significati più o meno reconditi dell' "odissea omerica" intrapresa dai Warriors. L'altra sera ho riflettuto che la forza di quel film, oltre che nella spettacolarità delle scene, nell'azione, nella scenografia e nelle atmosfere notturne newyorkesi, sta nella Metafora. Il "viaggio" nel Bronx al ritrovo delle bande è la metafora del miraggio che gli uomini hanno di un mondo migliore, più giusto, utopistico. Solo che le utopie sono difficili da realizzarsi e la morte di Cyrus lo sottolinea. I Guerrieri vengono incolpati di un crimine  che non hanno commesso e questo evento si può tradurre con l'INGIUSTIZIA che l'uomo deve affrontare sempre durante la propria esistenza. Le dure battaglie che seguono sono la coreografica allegoria della lotta per la sopravvivenza di tutti i giorni. Il ritorno a casa, a Coney Island, si può vedere in vari modi: uno, rappresentato dalle parole di Swan ("Guarda che posto di merda. E abbiamo combattuto tutta la notte per tornarci."), ci suggerisce come tutti, indistintamente, necessitiamo di una casa/patria/famiglia dove tornare; una base in pratica, che per quanto squallida ci appaia, ci fa da "rifugio" e ci fa sentire che abbiamo un'anima, abbiamo radici, senso di appartenenza. Un altro modo di interpretare il ritorno è filtrandolo col "colino filosofico": qualsiasi cosa facciamo, battaglia conduciamo, impresa realizziamo, ritorniamo SEMPRE, prima o poi, al... punto di partenza. Come la Vita con la Morte. Il film si conclude con giustizia fatta e Guerrieri riabilitati. Nella realtà non è sempre così, ma in questo caso c'è un messaggio di speranza: la Verità è una dimensione incancellabile e la sofferenza porta, prima o poi, alla libertà. La libertà personificata dal mare che accompagna i Guerrieri nei titoli di coda.

 

 
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Sottolineature

Post n°271 pubblicato il 24 Settembre 2010 da manser11
 

Di seguito riporto alcune sottolineature del testo di Azar Nafisi postato precedentemente: Leggere Lolita a Teheran. Per invogliarvi a leggerlo, se vi va.

"Ciò che cerchiamo nella letteratura non è la realtà, ma un'epifania della verità."

"Avremmo scoperto come il banale ciottolo della vita quotidiana, se guardato attraverso l'occhio magico della letteratura, possa trasformarsi in pietra preziosa."

"La curiosità è insubordinazione allo stato puro."

"La più alta forma di moralità è sentirsi degli estranei in casa propria (Adorno)."

"(Gatsby) parla anche di come i sogni si corrompano quando si trasformano nella cruda realtà. E' il desiderio ardente , con la sua immaterialità, a rendere puro il sogno."

"In fondo è così che si manifestano gli eventi repentini e devastanti, no? Una mattina ti svegli e scopri che, per forze  che agiscono al di fuori del tuo controllo, la tua vita non sarà mai più la stessa."

"Quando ci si ripensa a distanza di tempo, magari analizzandolo in un articolo, o in un libro, un evento storico acquista una logica e una chiarezza che sul momento non aveva."

"Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l'abisso scruterà dentro di te (Nietzsche)."

"Dei ricordi, come della vergogna, non ci si libera partendo."

"Per vivere una vita vera, completa, bisogna avere la possibilità di dar forma ed espressione ai propri mondi privati, ai propri sogni, pensieri e desideri; bisogna che il tuo mondo privato possa sempre comunicare col mondo di tutti. Altrimenti, come facciamo a sapere che siamo esistiti?"

 
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Leggere Lolita a Teheran

Post n°270 pubblicato il 20 Settembre 2010 da manser11

  Recensione de L'indice

Nel 1995, abbandonato l'incarico all'università dove insegnava letteratura angloamericana, Azar Nafisi propone a sette delle sue migliori studentesse di trovarsi a casa sua, nel primo giorno del weekend, per discutere di letteratura. Un seminario privato: per due anni Nafisi vede le ragazze entrare nel suo salotto, "togliersi il velo e la veste e diventare di botto a colori". Il fatto è che insieme al velo "si levavano di dosso molto di più. Lentamente, ognuna di loro acquistava una forma, un profilo, diventava il suo proprio inimitabile sé". In quelle mattine le otto donne leggono Nabokov, Henry James, Jane Austen. Discutono con passione di Lolita e di Daisy. "Il seminario diventò il nostro rifugio, il nostro universo autonomo, una sorta di sberleffo alla realtà di volti impauriti e nascosti nei veli della città sotto di noi". Nel loro rifugio Nafisi e le sue ragazze guardano il mondo Cattraverso l'occhio magico della letteratura". Ma sono pur sempre a Teheran, e fuori da quel salotto restano grigiore e proibizioni: così, avverte Nafisi, "è di Lolita che voglio scrivere, ma ormai mi riesce impossibile farlo senza raccontare anche di Teheran".

È questo Leggere Lolita a Teheran: il racconto di come una donna (l'autrice) attraversa la rivoluzione islamica iraniana con un bagaglio di romanzi e una gran fiducia nella letteratura, "arte della complicazione umana". Solo che non sono ammesse sottigliezze né "complicazione umana" nel mondo in cui vivono lei e le sue studentesse. È un mondo di romanzi sconsigliati, di ragazze punite se hanno le unghie dipinte, persone che hanno dovuto imparare a non esprimersi apertamente. Nafisi cita il Nabokov di Invito a una decapitazione: insopportabile "non è il vero dolore fisico o la tortura che si infligge in un regime totalitario, bensì l'incubo di una vita trascorsa in un'atmosfera di continuo terrore". Per prima cosa dunque Nafisi vuole trasmettere l'esasperazione di una vita regolata da "norme ottuse", dove un bambino si sveglia terrorizzato perché "ha fatto un sogno illegale": il senso di oppressione di un regime che "negava valore all'opera letteraria, a meno che sostenesse l'ideologia", un regime, del resto, dove il capo del comitato di censura cinematografica è un cieco... Il seminario diventa per loro "un corso di autodifesa" da tutto questo. Ancora Nabokov: "La curiosità è insubordinazione allo stato puro".

Perché Lolita? Nella storia della ragazza di dodici anni tenuta "di fatto prigioniera" dall'uomo che ne fa la sua amante, Nafisi e le sue studentesse vedono "una denuncia dell'essenza stessa di ogni totalitarismo". Ne discutono a lungo, fanno paralleli: a Lolita, dicono, "è stata sottratta non solo la vita ma anche la possibilità di raccontarla". Anche loro sentono di aver perduto qualcosa: la generazione dell'insegnante ha perduto una libertà passata, le più giovani hanno "ricordi fatti di desideri irrealizzati". Tutte hanno imparato a "mettere una strana distanza tra noi e l'esperienza quotidiana della brutalità e dell'umiliazione". Ecco l'accusa: "Il peggior crimine di un regime totalitario è costringere i cittadini, incluse le vittime, a diventare suoi complici".

Traspare un'urgenza, da queste pagine. Non solo trasmettere quel senso di soffocamento, o forse di spiegare perché l'autrice, come molte delle sue giovani amiche, cercheranno di sottrarvisi andando via. Più ancora, è la necessità di riflettere su "come siamo arrivati a questo?". Qui l'autrice torna indietro nel tempo, e offre un raro racconto "dall'interno", soggettivo e intriso di partecipazione umana, di eventi che abbiamo visto da lontano, per lo più nei loro risvolti politici. Siamo nel 1979, quando Nafisi, terminati gli studi negli Stati uniti, torna a Teheran: la rivoluzione - per cui anche lei si era battuta, come tanti studenti iraniani all'estero che avevano lottato contro lo Shah - era vittoriosa. Nafisi comincia a insegnare letteratura angloamericana all'Università statale di Teheran. L'università era allora il principale teatro di scontri ideologici tra le correnti rivoluzionarie di sinistra e quelle islamiche; Nafisi parla di Fitzgerald e di Twain tra assemblee sull'imperialismo e di denuncia della società borghese, discute di Hucklberry Finn e di Gatsby mentre gli studenti islamici occupano l'ambasciata americana. In queste pagine - forse le più appassionanti - vediamo lo scontro riassunto nello strepitoso "processo" a Gatsby istituito dalla professoressa Nafisi, con tanto di giudice, giuria, accusa e difesa. Gatsby esprime il materialismo decadente del mondo occidentale, accusano studenti che citano Khomeini e vorrebbero letture "rivoluzionarie" e moralizzatrici. Ma un romanzo è bello se riesce a mostrare la complessità degli individui, ribatte la difesa. Intanto, "sulla scena politica si assisteva a una specie di replica del nostro processo": i romanzi "decadenti" scompaiono poco a poco dalle librerie - finché scompaiono anche le librerie.

Dopo mesi di scontri, arresti, morti, le correnti islamiche prendono il controllo delle università, le correnti di sinistra sono sconfitte, le voci laiche zittite. La "normalizzazione" arriva sotto forma di "comitato per la rivoluzione culturale". Le donne sono obbligate ad abbigliarsi in modo islamico, quelle come Nafisi lasceranno l'insegnamento (ma l'ipocrisia che colpisce chi visita l'Iran oggi era già presente allora, nelle parole del giovane islamico che chiede alla prof di adeguarsi: "In fondo è solo un pezzo di stoffa").

Con la guerra poi, trionfa la retorica della morte e del martirio. Ormai ogni critica è disfattista ("Per tutta la durata del conflitto il regime islamico non perse mai di vista la sua guerra santa, quella contro i nemici interni"). Il chador diventa una cosa "fredda e minacciosa": non sarà mai più quello che portavano le nonne, "è macchiato per sempre dalla connotazione politica che ha assunto". Imperversano gli slogan. L'unico rifugio è la lettura, nelle notti insonni per gli allarmi aerei ("tra le pagine resta la sirena dell'allarme").

Non c'è una semplice risposta al "come siamo arrivati a questo". La riflessione è accennata: quando l'autrice parla dell'università "che, come l'Iran, avevamo tutti contribuito a distruggere". Dove ricorda con sgomento la violenza verbale di quelle assemblee infuocate, da parte di studenti che spesso finiranno loro stessi vittima delle purghe. O dove, avverte: "Siamo tutti perfettamente in grado di trasformarci nel censore cieco, di imporre agli altri la nostra visione".

Era necessario ripercorrere tutto questo per tornare al seminario privato della professoressa e le sue studentesse: ora conosciamo i loro percorsi, quella sopravvissuta ad anni di carcere, quella che va al seminario di nascosto, quella che vuole emigrare... Ormai in Iran sono emersi "degli islamici di tipo nuovo", meno attenti agli slogan e più alla carriera, "liberali", pragmatici. Di fronte al dilemma "stiamo al gioco e lo chiamiamo dialogo costruttivo oppure ci ritiriamo dalla vita pubblica in nome della lotta al regime", alla fine della guerra lei era tornata a insegnare, prima di ritirarsi di nuovo, scettica verso le promesse dei "liberali" ("che ora chiamano riformisti"). Nel seminario ora discutono di James e di Jane Austen e delle incertezze personali di ciascuna, di fidanzamenti, di libertà individuale e di "diritto alla felicità". Le sue ragazze, osserva, condividono il "disagio che nasceva dalla confisca da parte del regime dei loro momenti più intimi e dei loro desideri". Vista da Teheran, l'affermazione "il privato è politico" non regge: "Non è vero naturalmente. Anzi, al centro della lotta per i diritti politici c'è proprio il desiderio (...) di impedire al politico di intromettersi nella vita privata", scrive Nafisi.

Il desiderio di evadere è condiviso. Alla fine evade Nafisi: parte per gli Stati Uniti. Porta l'avvertimento delle ragazze e di un vecchio amico-consigliere: "Non potrai scrivere di Austen senza scrivere anche di noi", le dicono: "La Austen che conosci è irrimediabilmente legata a questo posto". Proprio come Lolita, o Gatsby, "che hai letto qui, in un paese dove il censore è cieco".

 
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Keith Haring

Post n°269 pubblicato il 16 Settembre 2010 da manser11
Foto di manser11

Keith Haring
A cura di Luca Beatrice
Testo in catalogo della mostra:
Keith Haring
Milano - Vecchiato Art Galleries
Dal 9 aprile al 30 giugno 2009


Questa è la storia di un uomo che ha tracciato il proprio percorso danzando come la traiettoria, instabile ma potente, di una stupenda cometa.
Il 4 Maggio 1958 Keith Haring nasce a Reading, in Pennsylvania, e cresce a ritmo di rock'n roll.
Molto presto inizia a disegnare, incoraggiato dal padre Allen che condivide la sua stessa passione.
Il debutto artistico di Keith è fortemente influenzato, infatti, dai fumetti che il padre schizza velocemente per lui.
Conduce una vita ordinaria, nel cuore dell'America borghese: isolato dal mondo, distante dallo shock della controcultura degli anni '60, Keith si alimenta solamente di periodici come Look e Life e di televisione che, in quel periodo, si occupa ininterrottamente della guerra del Vietnam.
Con l'arrivo degli anni '70, afferma la sua indipendenza incontrando inevitabilmente droghe e alcool, ma assaporando anche la pittura, che diventa e rimane per sempre la sua vera passione.
Ascolta i Gratetful Dead, i Led Zeppelin, i Beatles e nel 1976 è accettato alla Ivy School of Professional Art di Pittsburgh dove studia Arte commerciale. Abbandonati velocemente questi studi, si mantiene con numerosi lavori saltuari e scopre, allo stesso tempo, Pollock, Warhol e Alechinsky.
L'Arte e quel periodo storico sono strettamente legati: Keith inizia ad esplorare nuove tecniche, producendo opere dalle dimensioni maggiori.
Si esibisce per la prima volta nel 1978 all'Arts and Crafts Center di Pittsburgh e, nello stesso anno, si trasferisce a New York. Qui incontra Basquiat, divora i libri scritti da Burroughs ed entra alla School of Visual Arts: studia semiotica, storia dell'arte, scultura e pittura, cibandosene per i suoi lavori futuri. Il suo linguaggio abbraccia inoltre i geroglifici e le linee geometriche, i collages testuali, le fotocopie, dando vita ad un'esplosione di energia.
Nel 1980 si esibisce al Club 57, prende parte all'esibizione New York/New Wave e incontra artisti del graffito come Futura 2000 e Fab Five Freddy. In seguito, inizia a dipingere in luoghi pubblici, realizzando la sua prima opera murale nel 1981in una scuola del Lower East Side. Presente alla Documenta 1983 di Kassel, trascorre le notti in clubs e saune: lavoro e vita si fondono, diventando un'unica cosa.
 
John Lennon è assassinato nel 1980: una decade sta finendo, un'era sta cambiando.
Keith Haring è vivo!

La città e la vita sono i suoi temi preferiti. Dovunque si trovi, disegna, dipinge, lasciando il sua firma ogni volta. Dipinge nelle metropolitane, sui cartelloni pubblicitari, fuggendo al controllo della polizia che lo segue ad ogni suo passo. Dipinge sui muri di qualsiasi città del mondo, da Melbourne a Manhattan, da Rio a Minneapolis, marchiando qualsiasi oggetto, partecipando inoltre alla Biennial of Whitney Museum e a quella di San Paolo in Brasile, senza mai perdere la sua coerenza artistica.
La metropolitana di New York è il suo laboratorio, il luogo dove lui sperimenta, improvvisando ed inventando, ma sempre utilizzando lo stesso metodo: disegnata una prima trama, traccia con il pennello icone e modelli che ciascuno di noi, a poco a poco, è in grado di riconoscere.
Così come la quantità delle sue creazioni aumenta, maggiore è il numero degli spazi pubblici a sua disposizione, luoghi in cui il pubblico può ammirare liberamente e gratuitamente la sua creatività.

Nel 1984, Keith afferma: “L'arte vive attraverso l'immaginazione delle persone che la guardano. Senza questo contatto, l'arte non esiste. Ho scelto di diventare un produttore di immagini del XX secolo e ogni giorno cerco di capire le responsabilità e le implicazioni che questa scelta comporta. È diventato chiaro per me che l'arte non è un attività elitaria riservata all'apprezzamento di pochi, ma esiste per tutti noi, ed è questo che continuerò a fare”.

Keith Haring compie 26 anni.
Cosa rimane nella tua mente della tua infanzia quando compi 26 anni? Figure inanimate, alcuni ricordi sbiaditi, il mondo di Walt Disney rovinato, la certezza che il mondo stia arrivando alla sua conclusione, o piuttosto la convinzione che il futuro ed i sogni di ognuno di noi siano raggiungibili? Chi può saperlo?
Keith sceglie il suo percorso, tornando ai luoghi della sua infanzia e trasportandoli agli anni della sua maturità. Cartoni animati ed energia atomica, icone infantili e industria del consumo, bambini schiacciati dal potere della tecnologia, schiavizzati, sacrificati al volere della macchina, gratificazione immediata dei bisogni del singolo e della totalità dei desideri, il potere del sesso.
Egli si pone al centro dei problemi della sua generazione, della sua era. Riunisce, paragona e unifica figure opposte ed icone contraddittorie. La sua arte nasce da questo confronto.
“Io dipingo quadri che rappresentano la mia ricerca. Lascio agli altri il compito di decifrarli, di capirne i simboli e le loro implicazioni. Io sono solo un intermediario”.
Meglio di altri, Keith Haring intuisce di avere i giorni contati e capisce così di dover danzare attraverso la vita, viverla velocemente. Utilizza vari supporti per la realizzazione dei i suoi lavori: dal calco in gesso del David di Michelangelo al corpo di Grace Jones, tornando poi nuovamente ai murales.
Il successo è lì, pronto ad incontrarlo. Si innamora di un DJ e Madonna canta al suo compleanno.

Per condividere con i compagni di avventura la felicità ed il successo, organizza un enorme party a New York. Tremila persone si presentano al Garage Paradiso. E' la primavera del 1984 e la festa si intitola Party of Life.

La vita è un viaggio.
Keith continua a viaggiare. Presenta i suoi lavori alla CAPC di Bordeaux, e prende parte alla Biennale di Parigi. Le sue sculture in acciaio dipinto vengono esposte alla Leo Castelli Gallery di New York e in quell'occasione afferma: “Vedere le mie sculture in mostra presso la Leo Castelli Gallery è un grande onore…perché lì le sale sono sacre. Jasper Johns ha esibito i suoi lavori lì, Lichtenstein ha dipinto un murale gigante proprio lì. Per me questa è l'occasione per fare qualcosa di completamente irrispettoso!”
Inizia così a dipingere i suoi personaggi, provenienti dalle strisce dei fumetti, direttamente sulle pareti della galleria. In questo maniera ritorna all'adolescenza, trovando allo stesso tempo anche che un modo ed un metodo personale tramite cui fare i primi passi verso lo status di artista consolidato. E' il 1985.
Esiliato dal mondo artistico ufficiale, Keith Haring è tuttavia un artista di successo molto popolare. Sempre nel cuore della modernità, considera la sua arte come una massa  risultante da prodotti commerciali. È molto attento alla promozione delle proprie opere, del proprio lavoro, e non è solo un businessman, ma anche un artista che vuole essere sicuro che il suo lavoro ed il suo impegno artistico siano disponibili a tutti. Capendo davvero l'importanza della distribuzione, Keith vuole che il suo nome non sia collegato ad uno stereotipo, ma piuttosto far sì che il suo lavoro sia aperto a tutti, in un incessante dare e avere.
Questa apertura, questo scambio ed il commercio non sono sleali nei confronti dell'arte convenzionale, ma diventano una parte importante ed integrale di essa.

Nel 1986, Keith Haring smette di disegnare nelle metropolitane una volta per tutte e apre un negozio a Manhattan nel quale vende magliette, cartoline, poster, prodotti figli della sua stessa arte: il Pop Shop.
In questo modo vuole rendere la sua arte ancora più accessibile, includendola nella vita quotidiana di tutti: in seguito, Keith diventa un vero e proprio marchio.
Così facendo, si assicura inoltre la libertà rifiutandosi di dipendere esclusivamente dai mercanti d'arte. Mantiene la distanza dal circolo ufficiale dell'arte, ma lo fa senza alterare la natura del suo lavoro come artista, e senza perdere popolarità.
Molto presto, non contento di copiare vecchi modelli, concepisce dei prodotti originali per il suo negozio. In questo modo il suo nome, il suo marchio e la sua arte vengono distribuite a livello mondiale. Il pensiero corre allora a Warhol, anche lui di Pittsburgh, amico di Keith dal 1983 e soggetto di alcune sue opere in cui appare come Andy-Mouse – rappresentazione del mondo Disney e dei prodotti di Warhol - sottolineando la natura riproducibile dell'arte. Ad ogni modo, Haring non si lega alla riproduzione di marchi commerciali come la Campbell's Soup o la Coca Cola, ma inventa nuovi schemi che non smette mai di rappresentare. Nello stesso momento in cui il marketing si sviluppa, inizia l'era del marchio personale.

Keith Haring continua a viaggiare per il mondo lasciando i suoi segni. In quell'anno dipinge murali a New York, a Parigi, ad Amsterdam dove espone allo Stedeljik Museum, arrivando anche al muro di Berlino. Tiene inoltre lezioni di disegno, prendendo parte a programmi d'aiuto ai bambini.

Per celebrare il bicentenario della Statua della Libertà, disegna il profilo della statua su di un enorme telone, il quale viene poi appeso a un edificio arrivando a coprirne 11 piani: più di un migliaio di bambini colorano seguendo i contorni tracciati da Keith.

Gli anni '80 sono anni caritatevoli e sinceri. Dal Band Aid fino a molti altri impegni umanitari, gli occidentali finalmente capiscono di non essere soli a questo mondo.
Nel 1987 Keith Haring si impegna ancora di più nel suo lavoro con i bambini. In tutto il mondo dipinge murales all'aperto. In seguito, attraverso le commissioni statali e le operazioni di pubblicità per la beneficenza ai bambini, ritorna al suo primo amore, i fumetti.
Dipinti e sculture ispirate ai bambini segnano il suo lavoro e, inoltre, aiuta con la propria pittura la campagna di alfabetizzazione sia in Germania che negli Stati Uniti.
È totalmente parte di quest'epoca e sceglie di usare il suo lavoro per la causa nella quale ha sempre creduto, l'infanzia, e che, come spesso ha detto, non ha mai abbandonato.
In quell'anno crea una delle sue sculture più importanti: Red Dog per Landois. Produce inoltre un'altra scultura monumentale per lo Schneider's Children Hospital of the Jewish Medical Center oni Long Island.
Quando Andy Warhol muore, Keith afferma: “Lui è stato il primo artista pubblico, nel vero senso della parola, e sia la sua arte che la sua vita hanno cambiato la nostra concezione di arte e vita nel XX secolo”.

Gli anni '80 sono segnati dal lutto. La malattia e la morte sono onnipresenti.
Jean Michel Basquiat muore nel 1988. Keith, che si trova in Giappone, scopre che il suo corpo è coperto da piccoli punti viola e capisce di essere stato contagiato dall'AIDS.
Dopo momenti di forte disperazione, Keith si lancia nel lavoro con un energia incredibile. Paga il suo tributo a Basquiat attraverso le sue tele, con lavori come Silence=Death, e altre opere in cui, anche se la morte è predominante, la promessa dell'arte e della sua continuità non lo abbandonano mai. Forse Haring voleva esorcizzare il suo destino o tentare di vedere la sua arte da un altro punto di vista.
Collabora poi con Burroughs a una serie di stampe ad edizione limitata, Apocalypse e The Valley, e inoltre prepara quella che è la sua ultima mostra alla Tony Shafrazi Gallery, nella quale si condensano tutti i temi affrontati fino a quel momento. Figure intrecciate e tracce di pittura che corrono sulla tela, assurdi collegamenti tra l'uomo, l'animale e la macchina.

Nel 1989 crea una fondazione con lo scopo di aiutare i bambini e di supportare le organizzazioni che si battono contro l'AIDS. Realizza infine il suo ultimo lavoro pubblico sulla facciata della chiesa di Sant'Antonio a Pisa: il murale Tuttomondo è la sua ultima celebrazione della vita.

Ci lascia il 16 Febbraio del 1990 dicendo: “I miei disegni non cercano di imitare la vita, ma cercano di crearla ed inventarla”.

 

 
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Basta che funzioni

Post n°268 pubblicato il 08 Settembre 2010 da manser11

Ieri sera ho visto un film spassosissimo, Basta che funzioni di Woody Allen, con un mitico protagonista.  L'happy end finale è un po' troppo... happy end, ma storia e personaggi sono fenomenali. Consigliato.

 Boris Yelnikoff, un tempo fisico di fama mondiale ed ora uomo anziano che ha già fallito un tentato suicidio (in seguito al quale la moglie lo ha lasciato), è in lotta con il mondo. Non c'è nulla che consideri positivo e anche le lezioni di scacchi che impartisce a giovani allievi divengono un'occasione di scontro. Finché, un giorno, non incappa in Melody, una giovane miss di provincia che è fuggita nella Grande Mela e dorme in strada. Il burbero Boris cede alle sue richieste e acconsente ad ospitarla per una notte che si trasformerà in mesi sino a divenire un matrimonio. Ma non tutto potrà proseguire pacificamente perché Marietta, la frustrata madre di Melody, riesce a rintracciare la figlia. E non è per nulla contenta di quelle nozze.
Woody è tornato a Manhattan sospendendo il pur produttivo esilio europeo. Lo ha fatto ripescando una sceneggiatura pensata su misura per Zero Mostel e che quindi ha più di trenta anni, considerando che l'attore è morto nel 1977. Ovviamente è stata riveduta e corretta e non solo per adattarla alla personalità del comico Larry David protagonista della fortunata serie tv Larry David: Curb Your Enthusiasm. Perché vi si legge un Woody sempre più consapevole della propria età il quale (riaffrontando dopo ben 4 film le riflessioni sull'ebraismo, la psicoanalisi e la religione nonché i beneamati cantanti d'epoca) compie un ulteriore passo in avanti per quanto riguarda il proprio sguardo sul mondo. Anzi, è proprio dallo sguardo che gli viene restituito dallo spettatore, di cui Boris/Woody si dichiara perfettamente consapevole, che prende le mosse il film.
Mettendo da parte la falsa modestia che ha sempre fatto da velo tra lui e il suo essere un intellettuale a tutto campo, Allen ammette di essere un genio perché non ha una visione limitata della realtà. Lo fa in un film in cui la sceneggiatura è di una precisione millimetrica e nel quale, ancora una volta, le battute che vorresti mandare a memoria sono decine e decine. Ma sa anche inserire nei personaggi (ognuno dei quali porta con sé una parte, magari piccola, delle sue in/certezze) accenti di umanità su cui esercita una riflessione molto meno sarcastica che nel passato.
Intendiamoci: Woody non è diventato buonista e le dosi di cinismo che ci regala anche in questa occasione non sono certo poche. Però questa volta ogni personaggio è visto, anche quando descritto con ritrattini al vetriolo, nella sua debolezza e pertanto, in definitiva, compreso. Il che non significa giustificarne grettezze o chiusure ma prendere atto che né la teoria che vuole l'uomo originariamente buono e poi corrotto dalla società né il suo opposto sono valide in assoluto. L'uomo è un coacervo di pulsioni e sentimenti ma il Woody over 70, supera l'anedonia (cioè l'incapacità di provare piacere in generale) di un tempo per suggerirci, novello Lorenzo De' Medici, che non è solo la giovinezza che si fugge tuttavia, è la vita stessa. È allora fondamentale catturare tutto il bene che può venircene. Unico principio da rispettare: non nuocere agli altri. Unica regola valida: guardarsi dentro per capire cosa per noi è davvero importante. Senza falsi moralismi e, in qualche caso, credendo anche in un dio gay (e arredatore) per sperare in un aldilà su misura. (tratto da www.mymovies.it)

 
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