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la musica, suonare il pianoforte, suonare il mio violino, la luce del tramonto, ascoltare il mare in una spiaggia deserta, guardare il cielo stellato, l’arte, i frattali, viaggiare, conoscere e scoprire cose nuove, perdermi nei musei, andare al cinema, camminare, correre, nuotare, le immagini riflesse sull’acqua, fare fotografie, il profumo della pioggia, l’inverno, le persone semplici, il pane fresco ancora caldo, i fuochi d’artificio, la pizza il gelato e la cioccolata


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l’ipocrisia, l’opportunismo, chi indossa una maschera solo per piacere a qualcuno, l’arroganza, chi pretende di dirmi cosa devo fare, chi giudica, chi ha sempre un problema più grosso del mio, sentirmi tradito, le offese gratuite, i luoghi affollati, essere al centro dell’attenzione, chi non ascolta, chi parla tanto ma poi…, l’invidia, il passato di verdura





 
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Valse Oublièe
Valse Impromptu

Schubert

Impromptu n.3 op.90
Impromptu n.2 op.142




 

Messaggi di Febbraio 2017

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Post n°678 pubblicato il 28 Febbraio 2017 da enodas

 

 

Sono seduto ad ascoltare. Immerso nel buio della sala e nella cascata di note. Ho cercato di lasciare che fossero loro e loro soltanto a portarmi in questo mondo incantato che è la musica, che è l’anima, senza appoggi concreti e linee soltanto senza fine. Ho cercato che fosse così, libero da quelli che secondo me sono un po’ artefatti costruiti da un personaggio attorno a se stesso. Perché, tutto sommato, la musica si ascolta e non dovrebbe avere bisogno di altre parole. E per momenti è stato così, tra melodie conosciute, altre quasi dimenticate come sotto una coltre di polvere, altre infine scoperte, magari immaginando una piccola storia dietro ognuna di esse. Allora, ho lasciato che fossero le mie corde nascoste a vibrare insieme a quelle scoperte del pianoforte.

 

[...]                                   [...]

 

 

 
 
 

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Post n°677 pubblicato il 24 Febbraio 2017 da enodas

 

 

30 Novembre – 2 Dicembre

 

Tronador significa ‘tuono’. Tronador è il rumore del ghiaccio che si spezza e si dissolve in una nuvola compatta mentre frana verso valle. Tronador è il suono che mi accompagna mentre cammino, mi fa alzare lo sguardo, alla ricerca in qualche punto di quel ghiaccio distrutto. E’ una delle mie ultime variazioni di blu, quelle infinite che ho raccolto finora. Anche quando, complice i detriti lasciati nei secoli dall’azione di un vulcano fanno sì che il mio ultimo ghiacciaio sia ‘nigro’, nero come il carbone. Ultimo ruggito meraviglioso di questa natura indomata, così come si è presentata ai miei occhi.

 

 

Dalla pampa a delle esplosioni di fiori: un giallo intenso presente ovunque, eppure clandestino, pianta straniera importata dagli Europei. E nascosti, silenti, allungati, lungo una strada di montagna, si lasciano laghi, il profilo andino, il confine col Cile. In questa colonia, che sembra un angolo alpino, un incrocio tra paesaggi svizzeri ed atmosfera bavarese, e chissà quale piega della Storia sia riuscito a nascondere.

 

 

"...Il sole tramonta a ovest, si inabissa nel Pacifico, e i suoi ultimi riflessi proiettano sulla candida pampa l’ombra del Patagonia Express che si allontana in senso contrario, verso l’Atlantico, là dove iniziano i giorni..."

 

Ancora una volta, ero in errore. Ho pensato a Puerto Natales che non avrei più visto un cielo del genere. Forse non lo stesso, ma quest’ultima sera, scendendo per le strade di San Carlos de Bariloche, ho ritrovato quel cielo tinto di sangue. L’ho trovato mentre dipingeva il profilo delle Ande, oltre il lago, verso quella frontiera scomparsa che idealmente per me è rimasta segnata da qualche parte nella Terra del Fuoco. Come una musica fatta di silenzi, di suoni inghiottiti dalla forza de vento, questo è il mio ultimo sguardo verso di essa.

 

Sempre è commovente il tramonto
per indigente o sgargiante che sia,
ma più commovente ancora
è quel brillio disperato e finale
che arrugginisce la pianura
quando il sole ultimo si è sprofondato.
Ci duole sostenere quella luce tesa e diversa,
quella allucinazione che impone allo spazio
l'unanime paura dell'ombra
e che cessa di colpo
quando notiamo la sua falsità,
come cessano i sogni
quando sappiamo di sognare.

(Afterglow – Jorge Luis Borges)

 

 

Calafate non è solo il nome della città più vicina al ghiacciaio Perito Moreno, ma è soprattutto il nome di un frutto che cresce in Patagonia, una via di mezzo tra delle bacche e dei mirtilli. La gente del luogo lo usa per ottenere distillati e marmellate. Ho trovato questi mirtilli selvatici lungo le rive di un lago, laddove uccelli di ogni tipo planavano e decollavano in uno sciame continuo. La voce perduta delle leggende dice che una volta mangiate, queste bacche assicurino il ritorno lungo le strade della Patagonia.

 

 

Il mio racconto termina qui, su una lunga pedalata fatta di sali-scendi, pendenze e sbuffi di vento. Ed aperture improvvise di laghi, acque cristalline, ed i picchi ghiacciati in lontananza. Con un occhio all’orologio, che non manchi la partenza. Ho ancora poco, per guardarmi indietro, per raccogliere immagini e soprattutto pensieri, di un luogo che era un sogno già evocato dal solo nome. Ed un tassello in più del mio animo, segnato da un senso di inquietudine e paura, i primi giorni, che ha rischiato di far saltare tutto e mi è costato non poco. Sarebbe stato un peccato, davvero, un’occasione colpevolmente mancata, ed un desiderio tradito. Anche se non sempre i miei pensieri e le mie immagini si sovrapponevano esattamente con le mie aspettative e la mia immaginazione.
Infinite variazioni di blu e straordinari cieli di Patagonia: se è difficile narrare lo spettacolo che la natura ha ingaggiato con me in questi giorni, questo è stato il mio filo conduttore e questo sarebbe idealmente il titolo raccolto per i miei appunti di viaggio. Quello che rileggo adesso, mentre scrivo, sotto una nuova luce che forse ne risalta maggiormente la forza e la distanza. Qualcosa che già, inizia a mancarmi. Ed aspetti nuovi di me lungo una strada che, nella realtà, prosegue ancora, chilometri e chilometri.

 

"...Non ero solo. Non sarei stato mai più. Coloane mi aveva passato i suoi fantasmi, i suoi personaggi, gli indio e gli emigranti di tutte le latitudini che abitano la Patagonia e la Terra del Fuoco, i suoi marinai ed i suoi vagabondi del mare. Adesso sono tutti con me e mi permettono di dire a voce alta che vivere è un magnifico esercizio."

 


 

 
 
 

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Post n°676 pubblicato il 22 Febbraio 2017 da enodas

 

 

26-29 Novembre

 

"... Strada dritta, grigia, polverosa, e senza traffico. Vento implacabile, che ti porta via. A volte senti un camion, sei sicuro che sia un camion, ma è solo il vento. O senti il rumore che fa il cambio quando ingrana la marcia più bassa, ma anche quello è il vento. A volte il vento da' l'impressione di un camion scarico che sobbalza su un ponte. Anche se un camion arrivasse alle tue spalle, non lo sentiresti..."

 

Posso lasciarmi alle spalle quanto fatto finora, ogni tratta spezzata del mio viaggio. Sento che ora, davvero, per qualche giorno saranno una denominazione ed un numero a tracciare la via. Ruta 40, Patagonia, verso nord: questa lunga linea tracciata sulla mappa che cavalcherò come parte di questo viaggio, come viatico del cuore, e come avventura tracciata oltre i riflessi di un finestrino. Lo affronterò tra spirali di polvere, ore interminabili, pagine di libri ed orari annotati su frammenti di carta. Frammenti saranno poi le immagini che porterò con me.

 

 

"...un uomo che cavalcava nella pampa del Castillo sorpassò quattro cavalieri, che si portavano appresso una fila di focosi cavalli. Erano tre gringos ed un peone cileno, armati di Winchester col calcio di legno. Uno di loro era una donna vestita da uomo..."

 

Laddove briganti in fuga incrociarono la strada, ancora adesso questo è un passaggio obbligato nell’immensità di un paesaggio che non lascia scampo nella sua espressiva monotonia, ed un rifugio comparso nel nulla rimane selvaggio e punta in ogni direzione. Da lì, allontanandosi da un fiume le cui acque turchesi scivolano dai ghiacciai andini verso una lunga via per l’oceano, una deviazione lungo una strada sterrata apre un cancello del tempo ed una finestra su tutto quanto di spettacolare si nasconde oltre la linea retta che fende la Pampa.

 

 

Qui è come scendere in un passato che sfugge alla nostra comprensione, quando questo paesaggio era tutt’altro e le forze della natura scavavano montagne e sommergevano foreste. Come cenere solidificata pronta a svanire al minimo tocco, queste pietre che sono tronchi, fossili, vita perduta trasformata in qualcos’altro, trasmettono un senso di estrema fragilità. Un po’ come la vita ancora nel presente, una lotta continua testimoniata dagli scheletri animali dispersi nel terreno, e le impronte impresse sul terreno argilloso. E sale forte e selvaggia quella sensazione di deserto, quel silenzio che si perde attraverso conformazioni rocciose che alternano pinnacoli a striature graffianti, e comignoli a perdita d’occhio: tutto rimane precario, come ogni passo su un terreno argilloso umido di pioggia, la terra che di sedimenta sotto le suole, ed un cielo minaccioso che mi sfiora soltanto, prima di proseguire verso sud.

 

 

In cammino. Contro il vento che mi sibila accanto, verso profili di montagna sempre più vertiginosi. Ho immerso le mani nell’acqua pura che scendeva da ghiacciaio e ne ho bevuto a piccoli sorsi. Perché l’acqua più di ogni altra cosa in queste situazioni mi fa sentire la forza della vita e la calma del mio cuore. Tra tutte, oggi sarà il percorso più lungo. Verso altre torri, verso un ghiacciaio che scende nell’acqua, plumbea ed immobile, nella sua conca nascosta da nude rocce, verso infine una volpe, che veloce tra quelle stesse rocce appare, scompare, e già fugge via. Sono arrivato, su questo costone che il vento spazza senza pietà, che mi fa mantenere una posizione obliqua lungo un cammino esposto, sempre più in alto, seguendo le rocce. E quasi invisibile, lontano, sopra di me scorgo l’ombra di un condor andino, un battito d’ali enorme ed irraggiungibile, che allarga il mio respiro all’eternità.

 

“…Amaro camminare, perché pesa
il cammino sul cuore. Il vento freddo,

e la notte che giunge, e l'amarezza
della distanza... Sul cammino bianco,
alberi che nereggiano stecchiti;

sopra i monti lontani sangue ed oro...”

(Antonio Machado)

 

 

Ho ripreso la strada nella notte. Ed il bus procede insicuro su un terreno ruvido e smottato. Nella notte scorgo la polvere sollevata dal terreno, il susseguirsi dei paletti che demarca la Ruta, uno ogni venti metri, ed il profilo sinistro di un qualche edificio che in rovina sorge dal nulla. Ombre, spettri, rumori, pure il pianto di un bambino, in fondo al bus. E’ una notte senza luci attraverso un mondo surreale.

Surreale è l’alba, gelida, che mi vede giù sul ciglio di un marciapiede di una città deserta. Silenzio ancestrale, e le ossa che tremano. Ed io cerco riparo dietro un garage. Un paio d’ore interminabili: guardavo fuori ed osservavo il silenzio, attraverso quell’unica strada da nord a sud, contando i raggi di luce ed i chilometri attraverso la Patagonia.

 

 

Terra di uomini, terra di colori. Ad un certo punto ho pensato che non avrei visto un qualcos’altro di pari bellezza. Mi sbagliavo: abbiamo camminato in mezzo ad un deserto fatto di steppa, ed improvvisamente tra ali di cavallette in movimento si intravedevano colori vivaci. Rosso, giallo, terra bruciata. Qui, molto lontano, giunsero mani a graffiare la roccia, raccogliere un po’ di quei colori, e ripartire, verso sud. Verso una vallata nascosta, una ferita che spacca la roccia, e corre giù, in profondità, laddove l’acqua porta la vita e gli accecanti colori di una pietra arida si tramutano in verde sgargiante. Mi è tornato in mente un racconto di un possidente terriero trasformato in mostro dallo sventurato intervento di una natura feroce, un racconto letto durante uno di questi interminabili viaggi: è accaduto intravedendo i ruderi in legno di una estancia abbandonata vicino al greto del fiume. Ho osservato rose del deserto, anche se non so assolutamente di quali piante si trattasse: a me bastava che fossero lì e con la loro bellezza rimanessero in vita. E, sempre camminando, sono risalito lungo il costone del canyon, seguendo come uomini prima di me la traccia millenaria dei guanachi. Là, infine, in anfratti protetti dal vento, si imprimevano sulla roccia orme di mani, una sull’altra, intrise di quei stessi colori raccolti miglia più a nord. Pitture geometriche, scene di caccia gli uomini, i guanachi, un ciclo continuo, e, ancora, infinite mani, una sull’altra. Come a dire, “io esisto, io ho vissuto, ed appartengo a questa gente”, un alito di vento trasportato lungo la valle per migliaia di anni.

 

 

"...mentre l'autobus attraversava il deserto, guardavo assonnato i brandelli di nuvole d'argento che si spostavano in cielo, e il mare grigio-verde di sterpaglia spinosa sparsa sulle ondulazioni del terreno e la polvere bianca delle saline e, all'orizzonte, la terra ed il cielo che si fondevano, mescolando e annullando i loro colori..."

 

Ancora, una strada interminabile. Anche se, questa volta, lentamente, il paesaggio sta cambiando, ed io altrettanto lentamente, avverto il distacco. Non è ancora così, ma la Patagonia, per quello che risveglia e lascerà impresso questo nome, sta rimanendo indietro. Occhi riflessi da un finestrino sporco di polvere. Come in altri momenti passati su un bus, questi giorni, avverto un senso profondo ed inspiegabile di tristezza e malinconia, come se il paesaggio che mi scorre davanti amplificasse questi sentimenti, uniti ad un senso di solitudine, ed un’orma nel terreno che presto scomparirà.

 

 

“Lungo la nuda terra della strada
sboccia l’ora fiorita,
biancospino solingo,
d’umile valle nella svolta ombrosa.
oggi con voce tenue
al cuore, e sulle labbra
la parola interrotta e trepidante.
Dormono i vecchi mari miei; si smorza
il suono delle spume
sopra la spiaggia sterile.
Lontano va la bufera nella nube torva.
Torna la pace in cielo;
la brezza tutelare ancora aromi
sparge sui campi, e nella benedetta
solitudine appare la tua ombra.”

(Antonio Machado)

 



 
 
 

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Post n°675 pubblicato il 20 Febbraio 2017 da enodas

 

 

...fino a qui...

[...]

 

 
 
 

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Post n°674 pubblicato il 16 Febbraio 2017 da enodas

 

 

“I say “Lisbon”
When I arrive from the south and cross the river
And the city opens up as if born from its name
It opens and rises in its nocturnal vastness
In its long shimmering of blue and of river
In its rugged body of hills –
I see it better because I say it
Everything is more clearly where it is
Everything shows more clearly what it lacks
Because I say
Lisbon with its name of being and nonbeing
With its meanders of astonishment insomnia and shacks
And its secret theatre sparkle
Its masklike smile of intrigue and complicity
While the wide sea stretches westward
Lisbon swaying like a sailing ship
Lisbon cruelly built next to its own absence
I say the city’s name
I say it to see"

(Sophia de Mello Breyner)

 

 

Partirò dalla fine, da quello sferragliare del tram bianco e giallo che si arrampica su strade tortuose. Da lontano, la sera, ho teso l’orecchio ed ho ascoltato note di saudade, d’amore e di storia. Note di fado, quella musica antica che voci notturne infondono nelle luci soffuse tra i tavolini spartani e le viuzze acciottolate del Bairro Alto, ancora una volta trovano appoggio su uno strato profondo dell’anima. Ed in fondo alla strada, oltre un tram od un tavolino cui siede l’ombra di un grande poeta, si intravede il Tago, o quel che ne resta, quando ormai è già mare, attraversato da ponti infiniti che quasi si perdono nel cielo di una tempesta lontana, e spettacolari strutture moderne, e ciò che rimane di avamposti sul mare, le cui forme al tramonto sembrano costruite con crema montata, la stessa di un dolce dalla ricetta segreta nascosta in un convento alle porte della città. Ho riletto idealmente pagine di libri, versi lasciati su carta di caffè, e racconti di grandi esploratori.

 

 

Ao Viandante

Tu que passas e ergues para mim o teu braço
Antes que me faças mal, olha-me bem.

Eu sou o calor do teu lar nas noites frias de inverno
Eu sou a sombra amiga que tu encontras sob o sol de agosto.
E os meus frutos são a frescura apetitosa que te sacia a sede nos caminhos.

Eu sou a trave amiga da tua casa, a tábua da tua mesa, a cama
em que descansas, o lenho do teu barco.

Eu sou o cabo da tua enxada, a porta da tua morada
A madeira do teu berço e do teu próprio caixão.

Eu sou o pão da bondade e a flór da beleza.
Tu que passas, olha-me bem e não me faças mal.

 

 

Sembra quasi un luogo da fiaba, con i suoi castelli, i colori vivaci, le fortezze alzate tra le nuvole e gli eremi nascosti nella foresta. Come a Lisbona, anche a Sintra sento che qualcosa è cambiato, e queste strade già sono più battute rispetto al passato. Ma ancora basta, per ritrovare i colori, scalare passaggi semi-dimenticati, ed assaporare un cibo che fonde il sapore del mare con i colori della terra portoghese e pure quella tradizione regale del passato che immagino infusa nelle fantasiose variazioni di dolci. E soprattutto, basta per scendere indietro, nel tempo, ai Mori, alla reconquista cristiana ed allo sfarzo di un impero che diventava sempre più grande ed al mare guardava per raggiungere nuovi orizzonti.

 

 

“Eis aqui, quase cume da cabeca
de Europa toda, o Reino Lusitano,
onde a terra se acaba, e o mar comeca
esta è a ditosa Patria, minha amada…”

 

Sono giunto a Cabo da Roca, infine. F., anche se ogni istante, questi giorni, ti ho portato nel cuore, qui sicuramente sarà un po’ di più, ogni tappa di quel primo viaggio fatto insieme, anni fa, un po’ una scoperta ed un modo nuovo di viaggiare, tanti episodi che sono lì, carezza alla memoria. E poi, sono tornato qui, questo punto d’estremo occidente, dove non resta altro che un suono profondo, laggiù metri più in basso, ed una linea irraggiungibile in fondo, fin dove gli occhi possono arrivare. E’ un luogo dell’anima che da sempre custodisco gelosamente, un punto nascosto sulla mappa ed un pezzettino da regalare, a chi vorrà raccoglierlo, e così spero sia stato.

 

 

Questi giorni li ho vissuti con l’emozione del viaggio ed il tocco profondo dei ricordi. Sono passati anni, e molte esperienze, molti racconti, dall’ultima (e prima) volta che sono stato a Lisbona. Oggi, ancor di più sento mia quella frase, letta una volta, che i luoghi rappresentino una promessa e silenziosi rimangano ad aspettarti. Qui, sono tornato, ed ora, mentre riparto, ardentemente spero ritornerò.

 

 

“Sad, in my quiet room, alone as I have always been and I will always be, I sit writing. And I wonder if that seemingly feeble thing, my voice, does not perhaps embody the substance of thousand of voices, the hunger to speak out of lives, the patience of millions of souls who, like me, have submitted in their daily lives to vain dreams and evanescent hopes…”

(Fernando Pessoa)

 

 
 
 

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Post n°673 pubblicato il 09 Febbraio 2017 da enodas

 

 

24-25 Novembre


Noi siamo nell'affanno
Ma il passo del tempo
Consideralo un'inezia
in ciò che sempre resta.

Tutto ciò che incalza
sarà presto trascorso;
Soltanto ciò che indugia
è ciò che ci consacra.

Fanciulli non buttate
il cuore nella rapidità,
ad arrischiare il volo.

Tutto si è acquietato:
oscuro e chiarità,
fiore e libro.

(Rainer Maria Rilke)

 

 

Ho lasciato presto la città, e mi sono diretto ai suoi bordi, ai lati di un lago che scompare, e dall'orizzonte mi separa una lunga striscia di sabbia e vento. Nel vento, nell'acqua, sul filo di quell'orizzonte, si accendono e si spengono movimenti leggeri.  Leggeri come l'aria, un grido, una discesa in picchiata, o un decollo sgraziato, sono colori in movimento, cacciatori, prede, gruppi interi ad intraprendere percorsi invisibili: io li seguo, lontano, sulla linea dell'orizzonte.

 

 

Per quanto possa essere preparati, per quanto possa averne letto, osservato immagini, viaggiato con la mente, approcciato spuntoni di ghiaccio e pezzettoni luccicanti fluttuanti nell’acqua, niente di tutto questo basterà a descriverlo. Io non lo dimenticherò. Non dimenticherò il rumore, che esplode nel silenzio. Un silenzio colmo di emozione e tensione, l’acqua che improvvisamente si anima, ondeggia, si infrange. Laddove ogni cristallo immobile è potenza, pronta a ruggire. Il ghiaccio, la montagna, vivono, si muovono, parlano. Questo tonfo precipita fino in profondità. E risuona dentro di me. Allungo la mano, questa straordinaria esibizione di forza, immensità d’azzurro, di azzurri, che si compongono dentro un mondo di ghiaccio, una favola fantastica che si ricompone sorgendo dal suo ammasso di frammenti incastonati, credo quasi di poterli toccare, sfiorare, tanto sono vertiginosamente vicini, prima che un nuovo boato mi riporti alla realtà.

 

 

Scricchiola, un po'. E' il ghiaccio sotto i ramponi, per me un'esperienza nuova. Ho la sensazione di muovere passi sopra secoli interi, qualcosa che è troppo vasto perché riesca a racchiuderlo nelle dimensioni del mio mondo. Nel tempo e nello spazio. Lentamente, ho immaginato di addentrarmi in questo paesaggio fantastico, dove a brillare è ogni singolo cristallo, e di fronte a me si stagliano figure scolpite, mura inaccessibili e speroni spaccati. E come sempre, immergo le mani nell'acqua gelida, piccoli laghi, pozzi profondi che si perdono tra le pieghe del ghiaccio, o torrenti che nascono e scompaiono chissà dove, e, purissima, la porto alla bocca. Sento la vita pulsare al contatto, scorrere con quella stessa purezza. Ed ogni passo è una conquista in questa piccola avventura.

 

 

Solo una cosa manca. È l’oblio.
Con il metallo, Dio salva la scoria
e nella sua profetica memoria
stanno le lune antiche e le future.

Tutto è lì. Le migliaia di riflessi
lasciati dal tuo volto tra i crepuscoli
dell’alba e della sera negli specchi
e quelli che continuerà a lasciare.

E tutto è parte del diverso cristallo
che è quella memoria, l’universo;
sono infiniti gli ardui corridoi

e le porte si chiudono al tuo passo;
solo dall’altro lato del tramonto
potrai vedere Archetipi e Splendori.

(Everness – Jorge Luis Borges)

 

 

 
 
 

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Post n°672 pubblicato il 05 Febbraio 2017 da enodas

 

 

 

“Perché solo quando la vita è vissuta con pienezza e coraggio conta qualche cosa, e perché il suo significato scaturisce dalle imprese che gli uomini riescono a compiere.”

 

 

21-23 Novembre

 

Ho contato i passi, un ad uno, fino all’ultimo. Mi sono chiesto cosa significassero. Oggi, la strada sarà un po’ più lunga. E, in un certo senso, sarà qualcosa di diverso. Ho camminato da solo, ma accompagnato, perché popolare era il sentiero ed affascinante era la meta. Già, la meta: per ore ho immaginato con gli occhi cosa mi stesse muovendo, anche se lo so, non sarà la vista spettacolare ad appagarmi più di averla raggiunta. Ed allora, muovo un altro passo, viandante, in un mondo bellissimo, attraverso increspature e scorci spettacolari. Lo faccio asciugando la fronte, trattenendo il respiro. Il sole, le nubi, una pioggerellina sottile. Ho attraversato piccoli ponti, mi sono protetto sotto l’abbraccio confortevole della foresta. L’acqua, scorre, ora di nuovo più in basso: eppure ero lì, ci sono passato fino a sfiorarla, ora è solo un’eco che rimbalza salendomi fino alle tempie. Un ultimo sforzo, massi da scavalcare, salita che sembra senza una fine. Ma sì, questo sarà oggi. Passi, domande, pensieri e ricordi, campanelli che suonano come stuzzicati dal vento. Alla fine, questi passi significano questo, perché in fondo non c’è viaggio che non sia camminare, e a me camminare piace, sempre. Fino ad un tratto esposto sul fianco, una svolta, ed infine ho raggiunto il mio scopo, ho trovato il mio luogo. Laddove un paesaggio lunare si spalanca su un cratere, e colossali svettano le torri. Così vicine, così lontane, separate da uno specchio d’acqua smeraldo, pareti ripide come grattacieli, nuvole che non accennano a liberare i giganti. Seduto, respiro, ascolto, respiro. Ed in qualche modo, sto continuando a camminare. Sono arrivato.

 

 

Non so descrivere la bellezza di questi luoghi. Davvero, non ne sono capace. Sono tornato a Torres del Paine. Fermata dopo fermata, appena sceso dalla macchina, due erano le forze incontenibili che mi investivano: le folate di vento che sibilavano avvolgendomi, e la straripante bellezza del paesaggio che si apriva dinanzi a me. Ho amato l’intensità dei colori, la forza dell’acqua, le striature del cielo. Ho cercato di colmare con lo sguardo la distanza tra i miei occhi ed i picchi delle montagne, immaginato il rumore dei ghiacciai appoggiandomi a rami resi cinerei dal vento. Eppure, ancora non basta. Su queste immagini da cartolina, per un attimo soltanto ho impresso la mia ombra, solitario di fronte a qualcosa di immenso che esaltava la natura e si ampliava rimbombando dentro di me. Selvaggia, rude, o declinata in una dolcezza infinita, questa era la linea dell’orizzonte che si frapponeva tra me e l’infinito. Questo era un altro frammento della frontiera scomparsa.

 

 

“Tutto quello che quel volto esprimeva, sentimenti vigili per affrontare una tempesta, quella smorfia, quella volontà, quella collera, tutto quello che si scambiava d'essenziale un volto pallido e, laggiù, quei rapidi splendori, restava impenetrabile per lui.”

 

 

“…per molto tempo tu non avevi avuto per distrazione che la dolcezza dei tramonti…”

 

Mi sono seduto ad aspettare. Del resto, le lunghe giornate estive a queste latitudini si dilatano nel tempo senza che ne abbia controllo. Ogni sera, dopo tutto, mi ritrovo inevitabilmente qui, ad attendere. Come se dovesse levarsi un sipario. Meravigliosi cieli patagonici. Se questa variazione è una costante del mio viaggio, credo che difficilmente saprò trovare una musica più bella di questa. E come ogni nota, anche ogni foto è diversa e, pure se scattata per caso, di per se’ diventa un piccolo tesoro. Ho osservato il cielo assumere colori che non avevo mai visto. Un istante soltanto, e poi era un’altra melodia. Nuovamente. Ho negli occhi impresso il colore del sangue, un cielo rosso infuocato, e l’acqua dello stretto sulle sponde di Puerto Natales tingersi dello stesso colore, una potenza straordinaria che si sprigionava come un bagliore istantaneo. Per questo, ogni sera sono tornato, camminando, immerso in questo mondo straordinario che mi sollevava in una leggerezza infinita, come infinito ho desiderato rimanesse nei miei occhi.

 

 

"...Non c'è niente di paragonabile a un volo al tramonto sullo Stretto di Magellano. Il sole che si ritira verso il Pacifico incendia la pianura e riflette le sue fiamme sui ghiacciai. Tutto diventa una gigantesca brace e allora, come gli antichi navigatori che attraversavano lo stretto su fragili imbarcazioni di pelli di foca, uno sussurra con rispetto: 'Sì, è vero. Questa è la Terra del Fuoco'."

 


"Qualcosa passò davanti al sole, oscurandolo e si udì il suono del vento sferzato dalle penne remiganti. Due condor si erano tuffati su di me. Vidi il rosso dei loro occhi mentre si allontanavano fulminei, virando per la gola montana e mostrando il grigio dei loro dorsi. Planarono, percorrendo un arco, all’inizio della valle e si alzarono di nuovo, ruotando nella corrente ascensionale generata dal vento che soffiava contro i dirupi, finche' furono due macchioline nel cielo lattiginoso..."

 

Mi sono rimesso in navigazione. Credo che anche questa sarà una piccola avventura. Le increspature dell’acqua sono immagini impercettibili che appaiono e scompaiono. Destinazione, ghiacciai inaccessibili se non per via marina. E in lontananza osservo le torri, quei giganti per i quali soltanto ventiquattr’ore prima ho camminato tanto. Poi, lo sguardo si lascia trascinare in alto, cerando figure implacabili sullo sfondo del cielo. Attraversando rocche dai nomi sinistri e salti vertiginosi. Come vertiginoso è il volo, da qualunque angolazione lo si guardi, anche quando lo si fa da terra con un po’ d’invidia.
E mentre la barca si inoltra nel fiordo, sento che sono sempre un po’ più solo, più lontano da ogni segno di civiltà, e sempre più vicino ad una cascata di bianco e d’azzurro che come fermata nel tempo rimane incastonata sul fianco di una montagna. Acque gelate, di un verde impenetrabile e lattiginoso. Ora sì, posso scendere, inoltrarmi in una foresta seguendo le orme di un suono ancestrale, ruggiti lontani ed improvvise nuvole bianche che si frammentano, più in alto. Mentre su una superficie piatta e silenziosa fluttuano blocchi di ghiaccio, variazioni di uno spazio metafisico che mi lasciano sospeso nel presente e rendono ogni cosa straordinariamente leggera.

 

 

Sono tornato, un’ultima volta. Come se avessi voluto salutare un paesaggio che mi ha accompagnato in questi ultimi quattro giorni. Sono partito alla volta dell’Argentina, in questo viaggio, ma la deviazione nelle estreme terre cilene mi ha fatto scoprire forse l’aspetto più incontaminato di queste latitudini. E, parallelamente, ha molto sollevato il mio spirito. Credo fosse questo luogo, più di tutti, che mi attendeva nella mia immaginazione, al sentir nominare ‘Patagonia’. Una scoperta. Se mai dovessi descrivere cosa fosse quella frontiera scomparsa, questa immagine nascosta tra le pagine di un libro, credo che sceglierei questo luogo, magari una di queste panchine, o forse un angolo lungo il muretto, o chissà, il molo laggiù un po’ in lontananza. Ad ogni modo, qualcosa da cui questa sera trovo difficile separarmi.

 

" 'E questo cielo? E tutte queste stelle? Sono un’altra bugia della Patagonia, Baldo?' 'Che importa? In questa terra mentiamo per essere felici. Ma nessuno di noi confonde la bugia con l’inganno.' "

 

 

 
 
 

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Post n°671 pubblicato il 02 Febbraio 2017 da enodas

 

...non so raccontare quanto mi senta solo in questi giorni...

 
 
 
 
 

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