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la musica, suonare il pianoforte, suonare il mio violino, la luce del tramonto, ascoltare il mare in una spiaggia deserta, guardare il cielo stellato, l’arte, i frattali, viaggiare, conoscere e scoprire cose nuove, perdermi nei musei, andare al cinema, camminare, correre, nuotare, le immagini riflesse sull’acqua, fare fotografie, il profumo della pioggia, l’inverno, le persone semplici, il pane fresco ancora caldo, i fuochi d’artificio, la pizza il gelato e la cioccolata


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l’ipocrisia, l’opportunismo, chi indossa una maschera solo per piacere a qualcuno, l’arroganza, chi pretende di dirmi cosa devo fare, chi giudica, chi ha sempre un problema più grosso del mio, sentirmi tradito, le offese gratuite, i luoghi affollati, essere al centro dell’attenzione, chi non ascolta, chi parla tanto ma poi…, l’invidia, il passato di verdura





 
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Messaggi di Gennaio 2016

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Post n°597 pubblicato il 28 Gennaio 2016 da enodas

 

 

E' giunta come un'eco lontana, seguita sui giornali. In realtà, me l'hanno fatto notare degli amici attraverso qualche domanda, nei giorni scorsi. A me che ultimamente leggo altre notizie. Così oggi si doveva iniziare a discutere in Parlamento di una legge attesa da tempo. Una di quelle che magari ricucirebbero lo strappo tra realt' vissuta e reltà costretta da forme ideologiche. Ma soprattutto, sarebbe una legge di civiltà. Una legge che, peraltro, oltre a prendere finlmente consapevolezza di una realtà di fatto, colmerebbe anche un divario con altri Paesi il cui mondo affermiamo di appartenenre. Ammetto di non conoscere tutti i dettagli, e sono pure sicuro che su certi punti sarei perlomeno perplesso. Ma il punto, a mio parere, é quello di affermare finalmente la testimonianza di un sentimento civile e costituzionale consapevole di sé, che sia in grado di rispettare confessioni religiose ma anche la fede laica. Questo é un Paese laico, e guardando fuori dalla nostra piccola finestra si dovrebbe chissà quanto ringraziare personalmente che sia così. Indipendentemente dal Credo. Per questo, a mio parere, leggi come quella che, io spero, arrivi in seria discussione, sia qualcosa fin troppo in ritardo, ed un segno di civiltà. Lo dico vivendo in un Paese che su questi temi é da sempre fin oltre il confine. E non penso che "i veri problemi del Paese siano altri". Certo, sarà così, ma questo non é da meno, per il suo significato, perché libertà e dignità sono valori civili e non distintivi a seconda dell'orientamento sessuale o delle scelte di vita condivise all'interno di una relazione.

 


 
 
 

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Post n°596 pubblicato il 24 Gennaio 2016 da enodas

 

 

 

Si spegneranno le luci, dunque. Ed inizierà il viaggio. Sulle onde di un mare azzurro, quello del Mediterraneo, in direzione della Serenissima. Doménikos Theotokópoulos partì da Candia, dove si era affermato come pittore di icone, a fianco di grandi pittori bizantini del suo tempo, quali Kloutzas e Damaskinos. Abbracciata una rivoluzione morale (si convertì al mondo cattolico e divenne un fervente credente) ed artistica, vendette in tutta fretta il suo ultimo dipinto ed aiutato dal fratello raccolse i soldi utili per poter dare inizio al suo viaggio.
Tiziano, Jacopo da Bassano, Veronese, Tintoretto: Doménikos accese letteralmente il fuoco della sua arte a contatto con il calore e la passione vibrante dei grandi maestri veneti. E come un ponte, attraversava i suoi colpi di pennello dalla tradizione bizantina verso il seme di uno stile nuovo ch lo avrebbe reso artista eterno ed immediatamente riconoscibile. Nell'Italia di Venezia, gli Emilani ed infine Roma, tutte attraversate con uno spirito forte e non facile, al limite della sfida e del disprezzo per il mondo sociale e talvolta artistico col quale veniva a confrontarsi. Fiero sostenitore del primato artistico di Venezia, lentamente, studiando, copiando , ispirandosi, iniziò a delineare suoi personaggi allungati, immersi in un mondo mistico ed onirico, e trarre colori luminosi ed intensi.
Al termine di quel ponte, lungo dieci anni, c'era la Spagna, dove il soprannome "El Greco" lo consegnò alla storia.

 

 

"E' capitato a Roma un giovane candiotto discepolo di Tiziano, che a mio giudizio parmi raro nella pittura. Tra l'altre cose, egli ha fatto un ritratto di se stesso che fa stupire tutti questi pittori di Roma. Io vorrei tenerlo sotto l'ombra di Sua Signoria Illustrissima et Reverendissima, senza spesa del vivere ma solo di una stanza nel Palazzo Farnese..."

 

Si spegneranno le luci. Perché i colori ardano più brillanti che mai. E sulle pareti, una vecchia mappa dai contorni incerti e le scritte in calligrafia antica la strada. Ed idealmente, sarà un percorso colmo di ombre e suoni nascosti. Come deve essere per un tempo lontano ed un po' di mistero. E fianco a fianco si accenderanno tele simili, eppure differenti, differenti le mani che le solcarono, differenti gli occhi che le concepirono.

Un percorso a ritroso, con un titolo ed uno spazio temporale ben precisi. E su questo, nulla da eccepire. Anzi, "metamorfosi di un genio" é la nota esatta a descrivere il periodo in esame. Anche se a volte si ha l'impressione che un titolo amplifichi un nome di grande impatto, ma poi onestamente non valga le promesse del biglietto. Come dire, arrivare all'uscita e domandarsi  nella mia ignorane semplicità se lo spettacolo sia già finito. Troppo breve, prima di fare un salto temporale, dal decennio "italiano" del Greco alla riscoperta del Novecento. Onestamente, sapevo che le opere dell'artista di questo periodo non sarebbero state molte, però mi sarei aspettato più contorno di coloro che ebbero impatto sulla sua metamorfosi artistica, oltre ad una certa attenzione al "prima" (comunque presente) ed al "dopo".

 

 

"Per la prima volta al mondo un’esposizione dedicata agli anni cruciali della trasformazione del Greco, maestro indiscusso del ‘500, attraverso le tappe che hanno scandito il suo complesso iter artistico e spirituale tra Creta, l’Italia e la Spagna. [...] ricostruisce con molteplici spunti inediti le tappe di un’avventura irripetibile, indagando il processo creativo, il metodo di lavoro e la bottega di un artista controverso e non compreso nel suo periodo storico, ma definito dalla critica moderna un “visionario illuminato”. Un viaggio nel tempo e nello spazio attraverso la progressiva trasformazione dell’artista e il percorso che lo porterà alla creazione di un linguaggio che non ha paragoni possibili e alla realizzazione di capolavori assoluti.
[...]
El Greco nacque nel 1541 a Creta, territorio all’epoca sotto il dominio veneto. Lì divenne maestro d’arte seguendo il corso della tradizione artistica dell’isola, prima di intraprendere, all’età di 26 anni, il viaggio verso Venezia, città in cui seppe trasformarsi da iconografo ortodosso in un artista innovativo e rivoluzionario. Protagonista indiscusso della cultura figurativa occidentale, venne riscoperto nell’800 per diventare poi fonte d’ispirazione per le avanguardie del ‘900 come l’impressionismo e il cubismo.
[...]
La mostra vuole portare il visitatore alla scoperta di questo pittore visionario, dal carattere irriverente, capace di sconvolgere l’estetica a lui contemporanea con toni drammatici e un linguaggio fantasioso ed espressionista. El Greco possedeva un senso della rappresentazione che va oltre gli stili e le epoche, un modo di intendere l’immagine e il cromatismo che senza dubbio può definirsi universale. El Greco non seguiva nessuna delle regole accettate dalla gran parte dei pittori e dei mecenati del Cinque-Seicento. Offre quindi un esempio di come le cose si possono approcciare in modo diverso, originale e stimolante. È questo misto di Creta, Venezia e Castiglia che emerge nei suoi quadri in una fusione totale.  [...]"

(dalla presentazione della mostra)

 

[...]

 

 

 
 
 

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Post n°595 pubblicato il 21 Gennaio 2016 da enodas

 

 

Chapter 3 - Deep India (3)

11,12 Novembre

 

 

Un giorno a Diwali. Oggi é Diwali. Sono su un treno che viaggia con ore di ritardo. Una mamma mi invita a mangiare dolci che ha preparato per il suo bambino e chissà chi altro andrà a trovare questa sera. Già in anticipo, preparando e leggendo, molto di quanto immaginassi ruotava a questa data e questa destinazione. "E cosa farai a Diwali?" Me lo chiedevano i miei amici indiani, prima che partissi, me lo ha chiesto chi ho incontrato finora qui in India. Che da giorni, in treno ho incontrato persone che tornavano a casa. Ed un sorriso tra il "bello" ed il "vedremo" compariva ogni volta alla mia risposta. Destinazione Varanasi: al cuore dell'India, al cuore di questo viaggio.
Varanasi é una delle più antiche città al mondo, abitate senza interruzioni. Ma soprattutto, Varanasi é il fulcro, il luogo più sacro e più importante dell'universo induista, terreno ed ultraterreno. Gran parte delle immagini che si associano all'India, le immagini lungo il Gange e dei pellegrini che vi si immergono, provengono da questo luogo.
Ed io sento che sto per penetrare uno dei posti più toccanti che possa immaginare.

 

 

Come d'improvviso, quasi sbucassero su un mare, dai vicoletti ci si affaccia sul Gange. Il fiume sacro, il cui nome da solo va pronunciato riferendosi ad un'entità ultraterrena. E da lì, i gradini scendono verso l'acqua, un impasto torbido e grigio che scorre lento e silenzioso. E come una scogliera, alle spalle si sviluppa la città, gigantesca in verità, fino ad arrivare a questo confine che é fisico ed invisibile allo stesso tempo, arrestarsi, su una linea che sembra quasi demarcazione con un altro mondo. Ed é così, in realtà, perché non é solo suggestione il sendo fortissimo di spiritualità che permea l'aria. Ed ogni suono é come attutito, e nelle ore di questo pomeriggio che sono arrivato, non c'é nemmeno tanta gente e le voci che risuonano sono più quelle dei barcaioli che vogliono farti risalire lungo l'infinita successione di banchine. Una successione che cambia carattere, di tratto in tratto, come se ai finachi della città fossero incastonati blocchetti di lego di natura diversa: ogni ghat ha la usa storia, il suo costruttore e le sue funzioni. Lungo di essi si svolge, come in un circolo destinato a chiudersi, le ore della vita.
Così, mentre tramonta, salgo su una di queste imbarcazioni per attraversarle, queste scene che si snodano davanti a me per la prima volta, fino alle pire ardenti, più a nord, ed ai cerimoniali della sera, poco più in qua. Ed i colpi di tamburo, i suoni delle trombe, i canti dei sacerdoti cui si uniscono l'ondeggiare cantilenante della folla giungono fino all'acqua.
Mentre il cielo inizia a risuonare di fuochi pirotecnici. La barca riapproda. Le strade risuonano di botti, ad illuminare la volta stellata ed i disegni tracciati a mano e sabbia davanti alle porte, all'ingresso delle case. Con le mamme che incitano i bambini ad esplodere i fuochi. Luci, dolci, lampi di tuono. Diwali. Ed io sono qui, al tavolo di una pizzaria di cui parla chiunque abbia incontrato in compagnia della viaggiatrice inglese ritrovata tra la folla, sulla cima di una terrazza poi, ad osservare, quasi a ripararmi, da questo fuoco profano che colma la notte.

 

 

Suona la sveglia, come una lama nel cuore della notte. Le quattro di mattina. Ed é una manciata di ore, letteralmente, che tra i botti mi sono addormentato. Attraverso la casa, nel silenzio assoluto dove i miei passi sembrano rimbombi. E poi, sono in strada, uno zigzag di vicoletti che infine tacciono, la luce di una notte dove solo una leggera sensazione di fresco sfiora la pelle. Allora, giù, verso Assi Ghat, quello più a sud. Ancora silenzio, eppure qualcosa vicino al fiume lentamente inizia a muoversi. Chi si sveglia, chi sta giungendo. Ancora buio e l'alba é lontana. Risalgo, banchina dopo banchina, verso nord, al punto d'incontro con una coppia di italiani ed il nostro traaghettatore che il giorno prima ci ha convinto con gli occhioni dolci del suo bambino. Un sussurro, soltanto: é lacqua che si increspa quando balziamo per salire; e come un'onda che scompare, scompare anche quel sussurro leggero. Un colpo di remi, un altro: é come avventurarsi in un oceano senza confini, navigando nella condensa, scomparendo nel nulla e nel tutto. Ombre ci guidano, e canti flebili e fuochi leggeri depositati su un palmo di fiori. Inizia la preghiera mattutina, iniziano i bagni rituali.

 

 

Ed a poco a poco i volti si fanno più chiari, gli sguardi si incrociano, a volte, per qualche istante, e quasi lasciano trasparire un sorriso. Un altro colpo di remi, la barca che scivola sempre silenziosa. E fotogramma dopo fotogramma passano davanti agli occhi le banchine, gli uomini in barca, la gente che arriva alle rive del Gange, il sole che alle nostre spalle inizia a scaldare la luce del cielo. Un'altra realtà, quasi impalpabile, tanto forte é la spiritualità del luogo, infusa nei gesti quasi meccanici della gente, permeata nella condensa a livello dell'acqua. Acqua torbida e silenziosa che racchiude vite e storie, le lava, le fagocita, le cancella per sempre. Ed in alcuni punti si accendono le prime pire, segno di un rituale che nel dolore rimane interminabile che si ripete quotidianamente. C'é chi scarica la legna, di prima mattina, come trasportasse un carico qualsiasi. Ed accanto un corpo disteso viene immerso per l'ulima volta. E' una pace di morte, questo silenzio, che contrasta così tanto col sole in arrivo.
Altri colpi di remi, verso est, dall'altra sponda, dove altri accampamenti di pellegrini si stanno risvegliando. E l'atmosfera cambia, il luogo é pieno di vita ed il rito quasi si fonde con il gioco, quasi questo lembo di sabbia fosse una spiaggia e l'acqua la riva di un mare. Gioia e semplicità. Un paio di cavalli lacnciati al galoppo, sullo sfondo. Un altro colpo di remi, ed acqua torbida, laddove perfino lo sguardo non riesce a penetrare, tanto repelle. Segreti, nascosti sotto la superficie, il corpo di un cobra, quello di una rana, galleggiano, e chissà che altro, anche un ramo da lontano sembra la propaggine di uno spettro.

 

 

A piedi, lungo quella stessa riva. Sui gradini si alternano persone che scendono verso l'acqua, bambini che giocano e linee di sari stese dall'alto fino al pelo dell'acqua. Colori, ancora. Un caleidoscopio. Come quello di esistenze che brulicano, avanti e indietro. Santoni, gente normale, miserabili, ognuno sullo stesso circuito. Aquiloni nel cielo e bambini che trasportano barche. Cani che abbaiano e vacche che pascolano tra rifiuti e spazzatura. Tutto il sublime e lo squallore si scontrano sullo stesso piano senza soluzione di continuità. E così, risalendo per le strade, avvolto nel clamore e nel traffico mano che sebra trasbordare, ancora. Dove gli dei scendono per strada, sfilano tra ali di rumori, musica, danza, ed un continuo di colori. Dove tutto sembra fondersi in un uno, come il fiume sacro nel quale va a sfociare. E' troppo, ancora una volta, capire, interpretare, comprendere. Posso solo seguire il flusso, immergermi in tutto questo e viverlo per un istante.

 

 

Come richiamato da un polo magnetico, dalla folle delle strade, sono tornato al fiume. E sono sbucato qui, a M Ghat, dove di scena va l'ultimo atto della vita. Ero passato anche prima, di sfuggita in cammino, da lontano, sulla barca. Ora no, come bloccato da una forza irresistibile, resto immobile e lo sguardo fisso. A Varanasi si viene a morire, e giungere qui é considerato un privilegio dell'anima, nella speranza che questa venga liberata da un ciclo perpetuo. Ho le pire di fronte agli occhi, e tra il fuoco divoratore, a tratti si vede oltre la fiamma. Tutto quello che resta di un'esistenza. Mentre lentamente si traduce in cenere. Odore intenso, e fumo sinistro. Da un lato la legna é accatastata secondo la specie e la dignità che i soldi permettono ad un funerale, ed occhi esperti devono valutare con precisione quanta ne serva. Ci vogliono ore a bruciare un corpo. E' un processo lento e straziante, in cui il dolore sembra abbracciare un senso più alto ed una filosofia troppo lontana da me. Perché tutto quanto é nel sentimento umano sembra rimanere confinato ed accetto nei gesti e negli occhi. Di fronte a sguardi spenti per sempre. C'é chi arriva diettamente con un letto, chi sbuca dai vicoli con una barella avvolta di fiori e tessuti scintillanti. E poi, inizia il rituale. L'ultimo bagno, il lenzuolo bianco appoggiato sulla legna, il fuscello di arbusti che ardente lentamente si avvicina alla catasta. La vita si confonde sfacciatamente con la morte. Bambini arrivano con gli acquiloni, giocano ad una manciata di metri. E più in là, nel lezzo dell'acqua stagnante, coperta di stoffa gettate, pezzi di legna bruciati e chissà che altro un vecchio si immerge e beve l'acqua sacra. Non c'é confine, non c'é sipario, o un velo pietoso che separi questi mondi. E delle vacche dismunte arrivano, scendono i gradini, e nel fango e nell'acqua bevono, pisciano, cagano. E' un tutto magnetico e terribile, un affresco che mi si imprime dentro. Come si imprime la figure di un uomo chesui gradini arriva con un fagottino. Lo deposita in terra, qui, proprio davanti a me, saranno due metri non di più, davanti ad una panca che un venditore di thé ha sistemato per i suoi ospiti. Ma se questo é tremendo, é ciò che succede dopo ad essere insopportabile. Il padre si allontana, torna con un pezzo di pietra, si allontana ancora, un metro di spago, si allontana un'altra volta a contrattare con un imbarcadero. Due soldi, due soldi soltanto, perché tornino insieme e sollevano quest'anima andata. 21 grammi, la impacchettano sulla pietra, e la spostano vicino alla barca, su quel misto di fango e cenere dove poco prima é appena passata una vacca. Un poveraccio si siede, a poca distanza, con il suo frutto maturo che intaglia per condividerlo con un cane randagio. Quasi come in un moto di protesta, sotto il velo bianco sporcato di fango, il volto del piccolo reclina. La barca prende il largo, la stessa sulla quale quell'uomo insistentemente voleva farmi salire poco prima. Ed il poveraccio sghignazza davanti al suo frutto maturo spaccato in due. Ed un ragazzo vuole che lo segua perché salga su una pedana per vedere meglio. Cercando ogni stratagemma per ricavare qualcosa richiama al rispetto dei morti. Provo una rabbia feroce e silenziosa, un'impotenza straziante ed un groppo allo stomaco. Perché tutto va in scena senza pudore, senza barriere. E' come un calderone gigante, in cui ogni cosa si fonde. E quello che é naturale, anche nel suo aspetto più truce, si svela per quello che é, in tutta la sua miseria, in tutta la miseria nella quale ci troviamo come esseri umani. Questo senso di impotenza mi annichilisce. Mi annichilisce la testa reclinata, sotto un lenzuolo, le propaggini di un corpo che si intravedono dentro le fiamme, i resti gettati nella lordura del fiume. Sono immagini che non dimenticherò. Mai.
Il mio cuore si é fermato a Varanasi.

 

 
 
 

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Post n°594 pubblicato il 18 Gennaio 2016 da enodas

 

 

Chapter 3 - Deep India (2)

9,10 Novembre

 

 

Ecco, é troppo. Arrivare qui, il taxi bloccato in un incrocio che é pura folla. Non c'é spazio, non c'é passaggio, e non riesco a trovare il posto dove stare. 9 Novembre, tre giorni a Diwali. Una marea di gente che cammina lungo la strada verso il centro di questa cittadina. Istintivamente, penso di rinunciare, proseguire oltre, in qualche modo. E' l'impatto di tutta questa gente a scoraggiarmi. Come sono arrivato qui é una parte del viaggio. Nessun altro viaggiatore che abbia incontrato aveva sentito questo nome. E nessuno é compagno di viaggio. Con la macchina, sono stato condotto su strade sempre più precarie e sempre meno battute da stranieri. Ho viaggiato un paio di centinaia di chilometri nell'arco di ore. Il guidatore é un buon uomo, immagino. Ancor più quando vedo la sua abitazione e la sua famiglia. Il suo mondo. Non parla inglse, e come quasi tutti gli uomini, mastica le foglie di un pianta oppiacea continuamente, salvo poi sputare rosso ogni dieci minuti. Prima di partire conduce la macchina davanti alla sua casa, una stanza inserita in una piccola corte che é fattoria allo stesso momento, e carica la moglie col figlio minore. Seduta sul sedile posteriore col figlio in braccio, giovane e pure molto bella, dietro un velo rosso e colori sgargianti, per ore non dirà niente  evolgerà lo sguardo al massimo verso il finestrino. Nemmeno so quanti figli abbia, perché ognuno tiene in braccio il fratellino e tra sorrisi e gesti di bambini e donne che si indaffarano tra controllare i capelli dei bambini ed accudire gli animali non so cosa capisco e cosa invece immagino. Fango, animali, una stanza col fuoco al centro e quattro mura. E quest'uomo, che mi offre del the, ha una macchina ed ha un lavoro che sono già una sicurezza. E' molto forte stare qui, camminare nel fango e rifiutare ringraziando a gesti. E' molto forte, e molto complicato, attraversare questo paesaggio, bello ed in qualche modo crudele, osservandolo per ore dal finstrino di una macchina. Macchina che corre su strade a chiazze, a volte finite in niente più che una pozza di terra bagnata, con una guida spericolata, come si usa qui. E quello che attraverso sono villaggi di un'India profonda, sempre più povera, sempre più umile e colorata. Osservo i bambini, per l strade, mezzi nudi, o nudi completamente. Osservo i forni, improvvisati ad un incrocio. Oppure gli autobus sgangherati, che rallentano davanti a noi la via. Osservo... tutta la vita, inenarrabile che mi si snoda dinanzi, e le migliaia di anime che vivono col niente, rispetto a me. Sempre più profondo, questo viaggio, che mi tocca e mi stringe il cuore.

 

 

E' troppo, così penso quando mi dice che siamo arrivati e mi chiede dove dovrei stare. E invece no, anche con un po' d'aiuto, mi fermerò. Unico straniero. Ma mentre ancora cammino, lo zaino in spalla ed il tassista che chiede in giro e mi guida, arrivo qui. Arrivo al fiume. E' un'esplosione di colori, un'onda in movimento continuo. E' una meraviglia che, se non attenua la mia timidezza ed il mio disagio, per lo meno mi riempie gli occhi e mi fa sentire il valore di essere giunto fino qui. E l'atmosfera é quella di festa, non c'é angoscia, non ci sono ansie né paure: é solo una marea che cresce, di ora in ora, di gente che si raggruppa con la propria vita in un fardello sulle sponde del fiume, lungo i gradini che regolari scendono nell'acqua, ad entrambi i lati. E sotto i portici, ed oltre, le persone già si raggruppano in vista della notte, ad accendere un fuoco per la cena o semplicemente in attesa. Ed ogni immagine che posso catturare, anche solo con un battito di palpebre, é una scena completa, una pagina di un libro enorme che si sfoglia da solo velocemente sotto il mio sguardo. Avrei potuto fuggire, quasi, stretto dalle mie paure, dai miei limiti. Mi sono imposto di non farlo, e questa sarà una delle fermate più belle di tutto il mio viaggio.

 

 

Dalla terrazza di un edificio a dir poco trascurato, l'unico albergo della città, torno ad osservare le piccole scene di sotto. Ho conosciuto Jenny, una signora inglese in viaggio da sola, con una storia, tante storie da raccontari, ed una sensibile passione per la fotografia. Jenny conosce bene l'India, ha fatto volontariato e lavorato come guida, attraversa mezzo mondo in un modo o nell'altro ed in qualche modo mi prende per mano e mi aiuta a superare dubbi ed ansie. Non é poco, in un luogo in cui, incontrandoci, abbiamo raddoppiato il numero di stranieri presenti in città. E di fronte al mio sgomento per tutto quanto mi scorre dinanzi, semplicemente mi dice di lasciarmi andare, non farmene una ragione, perché non approderei a nessuna spiegazione. Sono sceso e sono andato per strada, ho attraversato il ponte e percorso la riva opposta,, trasalendo al baccano delle scimmie sui tetti di lamiera e cercando di cogliere con l'obbiettivo qualcosa da lontano, ho attraversato un altro ponte, un miglio più in là e sono tornato indietro. Quanto vorrei annotare ogni dettaglio che riesco a catturare, di suggita, come di sfuggita risalgo sulla terrazza, per timidezza. E sì, Jenny mi invita a scendere di nuovo e girare di nuovo, tra questi colori che riempiono l'anima e scene che toccano il cuore, bacini pieni di polvere sacra ed una tazza di the e latte. Sembra incredibile, ma dopo averla lasciata, dopo un English breakfast il giorno seguente, ci ritroveremo ancora, in due altre città colme di gente, sempre per caso. E forse non é nemmeno il caso, a volte compagni di viaggio ci vengono quasi come un dono, a condividere una tappa che può sembrare troppo ardua. E mentre salgo su una di quelle imbarcazoni colorate di fiori, la sera, varchiamo il sottile confine dell'acqua e nel buio che circonda l'acqua, da posizione privilegiata assistiamo agli ultimi bagni ed alle celebrazioni della sera.

 

 

Questo palco d'onore, che in un paio di giorni si riempirà esso stesso di pellegrini la notte é l'ultimo sguardo da cui non riesco a separarmi. Chitrakoot, questo luogo, mi fa venire in mente La città della gioia, per quanto riesco a ricordare. Osservo i bambini che ancora vendono le offerte da abbandonare alle acque immobili del fiume, che mi fanno pensare alla piccola fiammiferaia. C'é un contrasto lacerante tra la serenità e la dolce contentezza che vedo e la miseria disarmante che mi circonda. E' un'esperienza fortissima e disarmante. Come in un rito ai bordi dell'acqua, é necessario immergersi pienamente senza riserve mentali per poter provare a comprendere ed assaporare una piccola parte di tutto questo. Lasciare indietro tutti i nostri schemi ed i nostri filtri. Perché altrimenti, non ne usciremmo sani di mente. E questa piccola città, apputo, mi sembra davvero la città della gioia, per quanto non conosca davvero il romanzo e ricordi soltanto a grandi linee il film corrispondente, e semplicemente il senso di questa espressione che mi salta in mente. Una ragazza, avvolta nel suo sari, osserva anche lei dalla balaustra, tenendo stretti i due figli piccoli. E quest'uomo, che gestisce quest'edificio, con la sua aurea di misticismo ed esperienza mi domanda cosa sia per me la felicità. Lui che non si separa da questo luogo, che parla di induismo e descrive la sua organizzazione per dare un'educazione ai bambini del luogo. Cosa sia, ecco davvero no lo so dire, colpevolemente, io che ho tanto ed allo stesso tempo vivo dei miei crucci e dei miei piccoli problemi di ogni giorno. E' una sfida ed un viaggio profondo anche solo porsi questa domanda, e cercare inutilmente aiuto con gli occhi.

 

 

Ho ripensato alla danza. Colori su un palco e musica nel sangue. Nella sera riguardo immagini dei giorni passati. Questo Paese é permeato di danza, una musica - anzi molte, in un connubbio indefinito - costante. E' orgoglio, riscatto, istinto. E' danza la postura delle divinità lungo il perimetro dei templi, é danza ogni celebrazione, sia essa attorno ad un fuoco per scaldare o eco lontana ai lati della strada.
Un'altro spostamento, una nuova destinazione. Dove arrivo e questa volta davvero non attendo altro che ripartire. Ma, ancora, é lo spostamento in sé a raccontarmi qualcosa. Perché per partire da Chitrakoot posso solo salire su un autobus. E questa é un'esperienza. Impacchettato sul sedile, in un tragitto interminabile fatto di sobbalzi e scene di India sempre più profonda e sempre più remota. Eppure, in linea d'aria grandi città distano sì e no un centinatio di chilometri. E così arrivo coperto interamente di polvere, e per scendere, al capolinea non ho altro da fare che buttarmi sopra la gente che già prende d'assalto il bus per accaparrarsi un posto, mentre ancora rallenta. Sono scene anche queste, che raccolgo con me, fino ad arrivare a Sangam, punto d'incontro di fiumi sacri ed accampamenti di pellegrini sulla distesa verso le rive. Anche se, per quanto mi sforzi, non sarà questa la mia fermata più significativa.

 

 
 
 

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Post n°593 pubblicato il 16 Gennaio 2016 da enodas

 

 

Chapter 3 - Deep India (1)

6,7,8 Novembre

 

 

Riprende il mio viaggio, e riprendo il mio racconto... Riprende con una corsa in tuctuc per le vie di Delhi, in uno snodarsi nel traffico come le spire di un serpente, verso la stazione. Pertito il treno, lentamente la città si allontana. Lo fa attraverso il paesaggio, che gradualmente si trasforma, lungo binari percorsi con lentezza estenuante, laddove costruzioni regolari lasciano spazio sempre più continuamente a baracche, e poi infine nemmeno quelle, soltanto accampamenti, aggregazioni di vita disposta attorno, sempre più verso una campagna che si inghiotte nell'aria densa e polverosa. Tramonta, tutto varia in una tinta di rosa aranciato, e non sai se ciò che vedi sia nebbia, afa sospesa, polvere. Su questo treno inizia una nuova parte del viaggio, con nuove aspettative, ma sicuramente quella più incognita. Incognita per i continui spostamenti, non organizzati, per il tragitto, che passerà per strade meno battute, e per quanto possa aspettarmi con l'immaginazione, che, in parallelo agli sguardi che getto fuori dal finestrino, ho la sensazione di addentrarmi oltre un nuovo limite, oltre un porto relativamente sicuro, verso un mondo ancora più profondo e lontano. Così, come altre volte, ripeto con la mente date e luoghi, per come li ho pensati, come se punti su una mappa, pur senza linee, mi dessero una conferma.

 

 

Ho vagato nel buio per percorrere qualche centinaia di metri. Non un buio silenzioso e solitario di certo. Questo é l'arrivo in stazione, la sera, un intrico di voci ed attenzioni che annullano l'orientamento e tolgono quel poco che potrebbe dare la luce del giorno. Credo che in qualche modo lo scompartimento del treno fosse uno spaccato di questa parte di viaggio: una coppia americana, di rapido passaggio tra Himalaya e rotta verso casa, che é scesa ad Agra, prima che la sera inghiottisse il treno verso città sconosciute, una giovane ragazza che di fronte a tre stranieri ha voluto scambiare cabina ed il suo sostituto, un giovane ingegnere impiegato in una delle tante aziende IT alle porte di Delhi. Quando lo lascio, ha ancora tutta la notte davanti per arrivare alla città natale. Ultima destinazione. Perché mancano cinque giorni a Diwali, ed ormai é solo questione di conto alla rovescia. Ho vagato ancora, infine mi sono unito ai passengeri di un risciò, per cinque rupie soltanto, tanto ero vicino, e neppure l'uomo che pedala di fronte a me sa bene dove portarmi. Non voglio lavarmi, vista la camera.

 

 

Sole, di prima mattina. Ancora rumori della città che siano accettabili e traffico mezzo sopito. Mi faccio portare su, ai piedi della rocca. Il tuctuc sbuffa, nell'ultima parte, mentre inizia ad arrampicarsi, e qualche donna con bambini al seguito sta uscendo dalle case per avviarli a scuola. Perché l'ultima parte la percorro camminando. Ed un bambino si affianca, per andare a scuola, per parlare con lo straniero, per vendermi qualcosa, non lo so, ottengo risposte diverse. Ecco, sulla spianata che domina la città, é come trovare un angolo di campagna in un mare di costruzioni. E dal basso salgono su, fino alle torri del palazzo i clacson, sempre più insistenti, sempre più numerosi, le voci, ogni segnale di attività umana. Come se un nugolo di api operaie si fosse rimesso al lavoro e si muovesse, oltre la cortina di aria densa e polverosa che si leva dal terreno ed attutisce la vista. Ed il paesaggio, più in là, scompare, inghiottito anch'esso, prima che la natura faccia la sua ricomparsa. Tra silenzio e caos, in questa giornata che inizia, con una forza sempre crescente, quasi fosse una marea che sbatte contro una scogliera, con onde sempre più alte. C'é un contrasto netto, continuo, tra ciò che associamo a bellezza, ed una definizione diversa di bellezza. C'é questo contrasto continuo tra vestigia, palazzi come questo, o i templi e le sculture giganti che si sparpagliano attorno, e la cura, la noncuranza, con cui vengono tenuti, quasi nascosti tra sterpaglia e cancelli arrugginiti, tra il paesaggio all'orizzonte, perso nel nulla, e l'abuso del terreno.

 

 

Credo che ricorderò questo luogo. Un'inaspettata oasi di tranquillità in una mappa colma di nomi. Per qualche ora, é un altro mondo, al termine di una strada colma di gente. Una dimensione umana. E poi, oltrepasso un ponte, e su un'isola silenziosa strade disegnate tra gli arbusti conducono ad un labirinto di palazzi, camere, piani e passaggi. Tramonta, quasi. E nuovamente la vista si perde in colori sfumati. Mi arrampico, affaccio su un balcone, quasi spalanco una finestra. E dietro un'onda di luce personaggi misteriosi stanno seduti, tra preghiera e meditazione. Scalzi, scoperti, barba lunga e capelli bianchi, ed un bastone nodoso. Guglie puntate nel cielo, da lontano, forse non troppo, sbucano in quel paesaggio che solo pochi minuti prima osservavo da una torre angolare. Ed ora invece no, gradino dopo gradino, salgo, lungo un percorso che saranno pure pochi metri ma di colpo formano un palcoscenico intero di venditori, questuanti, animali e, varcata la soglia, mi immergo nella penombra.
Non restano che pochi minuti ormai. Ho imparato che diventa buio in fretta. C'é un fiume amplissimo, al termine del paese, ed un ponte a singola corsia che connette blocchi di pietre lungo il passaggio. So che devo riattraversarlo prima che faccia buio. Ma da questa posizione privilegiata il suono dell'acqua é un calmante di emozioni e fatica, e lo sguardo abbraccia tutta la sponda. A gruppi, bambini giocano nell'acqua, e sollevano schizzi verso alcune donne che lavano vestiti. qualcun'altro insistentemente vuole che osservi una bancarella o parli coi genitori, che insieme non supereranno di tanto la mia età. E nel silenzio, qualche altra figura, scompare nell'acqua, riemerge e ad occhi chiusi e labbra serrate pronuncia una preghiera.

 

 

Appena varcata la soglia la prima sensazione é l'odore acre dovuto alla presenza di pipistrelli che sale alle narici. Centinaia, forse pure di più: se ne scorgono malapena le sagome appollaiate a testa in giu, su un soffitto che scompare alla vista nel buio totale, o se ne avvertono i fischi striduli ad intermittenza. E nel buio ancora più intenso che origina dal contrasto con l'esterno emergono figure sinuose e danzanti, commistione di uomini e divinità, fusione di corpi. Nell'interno, attorno l'ara sacra, in questo silenzio rischiarato da un raggio di luce, la loro narrazione é ancora più trascendente.
E' una danza, impressa nella pietra, quella che corre, lungo le pareti, una successione infinita di movimenti, di musica e di gemiti, amplessi e gesti. Semplici ed umani, come estrarre una spina dalla pianta del piede o l'atto di truccare gli occhi, o complicati ed espliciti, al limite della natura e del naturale, o del divino. Poi, improvvisamente, un giorno remoto, tutto questo sparì e la musica cessò come risucchiata nel suo stesso vortice. Una stirpe guerriera, una pietra che arde del sole, lavorata ad ogni angolo, ogni singolo spazio, ed un racconto senza tempo delli pulsioni più arcaiche, quasi ancestrali. Svettano, attorno pinnacoli, uno accanto all'altro.

 

 
 
 

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Post n°592 pubblicato il 12 Gennaio 2016 da enodas

 

 

[...]

 

Sono bastate poche note a farmi sprofondare. Qualche anno fa non avrei immaginato di pensare quanto potesse suonare la musica suonata da un'altra orchestra. Come se ne risentissi finalmente l'anima. Mai avrei pensato, che qui non sento suonare così. E difficilmente avrei immaginato molte altre cose. E che se una sensibilità manca nel suono mancherà anche all'ascolto.
La Fenice e La Traviata sono un legame stretto oltre centocinqiant'anni fa. E' così che hanno scelto questa musica, fuori programma. Qualcosa che già di per sé qui non é contemplato. Per me, invece, i ricorsi storici vevano un'importanza ben diversa dal semlice rimando. E così, son bastate poche note a farmi sprofondare. Come se avessero tolto una patina opaca ad uno specchio argenteo. E nel riflesso ho senito me stesso, le mie radici, e qualche ricordo. Ho sentito questa musica costruita sul canto che non ascoltavo da tempo. Ho sentito le pietre calde dell'Arena. Ho sentito. Ed ho guardato me stesso, per un attimo, e quanto siano diverse le cose che avrei immaginato per me, quanto mi manchino, quanto questo mi renda infelice al pensiero.

 

 

 
 
 

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Post n°591 pubblicato il 09 Gennaio 2016 da enodas

 

 

"Gli Angeli messaggeri di pace e serenità sono creati per proteggere grandi e piccini e tutti accolgono il loro tenero abbraccio.
Il tuo Angelo sussurra al tuo cuore, ascolta la sua voce, ti resterà sempre vicino a custodirà la tua vita con cura ed amore.
Come un Angelo la tua mamma protegge il tuo cammino, ti regala tenere carezze e dolci baci che porterai sempre con te."

 

 

...questa volta, sara' una sorpresa...

 
 
 

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Post n°590 pubblicato il 06 Gennaio 2016 da enodas

 

 

"...e del grave occhio glauco entro l'austera
dolcezza si specchia ampio e quieto
il divino del pian silenzio verde..."

(Giosue Carducci)

 

 

"Tolto di saper scrivere un pochino, ero perfettamente ignorante e mi sono, grazie a Dio, conservato. Solo l'arte stavami addosso senza saperlo, né lo so ancora..."

 

Un filo d'erba. Un campo, un intrico di alberi. Silenziosamente, ondeggiano, immobili. No, non é una contraddizione. E quasi di sfuggita, figure umane. Si materializzano, quasi scompaiono, in un moto catturato, un istante, quasi uno scatto rubato per errore, tanto semplice é il gesto, tanto semplici le persone. Figure dimenticate, di un'Italia che fu, figure di un popolo "ignorante e selvaggio", immersi nei paesaggi della campagna maremmana, nei campi, al lavoro tra quei "fratelli spiriti" che sono gli animali, dove il soriso si alterna al pianto.
Un filo d'erba. Trema, per un rumore lontano. Trema il terreno. Per la battaglia, una carica di cavalleria, il passaggio di un esercito. Il soldato é solo. E come fosse una lente, la tela si sposta su di loro, siano protagonisti o episodi, comunque dimenticati, figure anonime che scompaiono in quelle pagine di storia che hanno scritto senza firmarla.
Macchia. La parola più ricorrente. Macchie di colore, che definiscono questi volti e questi paesaggi, a volte dando l'impressione che i primi siano ritagliati ed apposti sui secondi. Macchie che creano materia ed al temo stesso narrano stati d'animo, problemi, tragedie di un mondo semplice, anche quando era grande.

 

"Tutto il creato che vedo, osservo e tocco mi incanta, mi fa pensare...e credo che la nostra materia faccia parte di questo tutto che ci circonda..."


"...Io amo il realismo, gli animali, gli uomini, le piante, hanno una forza, un linguaggio, un sentimento..."

 

 

"... La luce non é la luce universale di Piero della Francesca; é la luce di una tarda, afosa mattina d'estate..."

(G.C.Argan)


"...la lenta pazienza dei bovi accomuna l'umanità desolata sotto il giogo di una natura splendente..."

(Lionello Venturi)

 

Ci sono molti fili conduttori, stesi parallelamente, in questa mostra che mi é piaciuta molto. Il primo é l'arco di una vita, non troppo movimentata, come viene sottolineato all'ingresso, ed eccezione di un breve viaggio a Parigi e due matrimoni. Il secondo é la storia artistica che lo accompagna: le sezioni della mostra seguono questa evoluzione riuscendo comunque a sottolineare l'importanza e l'interesse per certe tematiche, le sperimentazioni su impostazioni sempre più potenti, di ampia armonia o forte drammaticità, a seconda delle esigenze. Poi, c'é la Macchia, inteso come filosofia artistica ed esplorazione, di cui Govanni Fattori fu interprete magistrale: non uno stile tra i miei preferiti, ma comunque una teoria importante in cui pittura fluida e materia si fondono nel colore. Poi c'é la Storia, quella dell'Ottocento italiano, che viene raccontata con taglio personale e con grande attenzione all'aspetto socile ed esistenziale. E questo é l'aspetto più coinvolgente di questa galleria che si dipana tra paesaggi di austera bellezza e situazioni di sconvolgente violenza. Una riflessione ed un racconto, di un Paese che tutto sommato non é poi così lontano. Uniti dall'amore per la semplicità e per tutto ciò che un occhio distratto potrebbe considerare anonimo. La guerra, nel suo inutile orrore ed in tutta la sua forza distruttiva, é il soggetto principale di quasi tutte le opere di narrazione militare, dove l'aspetto epico lascia spazio al dettaglio di un momento tragico e di taglio personale. E' una scelta di grande sensibilità. Che si riflette inevitabilmente anche in altri contesti. Interpretazione storica, allora, di un Paese formatosi "in ritado" rispetto a molti altri, con una coscienza storica ben più debole e differenze abissali, un Paese "tradito" dal Risorgimento e dai suoi ideali. Un tradimento che sulla tela ne tocca impietosamente gli stessi inconsapevoli attori. Fino al momento conclusivo, quando paesaggio e vita nella natura prendono il sopravvento nel dirigere il pennello e, andando oltre il racconto critico, diventano quasi domanda esistenziale.

 

"...lo Staffato solo sulla strada fangosa trascinato verso la bufera e la morte da quel cavallo nero..."

(Ugo Ojetti)

 

 

"Le celebri tavolette, i dipinti monumentali di soggetto risorgimentale, i magnifici ritratti, le scene di vita popolare saranno riuniti in una grande mostra che riproponga al pubblico l’assoluto protagonista, non solo della pittura macchiaiola, ma anche del naturalismo di fine secolo. Giovanni Fattori (Livorno, 1825 – Firenze, 1908) è stato certamente anche per la lunga vita, la qualità, il numero dei quadri realizzati, un protagonista di livello europeo. La sperimentazione della macchia cui lui ha dato un contributo decisivo, è stata solo una delle fasi di un’esperienza di maggiore e più vario respiro. Se nelle tavolette, come la famosa “Rotonda di Palmieri”, ha saputo dialogare con il Quattrocento Italiano, pur riuscendo a concepire una visione assolutamente moderna, nei dipinti successivi di grande formato ha saputo raggiungere una dimensione epica che lo accosta al realismo di Courbet. La pittura di Fattori, un artista impegnato sempre fedele a se stesso, è riuscita, soprattutto nella rappresentazione delle grandi battaglie de Risorgimento o della vita dura del popolo della Maremma, a rendere una fase della storia italiana con un respiro che ricorda la letteratura verista di Verga o la poesia di Carducci. La mostra consentirà di mettere a confronto non solo temi diversi ma anche differenti soluzioni stilistiche che dimostrano l’evoluzione dell’artista. La sua grandezza è stata nella capacità di interpretare tematiche universali, come appunto l’eroismo, la pietà, il lavoro, la morte, che emergono nei suoi ultimi capolavori tra i quali “Lo staffato” con una forza straordinaria da far pensare a Goya."

(dall'Introduzione alla mostra)

 

 

"... Il suo canto plastico che fu dolce come un frutto maturo al sole..."

(Carlo Carrà)

 
 
 

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Post n°589 pubblicato il 04 Gennaio 2016 da enodas

 

 

"Apart from his music he remained a child almost throughout his life"

[...]

 

 

Se c'era una città che desideravo visitare quando ero adolescente ed avevo iniziato ad ascoltare musica classica e suonare il pianoforte, questa era Salisburgo. Superfluo dire il perché. Ci sono stato, molti anni fa. Ci sono tornato, questi giorni, quando il calendario segna l'inverno, le suggestioni del periodo di Natale ed il termometro, senza volerlo, non scende poi più di tanto. Ci sono tornato con quell'idea che ho da sempre che alcuni luoghi siano una promessa. E come una promessa, ho ricalcato strade e passaggi con occhi nuovi e cuore diverso.
La musica, quella resta, sospesa nell'aria, in una sala da concerto, tra saloni storici ed in un teatro di marionette. E su tutto aleggia lo spirito del genio che ha riscritto il nome di questa piccola città adagiata sul Salzach, circondata di verde, laghi e montagne ricche di quell'oro bianco che la rese ricca e potente, dominata da una fortezza inespugnabile incastonata nella roccia, ed intrisa di un'atmosfera d'altri tempi.

 

 

Ecco, scompare. Un'ombra, lentamente, inghiottita nella nebbia. E' un mare, sì, illuminato da fari che paiono approdi lontani. Un mondo metafisico. Cammino come sul ciglio di un ponte che sovrasta la città intera, laggiù, linee di luce tra gli edifici eleganti ed il riflesso dell'acqua condensata sulle superfici. Potrebbe essere un sogno, chissà, o un'avventura, in un mondo lontano che sembra quasi proiezione dell'anima, una discesa dolce in punta di piedi laddove i rumori giungono ovattati e sembra di palpare l'aria con le mani, quando l'afferrano, prima di riaprirle e trovarle bagnate di una goccia d'acqua.
Ecco, riappare. La luce, che si riflette sulla strada bagnata, ed ombre sfocate dalla pioggia si muovono su riflessi arpeggiati. La luce, che si pretende da una parte all'altra della città, sull'acqua scura e silenziosa, come dovesse muoversi con la stessa eleganza che appariene ai suoi argini. La luce, che sfonda le finestre delle taverne, vocio contnuo tra le panche e gli infissi di legno, e le pitture alle pareti. Fumo e profumo, un soffio caldo che spegne una folata di vento.

 

 

Ho abbandonato le rive del fiume. Pochi minuti, la mezzanotte, i fuochi sparati da una riva e dall'altra. Si riflettevano nell'acqua, seguivano traiettorie impreviste, o esplodevano in aria illuminando i tetti scuri ed il profilo aguzzo di un campanile o da lontano, il profilo della rocca e la fortezza impiantatavi in cima. Non fa freddo. E sulla pelle c'é ancora il calore della taverna, nel sangue il vino caldo aromatizzato. Da una piazzetta all'altra si sciolgono musiche o si danza su ciò che resta della pista di pattinaggio. Aspettando le note di un valzer, domani, tra rosso velluto e stucchi dorati. La mezzanotte é passata. E come la musica suonasse quel vazer, una coppia danza nel buio sul ciglio di un marciapiede; ombre danzanti, infatti, come fiamme di gioia.

 

 

Ci siamo svegliati per la partenza. Ed abbiamo trovato quella neve che mancava. Tra silenzio e poesia. Ed anche il freddo crescente della sera prima appare lontano. Guida, su strade pulite, linee che entrano in un paesaggio che quasi sembra incantato. Paesini, casette ed alberi coperti di bianco. Immobile o quasi. E' così che si arriva in questo luogo, quasi sospeo come un'isola misteriosa, che sia uscita da un'immagine epica, un'impressione romantica o da un racconto gotico. Silenziosa ed irraggiungibile, attraverso uno specchio che scintilla di cielo, di neve, di montagna. Quasi tornare, ad un anno di distanza, in un luogo simile, un profilo familiare, una camminata gelata. Quasi tornare, quasi per caso, laddove una finestra si é aperta tra le montagne ed il cielo ha raccolto sulla terra.

 

 

 
 
 
 
 

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