Creato da Franzhi il 13/06/2006

Racconti a pezzi

Racconti Liberi a Puntate

 

 

9 - Siracusa

Post n°56 pubblicato il 02 Novembre 2007 da Franzhi
 

13 agosto 2007. Stamattina sembra che tutti abbiano deciso di andare a Siracusa, procediamo da un po’ a rilento, rigorosamente incolonnati. Poi però il traffico si fa più fluido. Diversamente dalla rivoluzione di rotatorie in atto dalle nostre parti, qui resistono ancora semafori ed incroci a raso, ecco il perché di tutta questa coda. Siamo a Siracusa che è quasi mezzogiorno, la Necropolis ed il Teatro Greco riflettono il sole accecante che riverbera sulle pietre dell’area archeologica. Rispetto all’ampiezza degli spazi incontrati nella Valle dei Templi, qui le superfici di visita sono molto più contenute, a ciò si aggiungono anche alcuni percorsi chiusi per dissesto, che riducono ulteriormente le possibilità di allungare il giro. In buona sostanza, stando così le cose, la massa turistica si divide tra le due attrazioni principali del luogo, il Teatro Greco e l’Orecchio di Dionigi.
Sul teatro non c’è molto da dire, è rimasto abbastanza ben conservato nonostante gli scempi subiti nel corso dei secoli. A perenne testimonianza delle scelleratezze antiche rimane la “casetta dei mugnai”. Si tratta di un edificio che si erge sulla sommità della cavea e che, insieme ad altri mulini, fu fatto costruire dopo la seconda metà del Cinquecento dal marchese di Sortino, tal Pietro Gaetani. Questi riattivò a proprie spese l’antico acquedotto che portava l’acqua sulla sommità del teatro, favorendo l’insediamento di diversi mulini costruiti proprio a ridosso delle gradinate del teatro. Non so dire se questo Marchese abbia fatto i suoi interessi o sia stato considerato un benefattore della città, certo che il gusto estetico tanto decantato del Rinascimento Italiano deve avergli fatto un baffo a lui.
L’orecchio di Dionigi invece è un'antica cava di pietra situata nella Latomia del Paradiso, che grazie alla sua particolare forma ad orecchio d’asino - narra la leggenda - consentiva al tiranno di origliare persino i bisbigli dei prigionieri. Pare, infatti, che la particolare conformazione della grotta consenta di amplificare i suoni che si producono al suo interno fino a sedici volte.
A questo punto, mi sembra chiaro che per apprezzare l’acustica del posto sarebbe necessario potersi appostare, come faceva il Tiranno, all’interno di una cavità superiore posta verosimilmente vicino alla volta, quindi ben 60 metri sopra le nostre teste. Ma questo non è possibile. Mi chiedo allora perché, qui dentro, tutti continuano ad urlare per vedere l’effetto che fa. La guida di una comitiva ha appena avuto una crisi di identità e, credendo di trovarsi ancora nel teatro, si è messa a cantare a pieni polmoni l’aria di un’operetta con voce da tenore di belle speranze. Cerco di intrufolarmi fino a raggiungere il punto più profondo della grotta, ma la musica non cambia. Mi conforta solo notare che i turisti stranieri sono tanto idioti quanto noi italiani - che solitamente non difettiamo nel farci riconoscere. Ci sono due tedeschi sbronzi che cantano abbracciati una canzonetta da Oktober Fest. Allargo le braccia, guardando Giò, e ci avviamo verso l’uscita della Latomia, sommersi dall’applauso che benedice la chiusura della performance della guida.
Me ne sto appoggiato alla staccionata di legno cadente che contorna l’area Romana della zona archeologica, mentre Giò è in giro a fare qualche foto.
I brontolii della pancia mi ricordano che l’ora si è fatta tarda, recupero la mia fotoreporter e concordiamo sull’opportunità di andare a sgranocchiare qualcosa nell’isola di Ortigia, culla e centro storico di Siracusa. Lasciamo la macchina appena superato il ponte Umbertino, che la collega alla città e ci avviamo per fare quattro passi in giro. Ci fermiamo in Piazza Archimede per uno spuntino, al riparo dal sole, mentre dalla fontana di Artemide zampilli d’acqua trasmettono una sensazione di placida freschezza. Il gruppo della fontana, mi dice Giò, raffigura la trasformazione della ninfa Aretusa in sorgente. Memore del mio sogno, rispondo, che non possiamo non andare a vedere la “palude” decantata dal signor Franco. Lei annuisce divertita, paghiamo il conto e ci incamminiamo verso la piazza del duomo e poi al cospetto della fonte Aretusa. Chiamarla “Palude” mi sembra quantomeno improprio, anche se è vero che all’interno dello specchio d’acqua in cui si riversa la sorgente sono presenti numerose piante di papiro spontanee, che possono giustificare l’associazione della fonte ad uno stagno (ma ad una palude proprio no!). Tra i papiri si sollazzano numerosi pennuti. Quattro o cinque paperette ci vengono incontro baldanzose, Giò è molto divertita dal loro andare. Le osservo anch’io un po’ incuriosito dalla loro andatura allegra, continuano imperterrite e goffe a camminare verso di noi, finchè, come ad un segnale prestabilito si tuffano nell’acqua della Fonte Aretusa, chiamata dai siracusani anche “fontana delle oche”.


(Continua)

 
 
 

8 - Il Sogno

Post n°55 pubblicato il 23 Ottobre 2007 da Franzhi
 

12 agosto 2007. Scendo dalla macchina, c’è vento stamattina, il signor Franco mi viene incontro con il suo solito occhio torvo. Porta addosso un maglioncino rosso, sopra la camicia bianca. Mentre mi osserva da sotto le sue lenti oscurate, penso che le ferie non fanno bene a tutti. Buongiorno, mi dice, porgendomi la mano, moscia come sempre. Buongiorno dico io, come va? Tutto bene grazie. Passate bene le vacanze? Sì, grazie, sono stato in Sicilia e lei? Anch’io, dove di preciso? La parte Sud dell’Isola, Noto, Ragusa, Siracusa, Pachino…anch’io, dice lui e io penso, che culo che non ci siamo incontrati! Ha meno capelli dell’ultima volta, mi sembra, e la pelle della testa che si sta tutta screpolando, regalo dell’Etna, mi dice lui. E tu, cosa hai visto? Continua. Dove sei stato? Incalza. A Pachino, a Capo Passero…Anch’io. Mi interrompe lui. E ad Avola, a Marzameni? No, lì non siamo riusciti… Ah, avreste dovuto. Mi sembra di essere ritornato all’asilo, quando dicevo a Matteo che se continuava a rompermi chiamavo mio cugino che aveva 18 anni e lui mi rispondeva che allora lui chiamava suo zio, che di anni ne aveva 28 e guidava il trattore. E poi finiva sempre che, se ero di luna buona, lo salutavo e lo lasciavo lì impiantato, se invece mi giravano le palle gli mollavo uno scopelotto e lui, di risposta si aggrappava ai miei capelli e tirava. Allora io urlavo e scalciavo, lui si metteva a piangere e arrivava la suora. A me, una volta, per colpa di queste nostre dispute mi hanno legato le scarpe l’una con l’altra e sono stato tutta le ricreazione appoggiato a un palo perché mi vergognavo. A lui, l’hanno fatto stare in classe con il grembiule addosso, ma senza pantaloni, perché nel tentativo di spingermi dentro una pozzanghera si era inciampato ed era ruzzolato dentro, bagnandosi tutto.
Mi guardo intorno, ma non c’è l’ombra di nessuna suora. Il signor Franco, invece, orgoglioso proprietario di un’azienda di mobili che va a gonfie vele, continua a muovere la bocca guardandomi di tanto in tanto con il suo occhio guercio, ma io continuo a sentire solo i rumori di quando andavo all’asilo, vedo le pareti dell’aula con tutti i nostri piccoli lavoretti attaccati, le composizioni con la pasta, i disegni, i cartelloni e poi, chissà perché, mi rimane fissa l’immagine del cancello zincato, grigio, lungo e pesante.
Dev’essere lo choc da ripresa, ma qui le cose si mettono male, penso, se già al rientro dalle vacanze sono assalito dal desiderio di sputare in faccia a questo simpatico signore. Sento la voce del capo che mi dice, ricordati questo è un cliente, il cliente ha sempre ragione, lui è un imprenditore di successo, tu un consulente sbarbatello. Lui può darti del tu e parlarti come se fossi un poppante ma tu no, anche se è un vero stronzo. Bene signor Franco, che dice, ci avviamo? E mentre lo dico, lo prendo sotto braccio, affabilmente, indirizzandolo verso l’ingresso della sua gloriosa azienda.
E a Siracusa l’hai vista la Palude? Mi dice il signor Franco una volta seduti, l’uno di fronte all’altro, al tavolo di uno dei suoi collaboratori. La Palude?! dico io. Sì, insomma, lo stagno sull’Isola, sull’Isola… cerca di correggersi lui. Sull’Isola di Ortigia? Chiedo io. Intravedo, riflessa nelle lenti dei suoi occhiali, la mia espressione di meraviglia. Forse si rende conto di averla detta grossa perché balbetta qualcosa con poca convinzione. Ma in fondo, che cazzo gliene frega a lui? È così, tanto per dire. Lui è Franco Credenza, a fine mese 15.000€ finiscono di diritto nel suo conto in banca, ha una AudiQ7, solo perché la famiglia è numerosa, dice, la barca, una casa al mare, una in montagna.
Lo vuoi o no questo caffè? mi chiede. Mi scuoto. Grazie, un caffè freddo se possibile, che poi iniziamo, faccio io, guardandolo dritto in faccia. Dev’essere il ricordo delle ferie, l’assuefazione a quest’uomo pedante, qualche cosa che le dà pensiero in famiglia, pensiero ma a Grazia, la segretaria tutto fare, succede una cosa incredibile, arriva lunga, alle mie spalle, incespica e scivola rovesciando i caffè in parte sul tavolo, in parte addosso a me. Sento le gocce fredde della bevanda scivolarmi lungo la schiena, per istinto, mi alzo di scatto, vedo un bagliore accecante e poi, a poco a poco, una fisionomia nota iniziare a prendere forma. Giò mi osserva con un sorriso furbo e una bottiglietta d’acqua aperta in mano.
Il collo mi fa un po’ male, e sono tutto intontito, lei se la ride sotto i baffi. Allora, hai finito di imprimere la tua forma su quell’asciugamano? Mi dice lei come se niente fosse, cercando di contenere la sua aria soddisfatta. Domani andiamo a Siracusa? Certo, dico io ci dev’essere anche una palude da vedere, là non chiedermi come lo so, l’ho sognato. Qui la guida parla solo di una fonte, dice lei, la Fonte Aretusa, ma, da come ne scrivono non credo che si tratti proprio di una palude, devi aver mangiato pesante a pranzo, scherza. Qua c’è scritto testualmente “Questa mitica fonte fu cantata da molti poeti, affascinati dalla leggenda di Aretusa e dal luogo incantevole: Virgilio, Pindaro, Ovidio, Silio Italico, Milton, André Gide, Gabriele D'Annunzio, solo per citarne alcuni”. Già, manca il signor Franco, penso. Mi viene da ridere. Che c’è? Mi chiede Giò. Niente, niente, peccato che i soldi e il buonsenso non vanno sempre d’accordo, dico soddisfatto, non per la massima, ma perché guardo avanti e so che mi aspetta ancora una settimana di vacanza e il signor Franco, non lo vedrò prima del 15 settembre. Va bene, domani, Siracusa.


(Continua)

 
 
 

7 - Km 1829

Post n°54 pubblicato il 16 Ottobre 2007 da Franzhi
 

11 agosto 2007. Dopo qualche tentennamento tra Piazza Armerina e Agrigento, abbiamo deciso di avviarci verso Marina di Ragusa passando attraverso la Valle dei Templi. Da lì raggiungeremo gli altri proseguendo lungo la costa meridionale della Sicilia. Salutiamo Gigi, lasciandoci Bagheria alle spalle. Giò dice che sarebbe il caso di fermarci a prendere qualcosa per il viaggio, in macchina abbiamo solo una bottiglia d’acqua. Accosto ad un fruttivendolo, lungo la via. Scegliamo qualche pesca, un po’ di susine e dell’uva. Mettiamo la frutta nella borsa termica insieme all’acqua e ripartiamo. Il tratto di strada che va da Palermo ad Agrigento ci mostra la Sicilia che ci aspettavamo, brulla, arsa dal sole, ma non così desolata come si potrebbe pensare. Macchie di verde scuro, tra l’ocra della terra riarsa e qualche appezzamento bruciato dagli incendi, ci sorprendono, ancora una volta. Mi fermo per osservare un’altura del tutto particolare, sembra rubata ad un film di Sergio Leone, scendo per fare una foto. Il vento mi sposta in continuazione i capelli e ci metto un po’ a liberare l’obiettivo, poi quando sembra tutto a posto aspetto ancora, in attesa, come se da un momento all’altro dovessero spuntare Clint Eastwood e Lee Van Cleef a sfidarsi in un ultimo mortale duello. Pigio il bottone, guardo la foto sul display LCD della macchinetta, ma non compare nessuno, né sulla foto, né all’orizzonte. Risaliamo in macchina.
Giriamo intorno ad Agrigento e, ad un tratto, otto colonne, di cui alcune mozze, si frappongono tra noi e la vista del mare. Guardo l’interno dell’auto, il blue tooth che continua a lampeggiare, il cellulare, l’autoradio con tutti quei suoi caratteri digitali sul frontalino, e penso che, no, non può essere. Qui, al massimo, si dovrebbe poterci arrivare a cavallo e con i sandali ai piedi!
La Valle dei Templi è stata riconosciuta dall’UNESCO patrimonio dell’Umanità, e vorrei ben vedere! Io e Giò non siamo esperti archeologi, il massimo che riusciamo a fare è di inciampare tra le rovine senza distinguere se si tratta di sassi o di pezzi di qualcosa di più importante, però, in alcuni casi, quel che è rimasto qui suscita una certa impressione, per l’armoniosità delle strutture rimaste in piedi, per le loro dimensioni e, soprattutto, per il pensiero che, chi è stato capace di questo l’ha fatto migliaia di anni fa, senza ruspe, gru o bilici di supporto.
Peccato per il panorama, a vederla dal parco delle Divinità Ctonie, la città di Agrigento non sembra davvero all’altezza di quel che c’era qui un tempo.
Mi sono comperato un cappello, del tipo Havana, bianco, con la fascia nera. Penso che risulterò abbastanza ridicolo nelle foto che Giò sta scattando in continuazione, ma almeno non corro il rischio di prendermi un’insolazione. E poi le mie pose sono tutte al naturale, altro che quei due tizi che si stanno facendo fotografare in piedi su una pietra, sotto le colonne d’Ercole con il loro Chiuaua in braccio. Ma, dico io, queste divinità non guardano mai sotto? Giò, ride e mi dice che era Giove quello che scagliava le saette, e qui il tempio suo nun ce sta! Vorrei risponderle qualcosa, che qualche rudimento di mitologia ce l’ho anch’io. Ma riesco solo a dire, cazzo che merda! Mentre estraggo la mano intrisa del succo delle susine che si sono spiaccicate dentro la borsa termica, sotto il peso della bottiglia d’acqua. Giò si sganascia e io vado in cerca di una fontanella tra il Tempio della Concordia e il Tempio di Giunone. Mi ripulisco e finiamo il giro, mescolati alla massa straripante di turisti che, come noi, sfidano il sole di Agrigento pur di dire “là ci sono stato”.
Da Agrigento a Marina di Ragusa la strada costiera corre liscia, circondata da serre rivestite di teli beige o di nylon nero, che rendono il paesaggio ora più arso, ora simile al mare, ingannando l’occhio dell’osservatore che, girando verso nord si aspetta di trovare le colline dell’entroterra e cade vittima di un’illusione visiva.
Gela scivola via come l’olio lubrificante sull’acqua, sarà per il cielo di quest’ora, azzurro cupo, sarà per l’imponenza delle sue raffinerie. Al momento di svoltare al bivio per Scicli e Vittoria mi sento sollevato. Giò pilucca quel che rimane dell’uva, mentre guarda in giro il paesaggio con quell’espressione di genuina curiosità che è solo sua. La guardo di tanto in tanto, mentre guido, e penso che mi piace anche per questo. Do’ un’occhiata allo specchietto retrovisore e scorgo il bordo della mia bocca curvarsi in una piega di soddisfazione. Ormai ci siamo.
Marina di Ragusa si presenta come una tipica località balneare, la città si sviluppa lungo la costa a ridosso della spiaggia e del lungomare. Incontriamo lì i nostri compagni per le prossime scorribande sull’Isola. Ma per quel che resta di questo sabato, il copione è già scritto, mi cambio in fretta e infilo costume, infradito e ombrellone sotto il braccio, dopo tutto questo sole, ci vuole un po’ di refrigerio.

(Continua)

 
 
 

6 - Bagheria

Post n°53 pubblicato il 07 Ottobre 2007 da Franzhi
 

10 agosto 2007.Il nome Bagheria pare che venga da Bab el Gherib che in arabo significa porta del vento. Altri dicono invece che Bagheria provenga dalla parola Bahariah che vuol dire marina. Io preferisco pensarla come porta del vento perché di marino ha molto poco, Bagheria”. D. Maraini, “Bagheria”.
Il girovagare di ieri, concluso con una lauta cena a casa di amici di Gigi, ci ha convinto ad essere più pigri quest’oggi. Domani ci rimetteremo in viaggio, decidiamo allora di prendercela comoda e andiamo un po’ a zonzo per le vie di Bagheria. In fondo, soggiornare in un luogo è anche viverlo nella sua quotidianità. L’unico obiettivo dichiarato della giornata è una visita a Villa Cattolica, dove riposano le ceneri di Renato Guttuso e si possono ammirare alcune opere del celebre pittore e scultore sicliano.
Parcheggiamo poco distante da Corso Umberto I, vicino a Via Trabia, facendo attenzione a non finire tra le grinfie del posteggiatore abusivo che Gigi ci ha raccomandato di evitare. Gironzoliamo a piedi per un po’ e risaliamo il corso fino alla Chiesa di San Pietro. Rispetto a Cinisi, la vita per le strade è molto più movimentata, fuori dalle case di Corso Butera i vecchi, seduti sulle loro seggiole o sui gradini di qualche uscio sono molti di più, spesso raggruppati in capannelli fatti di gobbe, più o meno pronunciate, denti ingialliti dal tabacco, coppole (poche) e bastoni. Mi piacerebbe proprio sapere cos’avranno da dirsi per tutto il tempo che passano lì fuori, ogni giorno. Ora però sono indaffarato a tener testa all’andatura indiavolata di Giò, che entra ed esce da tutti i negozi di abbigliamento che incontra, come se dovesse recuperare i suoi week end di shopping recentemente mancati.
Ci vediamo con Gigi per una granita, poi ci offre un passaggio a Villa Cattolica in auto. Anche se non è molto distante da dove ci troviamo adesso, accettiamo. Lungo la strada osservo un po’ incuriosito uno spiazzo grande quanto un campo da calcio, tutto asfaltato, chiuso da cancelli. Sulla superficie danzano, mosse dagli sbuffi di vento, cartacce e buste di nylon. Sembra la scena di quel che resta in un piazzale dopo un concerto o una grande manifestazione. Chiedo a Gigi. Mi dice che una, forse due volte alla settimana, ci fanno il mercato, poi rimane così, come lo vediamo adesso.
A ridosso di Villa Cattolica, in tempi passati, hanno costruito uno stabilimento, sembra una vecchia fornace o qualcosa di simile. Al momento di entrare, il colorito scuro e vecchio dello stabilimento stride con il bianco dei muri della villa, distolgo lo sguardo e mi avvio con Giò alla biglietteria. Vorrei poter fare come Dacia Maraini, quando, di questa città, scrive “cerco di immaginarla com’era prima del disordine edilizio degli anni cinquanta, prima della distruzione sistematica delle sue bellezze”. Ma lo sforzo di immaginazione non mi riesce, forse perché non è giornata, o forse perché sono arrivato l’altro ieri e me ne vado domani, e questo sarà solo uno dei posti, in cui mi sono fermato un po’ di più nel corso del viaggio e nient’altro.
Raggiungo Giò che sta aggiungendo la cenere della sua cicca alle ceneri di Guttuso. Fa sempre più caldo. Ci sediamo all’ombra del corpo centrale dell’edificio a godere della brezza calda che si appena levata. Le foglie delle palme, guardiani del monumento funebre, rumoreggiano come cicale, inizio a capire il perché di quel nome, Porta del Vento.
Dopo un po’, le dico, andiamo? Fa cenno di sì con la testa e ci incamminiamo verso il centro. Nella calura di mezzogiorno non serve parlare. Siamo entrambi d’accordo, che accettare l’invito di Gigi sembra l’unica cosa saggia da fare per il pomeriggio, una bella pennichella e poi a mollo a Santa Flavia, dalle parti dei “carabinieri”, dove il mare è più tranquillo, soprattutto in giornate come queste, con il vento che fa increspare le onde.

(Continua)


 
 
 

5 - around PA

Post n°52 pubblicato il 30 Settembre 2007 da Franzhi
 

9 agosto 2007. A Palermo ci siamo già venuti, io e Giò, insieme, l’anno scorso. E questa volta decidiamo di dedicarci alle sue spiagge. È una bella giornata di sole, salutiamo Gigi e ci avviamo verso Mondello. Dopo aver familiarizzato con i guidatori di Bagheria l’ultima prova rimane il test drive tra le vie del capoluogo. Mi avvicino guardingo al centro della città, vado cauto e con attenzione, preferisco lasciarmi superare piuttosto che rischiare qualcosa. Mi metto nella mia corsia e buono, buono avanzo. Fermo al semaforo, conto quattro macchine al mio fianco, due a destra e due a sinistra, ma la strada avrà si è no tre corsie. Davanti a me si apre uno spazio vuoto, largo almeno quanto una corsia intera, il cui accesso risulta ostruito dal muro costituito da cinque macchine allineate come su un nastro di partenza, tra cui la mia. Vedi, mi dice Giò, qui non è come da altre parti, è diverso. Non contano le corsie, quello là, continua indicando avanti con il dito, è semplicemente spazio vuoto da riempire, pigi sull’acceleratore e vai, finché si può. La sua interpretazione mi fa sorridere, ma ha un fondo di verità. Il semaforo diventa verde, il tizio con la golf scassata qui a destra, mi sta addosso, fianco a fianco, ormai da quattrocento metri, e con aria indifferente tenta di infilarsi. Mi hai proprio rotto il cazzo! Dico guardando avanti e accelero. Sono entrato nel sistema.
In ingresso a Mondello siamo scortati da un Apecar verde, con un tizio in piedi, sistemato sopra il cassone posteriore, appoggiato con i gomiti alla cupola dell’abitacolo. Avesse un bel cappello, stivali e frustino, sarebbe un nocchiero perfetto. Invece, ha un paio di sandali rotti, dei pantaloni corti rossi e una canotta arancione, vistosamente chiazzata, appena sufficiente a coprirgli la pancia. In bocca, uno stecchino, e la mano destra a stuzzicare le gengive, mentre gli occhi si perdono a guardare in giro disinteressati. Abbandoniamo la scorta e svoltiamo a destra per Addaura, una spiaggia di rocce poco sopra Mondello che, a detta di Gigi, vale la pena vedere e che pure potrebbe risultare meno caotica della più celebre spiaggia di sabbia bianca poco più avanti.
A guardare i picchi di roccia che sovrastano la spiaggia, distesi dagli scogli, si potrebbe pensare d’essere in montagna, salvo poi essere smentiti dal rumore delle onde che cozzano placide contro i faraglioni qualche metro più in là. Decido di fare un tuffo nell’acqua cristallina, poi ci metto mezz’ora a risalire, ma ne valeva la pena.
Per ora di pranzo ci spostiamo a Mondello, vinti dalla curiosità di vedere la famosa spiaggia e, aggiungerei, stanchi di perdere gli infradito tra gli scogli appuntiti, rischiando di brutto.
Affondiamo i piedi nella sabbia chiara con gran sollievo, chiudo gli occhi e a tratti sembra di camminare sulla farina, quella doppio zero, che si usa per fare i dolci. All’orizzonte il mare assume progressivamente quattro o cinque tonalità di azzurro diverse prima di contendersi il possesso della linea con il cielo: azzurro trasparente, azzurro chiaro, azzurro verdognolo, blu marino, blu cobalto. Ma per il resto, aveva ragione Gigi, Mondello è davvero caotica, riusciamo a stendere gli asciugamani tra i piedi piatti di un signore attempato con le gambe glabre e gli zaini di una comitiva di ragazzi del posto e ci avviamo a fare il bagno nell’acqua calda del mare. Qualche raggio di sole filtra ancora tra le nuvole e l’idea che fornisce la baia nel complesso, è quella di un gran brodo primordiale, nel quale si immergono, con la stessa noncuranza, persone, cose e, in alcuni casi, rifiuti. Come quei pezzi di polistirolo, leggiadramente sparsi da una bambina con un due pezzi rosa, che il mare e la spiaggia si stanno giocando in un batti e ribatti infinito. Mi addormento e poi mi sveglio disturbato da poche gocce che cadono dal cielo scuro. Decidiamo di levarci dalla bolgia e andare a Cinisi, Corso Umberto, 220.
La signorina del navigatore non conosce però il numero e ci fa andare al termine di Corso Umberto, ma dalla parte opposta, rispetto alla nostra destinazione finale. Parcheggio e risaliamo la via a piedi. A prima vista Cinisi non sembra molto più di queste due strade che si incrociano. Il cielo continua ad essere minaccioso, ma non piove, lungo la strada ci sono diversi vecchi seduti su una sedia fuori della porta di casa che guardano le macchine passare.
Arriviamo da Peppino, e poi Giò dice andiamo via. Non so bene cosa sia stato a farla decidere così, ci teneva così tanto a vedere questa casa, della quale visitiamo solo un ampio ingresso, tempestato di foto, articoli, poster, manoscritti appesi ovunque e un balcone vistoso che da’ sulla strada. Ti faccio almeno una foto, dico io, immerso nel ruolo del vero turista. C’è una targa appesa al muro, fuori della casa, dice “A Giuseppe Impastato assassinato dalla mafia il 9 maggio 1978”, ci potrebbe stare, una foto, con quella scritta, ben evidente, sullo sfondo. Lei fa di no con la testa, capisco che non è il caso di insistere. Quando Giò fa così, vuol dire che ha le sue ragioni e ridiscendiamo il corso in silenzio, disturbati solo dal rombo delle macchine che ci corrono a fianco, gli sguardi silenziosi dei vecchi non ci toccano.

(Continua)

 
 
 

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