Creato da le_bateaux il 22/08/2008
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Interno notte, inverno anni '80

Post n°4 pubblicato il 01 Settembre 2008 da le_bateaux
Foto di le_bateaux

Da anni il Professor Tito Scalone aveva preso la sana abitudine di concedersi un bell’incubo al primo sonno.

La prima ora delle sue notti si affollava di vampiri, serpenti, esattori delle tasse, fognature esplose, ex amanti ricattatrici, zombi di suoi pazienti perduti in sala operatoria.

Un attimo prima che l’incubo si concludesse, con l’inevitabile infausto epilogo, immancabilmente si risvegliava, andava in bagno, pisciava, fumava una sigaretta in cucina, bevevo un bicchiere d’acqua, e tornava a letto, addormentandosi presto beatamente e facendo sogni bellissimi che regolarmente dimenticava al risveglio mattutino.

Quella notte di primo inverno si concesse anche un grappino gelato per togliersi il sapore acre che ancora gli stringeva la gola, dopo essere scampato, per un pelo, agli intenti sodomitici di un diavolo chiamato “Saruzzo” tra i soffioni sulfurei del girone dei lussuriosi.

Mentre accendeva la sigaretta rituale delle duemenounquarto gli venne di pensare com’era cambiato, negli anni, il cast di quei corti-horror che, ormai rassegnato, co-interpretava ogni notte da tempo immemorabile.

Non c’erano più le suocere, ad esempio, e non c’erano più, soprattutto, quei giganti biondi, palestrati e cazzuti che si scopavano sua moglie nei posti più impensati, con particolare predilezione per il bordo-piscina del residence che frequentavano in estate e della farmacia del suo paese d’origine.

“Il fatto è che oggi non sarebbero più incubi!” gli venne di pensare, mentre il gran vuoto che solitamente sentiva tra le gambe, a quell’ora e in quelle circostanze, gli sembrò un po’ meno vuoto.

Ma non ci fece caso.

Spense nel posacenere la mezza sigaretta.

Si alzo, tornò in camera da letto.

Edna aveva un sonno agitato.

Stava a cosce larghe, inarcando la schiena e agitando le mani intorno al ventre, non toccandosi, ma piuttosto cercando nell’aria qualcosa da prendere e portare verso sé.

Qualcosa che non trovava e che la faceva mugolare stizzita.

Era nuda, dalla cintola in giù.

I pantaloni di seta blu penzolavano dal bordo del letto.

Probabilmente li aveva persi scalciando, come spesso faceva quando sentiva troppo caldo, per liberarsi della coperta.

Era uno spettacolo eccitante e, quasi, commovente, vedere quel corpo ancora sodo e bellissimo, ancora velato di una memoria vellutata d’abbronzatura estiva, cercare avidamente una fonte fresca per soddisfare la sua sete.

“E’ la prima vola che la vedo così, che la posso osservare da questa distanza!” – pensò Tito, mentre la luce fioca e radente dell’abat-jour metteva in risalto le curve sensualissime di Edna, che il tempo esaltava, senza in nulla annunciare decadenza.

Avrebbe voluto fotografarla, filmarla, fissare nella memoria quel momento sublime, altre volte avvertito, ma mai da osservatore così privilegiato.

Gli tornò la memoria di altre notti già lontane nel tempo, di risvegli improvvisi.

Lei, in pieno sonno, smaniosa, che cerca con le mani e con ogni piega del corpo una bitta a cui legare le gomene del suo piacere.

E lui pronto ad offrirla, quella bitta, pronto a spogliarla, trovando le sue labbra e la sua lingua, il contatto delle sue tette nude sul suo petto, le sue cosce, liberate dagli impicci, aprirsi, la sua bocca schiudersi ad un sussurro nel preciso momento della penetrazione, un attimo prima di aprire gli occhi e scoprirsi femmina dominatrice nel gioco più bello che la natura abbia saputo creare.

“Tito, Tito, … Tito, quel sussurro ripetuto ad ogni stretta dell’anello vaginale, era solo preludio a lunghe sinfonie di voci, respiri, fruscii e di quel suono, come d’acqua di fonte carezzata in superficie dal dorso d’una mano, che solo due strumenti accordati ed in perfetta empatia riescono ad emettere.

Tito pensò a quante volte, anziché quel sussurro, aveva temuto (o desiderato) udire un altro suono, un altro nome …., magari quello di uno dei biondi protagonisti, insieme ad Edna, dei suoi incubi seriali.

Senza far rumore si spogliò nudo prima di distendersi accanto a Lei, avvicinandosi cauto, fino a farsi trovare dalla Sua luibidine.

E, infatti, la mano destra di Lei lo trovò, gli tastò il petto, gli carezzò l’inguine, gli afferrò il pene, aggiustando prima la presa tra palmo e pollice per, poi, prenderlo in sicura presa stringendo le dita in sequenza, come una saltatrice con l’asta che carica il suo attrezzo prima del salto.

Quella notte, cominciata con Saruzzo, si dipanava e finiva con la prestazione più appagante che Edna gli avesse mai regalato.

Al mattino, mentre rivoltava il colletto sul nodo di cravatta appena rifatto, guardandola stiracchiarsi nel dormiveglia, avrebbe voluto chiederle chi era quel “Paco, Paco, ...Paco” evocato alla prima penetrazione.

Ma lasciò perdere, imboccò il corridoio, prese la borsa di cuoio dalla consolle vicina all’ingresso,uscì, tirandosi dietro piano l’uscio, per non far rumore.

Le avrebbe mandato un cesto di rose rosse, con un bel completino intimo di pizzo grigio in mezzo.

In fondo quell'involto da tanto tempo surgelato nel frigorifero a due ante della loro vita, forse non era, esattamente, amore.

 
 
 

 A Cristina

Post n°3 pubblicato il 29 Agosto 2008 da le_bateaux
Foto di le_bateaux

Niente vorrei sapere di te e del tuo mondo

che non sia la tua pelle a dirlo alla mia.

E se tacesse, pace.

Prenderei per mano i miei pensieri,

li porterei a dormire sotto le stelle

lontano dalle zolle del tuo pianto.

Di questa notte sola

potrei nutrire la mia vita.

Ma, per fortuna,

la pelle tua non tace.

 
 
 

Pomeriggio anni '80

Post n°1 pubblicato il 22 Agosto 2008 da le_bateaux
Foto di le_bateaux

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Paco si affacciò al muretto bianco della terrazza sulla scogliera.

Le ombre s'erano allungate su quasi tutta la spiaggia, lasciando in piena luce solo lo scoglio piatto e il pantanello  che lo circondava, verso la punta ovest della piccola baia.

Istintivamente cercò la figura familiare di Edna, l’unica che popolava quei pomeriggi freschi di fine settembre, coi suoi bikini coloratissimi, vezzosi giù, troppo piccoli su.

Quello di oggi aveva una prevalenza d’azzurro “Positano”, che s’intravedeva appena nella traccia tra le natiche e dal laccetto che sbordava arricciato sotto il seno destro compresso contro la roccia.

Forse una riedizione di luglio, o forse ancora nuovo.

Quanti costumi aveva Edna? Trenta, quaranta, sessanta?

Tra due o tre minuti si sarebbe mossa dal lastrone muschiato, con cautela e cura avrebbe riallacciato il reggiseno, avrebbe raccolto i capelli corvini dentro la cuffia di lattice e sarebbe entrata in acqua per l’ultimo bagno.

Da lì a mezz’ora avrebbe risalito la scaletta, paludata nel suo pareo celeste, ondeggiando la sua grande borsa di paglia.

Quante borse da spiaggia aveva Edna? Una, grande, dipinta a mano con colori all’anilina, ma una.

Sessanta costumi e una borsa.

Quella donna era il grande mistero di quella spiaggia.

“Anche l’unico, in verità!” pensò Paco, mentre finiva di sfregarsi i capelli con il telo di spugna giallo.

Era nudo, dopo la doccia.

Amava quel rituale solitario di primo autunno, dopo sei ore di studio per preparare “Scienza delle costruzioni” all’appello d’ottobre.

I suoi erano rientrati in città da un pezzo, come tutti gli altri villeggianti di quella piccola comunità discreta che si riuniva ogni estate intorno alla Paja verde.

Su quella spiaggia solo lui e Edna, che abitava la grande villa color sabbia insieme alla governante e al vecchio giardiniere-autista-tuttofare.

Il marito chirurgo s’era visto tre o quattro volte in tutta l’estate.

Aveva pescato, aveva “drinkato” sotto il porticato, aveva telefonato a lungo dalla spiaggia con uno di quei nuovi marchingegni senza fili collegati via radio alla centralina interna.

Lei non l’aveva seguito al rientro in città.

Non aveva figli, non aveva un lavoro.

Viveva placidamente la sua esistenza agiata, immune dalle ansie del tempo e, pure, così regolare e ordinata: in fondo i costumi erano l’unico elemento di diversità che faceva distinguere un giorno di Edna da un altro giorno di Edna.

Quante frasi aveva scambiato con Lei, tutta l’estate?

Dieci, quindici?

“Buon giorno! – E’ calda l’acqua, oggi? – Ha visto che bella barca ha ormeggiato al moletto. … ah … è di suo cognato?”

Alle seconde piogge, quelle che ingrigiscono il cielo d’ottobre del Tirreno del sud, sarebbe andata a riportare i suoi mitici trentott’anni dentro le stanze damascate della sua residenza urbana.

Lui avrebbe rimesso i suoi insoddisfatti ventuno nella trebbiatrice sconquassata della “Facoltà”.

Da dietro il muretto, che nascondeva ad Edna e al mare le sue nudità essenziali, Paco la guardò entrare in acqua e dare le prime bracciate, mentre i glutei poco affioranti dall’acqua prendevano il ritmo alternato del suo perfetto stile libero.

Continuò il suo rituale. Allargò sulla sdraio il telo giallo, regalo dell’anno di Marcella, e vi si stese sopra.

Prese una Chesterfield dal pacchetto sopra il tavolinetto di ferro battuto, l’accese, tirò la prima boccata.

Inforcò i rayban, si distese a guardare il tramonto, in asse con la scaletta che dalla terrazza scendeva alla spiaggia.

Pensò a quello che avrebbe fatto da lì a poco.

I “roy rogers” e la camicia bianca erano pronti sul letto, i mocassini di cuoio ben puliti, il portafogli rifornito di fresco con quindicimila lire, la cinquecento benzinaia accortamente lasciata all’ombra del fico grande, Marcella alle sette al Bar della Villa, un paio di birre, la pizza da Aldo.

Seguito con Marcella?. Forse. Eventualmente, dove?

Comunque all’una tutti a nanna, salvo spaghettata!

Era proprio mentre pensava agli spaghetti fumanti immergersi nello scodellone già mezzo pieno d’olio d’oliva all’aglio e peperoncino che avvertì lo strappo di completamento di una superba erezione.

Hermann se ne stava lì, stagliato contro il tramonto, più duro della roccia della scogliera, più dritto di un palo di telegrafo, più grande di quanto non avesse mai sperato nelle sue ancora fresche fantasie adolescenziali.

Chiuse gli occhi per un momento abbastanza lungo da consentirgli di riassaporare al meglio quell’estemporaneo, irrituale trionfo di virilità.

“Gli spaghetti? E’ mai possibile?”

Riaprì gli occhi.

Hermann era ancora lì, come l’aveva spento dieci secondi prima.

Edna era lì, dietro Hermann all’imbocco della scaletta, con il suo due pezzettini azzurro Positano, le cosce e il seno scintillanti di rugiada salmastra. 

Paco ercò d’istinto un lembo del telo giallo (regalo di Marcella) per arrivare, di strappo, ad un improponibile seppellimento a vivo di Hermann, mentre con la sola altra mano d’appoggio guadagnava con fatica e poca dignità motoria una posizione eretta che gli consentì, finalmente, di avvolgere il telo intorno ai fianchi.

“Scusi, signora, non pensavo …. Ho appena fatto la doccia! …  Mi dica …!”

“Mi hanno rubato la borsa, mentre facevo il bagno!. Hai visto qualcuno, qui intorno?”

“No, mi dispiace. L’ho vista entrare in acqua, poi mi sono ritirato. Ma quanto tempo è passato? Aveva denaro, cose di valore?”

“Denaro? No! Cose di valore? Solo un piccolo orologio, e … un pareo di seta. Per fortuna il bracciale lo tengo alla caviglia.”

Alzò il piede all’indietro, ruotando un po’ su se stessa per offrirgli la caviglia scavata, bronzata, nervosa ad una constatazione più diretta dell’effettiva presenza del bracciale d’oro e zaffiri.

“Guardi, mi dia il tempo di vestirmi e facciamo un giro nei dintorni. Magari hanno lasciato la borsa in qualche cespuglio! Le trovo un paio di scarpe?”

“No, meglio di no!”

“Non vuole le scarpe, … non vuole cercare … non vuole sapere se … ?”

“Non voglio che ti rivesti!”

Solo allora Paco notò che Edna teneva con l’indice e medio della sinistra un paio di sandaletti rossi con il tacco a spillo.

Continuò a guardarli mentre li indossava e si avvicinava a lui fino al contatto del suo regisenso bagnato contro il suo petto.

“Torna com’eri, poco fa!” 

Era stordito, tardò a capire.

Fu lei a cingerlo, a slacciargli il telo giallo (regalo di Marcella), ad allargarlo di nuovo sulla sdraio.

Paco si ridiscese a gambe larghe, tenendosi il pacco con la destra. Ma non era un gesto di pudore.

Con due movimenti rapidi lei si slacciò il reggiseno e gli slip le caddero ai piedi come se si fossero improvvisamente arresi.

Scavalcò con una gamba la sdraio, si accosciò, tirò via quella mano di uomo che proteggeva il suo obiettivo, glielo prese con una presa da rovescio e lo ritorse verso il pube completamente rasato.

“Come ti chiami?” Paco, mi pare!”

“Si, Paco, e tu … Edna, mi pare”

Il colpo di reni che le fece scivolare il pene in tutta la sua profondità fu simultaneo alla pronuncia del suo nome.

Poi fu una cavalcata selvaggia e combattuta, di glutei che schiaffeggiavano gonadi, di mani che strizzavano seni, di lingue che sciabolavano di punta e taglio.

L’eruzione, trattenuta a lungo, fu di tipo effusivo, tracimata dagli stantuffi random che Edna volle concedersi dopo un orgasmo lungo quanto una sinfonia.

Si ritrasse, prese un lembo del telo giallo (regalo di Marcella), lo strinse tra le cosce, versandovi sopra gli umori di pesca settembrina che sgorgavano dal suo ventre.

Poi si alzò, come presa da un’improvvisa felicità, gettò all’aria prima uno, poi l’altro sandaletto.

Con una corsetta che le fece sobbalzare tre o quattro volte i seni grandi e, tuttavia, turgidi, si gettò sotto la doccia che stava sulla piazzola più protetta della terrazza, sotto la roccia rossa, e girò la maniglia dell’acqua.

Il telefono del soggiorno squillò.

Ancora nudo e bagnato di Lei Paco si alzò per rispondere.

“Scusami amore, non posso venire! E’ arrivata la Zia Teresa da Verona! Ci vediamo domani!”

Mentre cercava di apparire dispiaciuto e, tuttavia, rassegnato, dalla grande vetrata guardava Edna, nuda, ancora sotto la doccia.

La raggiunse, pronto per un secondo assalto.

In un’attimo il Sole sparò l’ultimo raggio sul muretto bianco e Lei, d’improvviso, si ritrasse, lasciandolo solo sotto l’acqua ormai gelata.

Andò a raccogliere il suo bikini azzurro Positano, lo indossò in un mondo diverso e distante, saturo di silenzi e di oblii.

Nel suo, Paco tornò ad avvolgersi nel telo giallo (regalo di Marcella) e, da un tempo e da un luogo molto lontani, gli sembrò di vedere una donna estranea e mezzo nuda con un paio di sandaletti rossi in mano, rivolgergli un sorriso ed accennare un saluto a mano aperta.

Rispose al saluto quando lei già gli voltava le spalle.

Indossò un paio di bermuda che aveva negligentemente lasciato su una sedia il giorno prima.

Il vento della sera si alzava, spiumandogli sulla pelle afrori di alghe fermentate muschi.

Si accese un'altra Chesterfield, tornò ad affacciarsi al muretto.

Edna era lì, tra le luci di cortesia dell’ultima rampa di scaletta verso la grande villa color sabbia, il suo top azzurro Positano, i suoi sandali rossi in mano, il suo pareo celeste.

Saliva gli ultimi gradini ondeggiando la sua grande borsa di paglia dipinta all’anilina.        

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 
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