ONE MAN TELENOVELA
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Quella troia e quel negro di merda
Post n°887 pubblicato il 31 Maggio 2010 da molinaro
Prendiamo due strofe di una bella e importante canzone di Giorgio Gaber (e di Sandro Luporini: citiamoli sempre tutti, gli autori delle cose), Un'idea, del 1974. La prima strofa dice: «In Virginia il signor Brown / era l'uomo più antirazzista. / Un giorno sua figlia sposò / un uomo di colore. / Lui disse: "Bene". / Ma non era di buon umore». La seconda strofa dice: «Il mio amico voleva impostare / la famiglia in un modo nuovo / e disse alla moglie: / "Se vuoi, mi puoi anche tradire". / Lei lo tradì: / lui non riusciva più a dormire». L'antirazzismo e il libero amore erano fra le strutture portanti del Sessantotto e più in generale dei movimenti di liberazione di quel periodo e dei periodi successivi. Erano idee. Ma le idee - come Gaber, in modo lungimirante, cantava - se restano idee, se non entrano nella pelle, nelle viscere, non cambiano la storia: restano in superficie e poi scivolano via. Ma come fa un'idea a entrare nella pelle, nelle viscere? Secondo il mio modesto parere, farcela entrare è un atto della volontà che implica un paziente e costante lavoro. Ma, prima, occorre decidere che quell'idea è buona: che quell'idea produce un mondo migliore, per me, per te, per tutti. E allora, una volta deciso questo, si lavora su sé stessi per assimilarla. Perché, se è un'idea nuova, è ovvio che non può essere già assimilata, interiorizzata: è ovvio che l'impronta che abbiamo dentro è diversa, è antica. La canzone di Gaber ha numerose strofe: ho scelto quelle due perché mi sembrano indicative di un diverso destino di due diverse idee. Antirazzismo e libero amore. Il punto di partenza è identico. Nella Vercelli della metà degli anni Sessanta, in cui ero ragazzino, la popolazione di colore ammontava precisamente a zero. Gli immigrati erano i (pochi) «terroni» (campani, siciliani), guardati con sommo disprezzo perché, si diceva per esempio, usavano la vasca da bagno non per lavarsi ma per coltivare pomodori in casa. I neri li potevi vedere solo sui libri; e sui libri di scuola erano perlopiù raffigurati seminudi, un po' storti e con un osso conficcato di traverso nel naso. Ecco: quelli erano i neri, o meglio i negri, perché allora si chiamavano così: e abitavano in Africa con le scimmie. Credo di aver visto per la prima volta un nero «dal vivo» a Torino, quando mi ci sono trasferito per studio. Ma erano rarissimi anche a Torino. In quelle condizioni (assenza nella realtà e deformazione dell'immagine nei libri) considerare i neri «uomini come noi» era ridicolo, era impossibile. L'impronta viscerale era: negri=scimmie. L'idea antirazzista muoveva i suoi primi passi, ma era proprio solo un'astrattissima idea. Antirazzismo e libero amore. Il punto di partenza è identico. Nella Vercelli della metà degli anni Sessanta, in cui ero ragazzino, ricordo che la fidanzatina di un amico era considerata una troia perché, pur conservandosi rigorosamente vergine, si faceva baciare i capezzoli: da lui, dal fidanzato, mica da altri. Bastava quello: lussuriosa, quindicenne puttana. Figuriamoci cos'era quella che faceva l'amore completamente, prima del matrimonio. Figuriamoci quella che lo faceva con più di uno. L'impronta viscerale era: donna+sesso=troia. Per la ragazza perbene il sesso non deve esistere. L'idea del libero amore muoveva i suoi primi passi, ma era proprio solo un'astrattissima idea. Ora: non dico a tredici, non dico a quattordici, ma sicuramente già a sedici anni io avevo deciso che antirazzismo e libero amore erano idee ottime, entrambe. L'avevo deciso a fatica, contro l'ambiente in cui vivevo e soprattutto contro me stesso, contro l'impronta che avevo dentro. Non è una cosa facile trasportare un'idea nelle viscere. Gaber è un grande, per come lo capiva già allora. Ma se (e sottolineo «se») si è convinti che l'idea è buona e giusta, conviene pur farla, questa fatica, no? E man mano che si interiorizza e si assimila il nuovo, le successive generazioni dovrebbero trovarsi stampata dentro un'impronta vecchia più piccola contro cui combattere (mi riferisco in questo caso all'impronta razzista e maschilista-sessuofoba), e quindi dovrebbero poter partire da «più avanti», e arrivare più avanti. Ma è accaduto, questo, o è stata tutta una finta? Personalmente, dopo quarant'anni di lavoro su me stesso, oggi posso dire di trovarmi a mio agio con un nero, o con persone di qualsiasi altra origine etnica. E posso dire di non provare davvero nessun fastidio se la mia fidanzata o compagna fa l'amore con altri, né se mia figlia, poniamo, fa la spogliarellista. Ma non sono nato così. È il frutto di un lavoro incessante. Un lavoro che ho fatto perché ho creduto che un mondo dove tutti si è ugualmente uomini e donne e non conta il colore della pelle sia migliore di un mondo razzista. Un lavoro che ho fatto perché ho creduto che un mondo dove tutti, uomini e donne, sono liberi di disporre del proprio corpo e di fare l'amore con chi e con quanti vogliono, sempre, sia migliore di un mondo di oppressioni, divieti, possessi e gelosie. Ho smontato pian piano, ma costantemente, l'uomo razzista e geloso che «ovviamente» ero, per nascita. Così ho fatto io e sono contento di averlo fatto. Ma la gente, oggi, com'è? Chi altri ha fatto il lavoro che ho fatto io? Chi altri ha creduto in quelle idee e le ha amalgamate nelle proprie viscere? Non so. Forse le cose non sono andate così bene in questi quarant'anni... Ho scritto prima: un diverso destino di due diverse idee, antirazzismo e libero amore. Diverso destino perché l'antirazzismo sembra (sembra!) un valore acquisito, e il libero amore proprio no. Peccato, perché al libero amore ci tenevo tanto: sono una gran menata le gelosie, i possessi, le oppressioni. Mi piange il cuore quando sento ragazzi che mollano la ragazza perché bacia un altro, o che non si metterebbero mai con quella là perché ha scopato con tutta la scuola, o che spettegolano come vecchie comari sulla tipa che ha fatto così e cosà, o che scrivono in rete che una è una troia perché fa le foto nuda, eccetera. Lo trovo di una tristezza incommensurabile. E poi mi domando un'altra cosa. A differenza del libero amore, che nelle istituzioni pedagogiche non ha mai trovato spazio, l'antirazzismo è suggerito (forse imposto?) dalla scuola e da alcune famiglie (non tutte). Essere razzisti è una cosa che non sta tanto bene, magari espone a critiche, va contro il politicamente corretto. È da nascondere. Essere gelosi, schiavizzare le fidanzate, considerare troie le modelle, invece non espone a grossi rischi, anzi spesso raccoglie consensi anche presso i (pessimi) educatori nelle scuole e nei dintorni. Lo si può professare liberamente. E allora mi viene il dubbio che anche l'antirazzismo sia rimasto privo di lavoro e di interiorizzazione, fragile inutile idea. E che nelle viscere del ragazzino alberghi tranquillo e incontrastato, accanto a «quella troia», anche (solo un po' più nascosto) «quel negro di merda». Brutta faccenda, ragazzi. Brutta faccenda. Anzi, due brutte faccende. |
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