藤の実は俳諧にせん花の跡 fuji no mi wa / haikai ni sen / hana no ato Bacelli di glicini / come trama delle nostre poesie / dopo i fiori (Basho)
Ciascuno ha la propria natura, per quanto l’essere umano sia un animale sociale, ogni persona ha propensione più o meno spinta al contatto con gli altri. Si va dagli estremi di coloro che vivono di quotidiane intense relazioni a quelli che per scelta di vita le limitano il più possibile; io comprendo molto meglio quest’ultimo anelito rispetto al precedente, pur non avendo abbracciata l’esperienza estrema della navigazione in solitario che è la forma più sportiva dell’eremitaggio. Non sono quindi un animale del tutto monastico, ho una schiera limitata di pochi fidati amici che, capaci di amarmi per come sono, trovano il tempo e la misura più efficace per la reciproca frequentazione. Eppure non soffro di solitudine, il canto della natura è un palcoscenico capace di farmi sentire parte di un coro immensamente grande. Ci pensavo con grata intensità in questi giorni ricchi di florilegi soprattutto, ai miei occhi, quelli dei glicini. L’origine di questo rispetto trae radice dalla mia esperienza di buddismo Jodo Shinshu (o Buddhismo Shin). L’immagine è quella dei rami e dei grappoli che pendono verso il basso in piena fioritura abbassando il capo umili come in un inchino, in questo modo offrono una supplica garbata al Buddha, così come l’uomo quando trova la pace interiore si raccoglie per onorare l'Entità superna. Il fiore del glicine è simbolo di semplice luminosità e della caducità dell’esistenza, ma anche di tenacia: nel suo breve fiorire racconta che tutto muta continuamente, paradigma della vita stessa, invitando ad apprezzare appieno l'eternità in ogni istante con dedizione. Da ciò si trae l’insegnamento che un essere umano non deve cadere nell’arroganza per emergere, ma piuttosto provare e dimostrare gratitudine. Tutti sono uguali agli occhi del Buddha, per il quale non è necessario pregare, ma è sufficiente avere fede. Nella leggenda giapponese il glicine è impersonato da una ragazza timida, romantica e travagliata da delusioni d’amore alle quali resiste con caparbietà; è divenuta una celeberrima figura nel balletto classico giapponese Fuji Musume (La Nubile del Glicine):un capolavoro del teatro Kabuki. Rappresentato per la prima volta nel 1826 in una sequenza di cinque danze, è tuttora uno degli spettacoli di maggiore richiamo per coreografia e raffinatezza. La storia si svolge nella città di Otsu, affacciata sul Lago Biwa, vicino a Kyoto, un passante si sofferma a osservare uno degli innumerevoli dipinti esposti chiamati Otsu-e venduti come souvenir. Su questo quadro è dipinta una Ragazza, che rappresenta l’essenza del Glicine: è abbigliata alla moda, con uno stravagante kimono (Nagasode) con le maniche lunghe e con la fascia (Obi) che da tradizione riprende l’immagine del fiore. La Ragazza ritratta si infatua a tal punto dell'uomo che la guarda attentamente da prendere vita ed uscire fuori dalla tela. Scrive lettere d’amore senza ottenere riscontro e, danzando sotto un glicine frondoso, con un ramo in mano, esprime i sentimenti profondi che prova per l’amore non corrisposto, accompagnata dalla musica Nagauta (canto a lungo). Triste e disperata, rientra affranta dentro al dipinto, sotto al glicine, alla fine del balletto. Il pianto della Ragazza esprime il dolore che prova, il glicine diventa il fiore dell’amore perduto, che non recede, rappresenta anche la straordinaria resistenza come vitigno, in grado di vivere e di prosperare anche in condizioni difficili, così come il cuore ha la capacità di resistere nonostante sia provato per un amore difficile. Fuji Musume ha ispirato una fiorente produzione artistica in Giappone, comprese bambole, statuine e dipinti venduti come portafortuna per i matrimoni ed è lo stesso augurio che la Primavera tenace formula a tutti coloro che vivono la vita con cuore palpitante. Sayonara
Questi fiori conosco e sono davvero molto belli, scendono giù come la cascata fiorita.Non conoscevo la leggenda giapponese ... non sapevo che sono il simbolo dell'amore non corisposto.Penso che tutti hanno avuto questa esperienza dolorosa, quando ami e non sei amato/a.Grazie a Te da adesso ogni volta che guarderò questi fiori ... penserò alla ragazza del francobollo...un abbraccio domenicale - norma
Quanto più spesso ricordiamo di essere parte della Natura tanto meglio scopriamo elementi che portano serenità. Spesso cerchiamo simboli per ogni cosa e così ci sono le Viole del Pensiero o i papaveri per la memoria dei caduti in guerra, ci sono rose gialle o fresie. Nell'alternarsi delle fioriture passano anche le nostre storie umane. Resta soprattutto la meraviglia di questo incontro con forme di vita colorata che sanno portare la tinta delle loro vite dentro al nostro cuore.
Buona Primavera :)
In silenzio e solitudine, osservo il lillà dei tuoi glicini e ne respiro la fresca purezza della loro nascita. Un veloce ma sentito saluto primaverile, ;-)
... e intanto era Aprile,
e il glicine era qui, a rifiorire…
Prepotente, feroce
rinasci, e di colpo, in una notte, copri
un intera parete appena alzata, il muro
principesco di un ocra
screpolato al nuovo sole che lo cuoce…
E basti tu, col tuo profumo, oscuro,
caduco rampicante, a farmi puro
di storia come un verme, come un monaco:
e non lo voglio, mi rivolto – arido
nella mia nuova rabbia,
a puntellare lo scrostato intonaco
del mio nuovo edificio.
…
Tu che brutale ritorni,
non ringiovanito, ma addirittura rinato,
furia della natura, dolcissima,
mi stronchi uomo già stroncato
da una serie di miserabili giorni,
ti sporgi sopra i miei riaperti abissi,
profumi vergine sul mio eclissi,
antica sensualità …
(P.P. Pasolini da “La religione del mio tempo”)
Bisogna essere molto forti
per amare la solitudine; bisogna avere buone gambe
e una resistenza fuori dal comune; non si deve rischiare
raffreddore, influenza e mal di gola; non si devono temere
rapinatori o assassini; se tocca camminare
per tutto il pomeriggio o magari per tutta la sera
bisogna saperlo fare senza accorgersene; da sedersi non c’è;
specie d’inverno; col vento che tira sull’erba bagnata,
e coi pietroni tra l’immondizia umidi e fangosi;
non c’è proprio nessun conforto, su ciò non c’è dubbio,
oltre a quello di avere davanti tutto un giorno e una notte
senza doveri o limiti di qualsiasi genere.
Il sesso è un pretesto. Per quanti siano gli incontri
- e anche d’inverno, per le strade abbandonate al vento,
tra le distese d’immondizia contro i palazzi lontani,
essi sono molti – non sono che momenti della solitudine;
più caldo e vivo è il corpo gentile
che unge di seme e se ne va,
più freddo e mortale è intorno il diletto deserto;
è esso che riempie di gioia, come un vento miracoloso,
non il sorriso innocente, o la torbida prepotenza
di chi poi se ne va; egli si porta dietro una giovinezza
enormemente giovane; e in questo è disumano,
perché non lascia tracce, o meglio, lascia solo una traccia
che è sempre la stessa in tutte le stagioni.
Un ragazzo ai suoi primi amori
altro non è che la fecondità del mondo.
E’ il mondo così arriva con lui; appare e scompare,
come una forma che muta. Restano intatte tutte le cose,
e tu potrai percorrere mezza città, non lo ritroverai più;
l’atto è compiuto, la sua ripetizione è un rito. Dunque
la solitudine è ancora più grande se una folla intera
attende il suo turno: cresce infatti il numero delle sparizioni –
l’andarsene è fuggire – e il seguente incombe sul presente
come un dovere, un sacrificio da compiere alla voglia di morte.
Invecchiando, però, la stanchezza comincia a farsi sentire,
specie nel momento in cui è appena passata l’ora di cena,
e per te non è mutato niente: allora per un soffio non urli o piangi;
e ciò sarebbe enorme se non fosse appunto solo stanchezza,
e forse un po’ di fame. Enorme, perché vorrebbe dire
che il tuo desiderio di solitudine non potrebbe essere più soddisfatto
e allora cosa ti aspetta, se ciò che non è considerato solitudine
è la solitudine vera, quella che non puoi accettare?
Non c’é cena o pranzo o soddisfazione del mondo,
che valga una camminata senza fine per le strade povere
dove bisogna essere disgraziati e forti, fratelli dei cani.
(P.P. Pasolini – La Solitudine)