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Post n°494 pubblicato il 15 Settembre 2015 da fragolozza
 

Ho provato non poco fastidio leggendo questo articolo di Umberto Eco, sulla correlazione tra il corretto uso del vasto corredo pronominale di cui la lingua italiana si pregia e la salvaguardia dell'identità culturale nazionale, intesa non solo come bagaglio nozionistico, ma anche come espressione e manifestazione di valori, a mio avviso, indotti ma anche innati, quali educazione e rispetto verso l'altro. 

Ammiro chi è in grado di argomentare in modo valido tesi che non accetto o non condivido, ma inevitabilmente mi rifiuto di supportare tesi, anche fondate, quando l'argomentazione ordita appannaggio è tanto sgradevole da sembrare non avere fondamento alcuno; per questo, sebbene io tenda a trattenere le opinioni, a conservarle, a lasciarle maturare, a non spararle, a collezionarle e poi montarle, incastonarle, in quel punto di vista che è mio e mio soltanto, a fronte delle dichiarazioni di Umberto Eco non ce l'ho fatta a trattenermi. 

Che in Italia rivolgersi ad un estraneo sia un'impresa complessa e ardita, data la possibilità di scelta tra il tu, il voi, il lei, il lui, sua altezza e sua eminenza, è noto in tutti gli angoli del globo ( e penso sia uno dei non trascurabili motivi per cui gli stranieri non siano ansiosi di impararlo) e Umberto Eco ne parla dettagliatamente, facendo riferimenti a Dante, al Rinascimento, a Manzoni, al Fascismo e persino a suo padre. Dopodiché, descrive un episodio. 

[…] in un emporio mi sono visto (io allora quasi ottantenne e con barba bianca) trattato col Tu da una sedicenne col piercing al naso (che non aveva probabilmente mai conosciuto altro pronome personale), la quale è entrata gradatamente in crisi solo quando io ho interagito con espressioni quali “gentile signorina, come Ella mi dice...” De- ve aver creduto che provenissi da Elisa di Rivombrosa , tanto mondo reale e mondo virtuale si erano fusi ai suoi occhi, e ha terminato il rapporto con un “buona giornata” invece di “ciao”, come dicono gli albanesi [...].

Questo è l'episodio, narrato da Eco, secondo il suo punto di vista. Quello che, però, mi arriva non è la lecita manifestazione di dissenso a fronte del degrado nel costume e nel registro linguistico adolescenziale, quanto piuttosto una sontuosa manifestazione di boria da parte di una persona piccata, per l'uso sacrilego nei suoi confronti del pronome personale "Tu", da parte di una ragazza con il piercing (forse un anello) al naso; una manifestazione di hybris da parte di un professore che, anziché vantarsi a posteriori, di quanto fosse stato capace di mettere in difficoltà una sedicenne, se proprio riteneva l'uso della seconda persona tanto inadatto al suo indirizzo, avrebbe potuto correggerla, darle una spiegazione. Sia mai che nello stesso emporio non capiti un giorno un'altra persona di immensa caratura e la ragazza persista nel suo atteggiamento inappropriato (tipo una visita del Papa cui rischierebbe di rivolgersi, dicendo: "Cia' France'!")

Per restituirle la dignità che, a mio avviso, Umberto Eco le ha tolto, ho provato ad immaginare la stessa situazione, ma dal punto di vista della sedicenne.

"Oggi le mie amiche andavano in piscina. Un po' le invidio, perché mi piacerebbe, qualche volta, riuscire a prendermi un giorno libero e trascorrere questi giorni d'estate come li trascorre la maggior parte dei ragazzi della mia età. Ma ho promesso ai miei che avrei dato loro una mano. La situazione a casa è sempre più critica da quando papà ha perso il lavoro. Probabilmente questo inverno lascerò la scuola. Mi dispiace, ma se la signora, dopo le vacanze, dovesse avere ancora bisogno di me, non ci penserei due volte. In generale, mi piace lavorare in negozio e, anche se sono ancora un po' impacciata, i clienti sono sempre gentili con me. Beh...non proprio tutti. Stamattina, ad esempio, mi è capitato di dover servire l'uomo più antipatico del mondo. Aveva un'aria burbera e stanca, un'aria severa ed ho cercato di essere cortese, facendogli un sorriso gigante e mettendolo a suo agio, proprio come mi ha insegnato la signora. I clienti hanno sempre ragione ed io devo farli sentire come fossero benvenuti, a casa loro. È proprio quello che ho provato a fare, ma quell'uomo mi ha guardata come fossi un insetto e per aumentare la distanza, ha cominciato ad usare parole antiche, frasi che neppure in Elisa di Rivombrosa, che nemmeno ho mai visto, utilizzerebbero. Mi sono sentita impotente. Avevo l'impressione che si stesse prendendo gioco di me, ma non potevo farci nulla, perché il cliente è sacro. Alla fine, quando stava per andarsene, gli ho augurato una buona giornata e l'ho fatto sinceramente, non come semplice saluto. Perché io sarò pure piena di problemi, ma lui secondo me, veramente mai una gioia!"

Prima di andare oltre, ho bisogno di fare una piccola divagazione personale.

Qualche giorno fa, in un negozio di scarpe, nel mentre curiosavo tra gli scaffali, la commessa mi si è avvicinata e mi ha chiesto: "Qual è o seu nome?"

In Brasile, quando vi chiedono il nome, che sia per strada, in un negozio, in un ufficio o in uno studio medico, non intendono, come in Italia, il cognome, nè il nome e cognome, tantomeno il titolo attribuibile alla professione svolta. Intendono semplicemente il nome, quello di battesimo, e, se la situazitone non esige particolare formalità, va bene anche un nomignolo, un soprannome, uno pseudonimo. E, ovviamente, vi si dà del tu, anzi del você, che non è un tu, non è un lei, e letteralmente non è neanche un voi. È semplicemente você. E che siate giovani o vecchi, nobili o pezzenti, letterati o emeriti ignoranti, non fa differenza. In Brasile, per chi non vi conosce, siete semplicemente dei você. 

A Umberto Eco, probabilmente prenderebbe un colpo apoplettico. E non solo a lui. Penso a tante teste di cavolo italiane, intitolate in vari modi, ma principalmente dottori. "A bella! O nome? Chi te la dà tutta 'sta confidenza. Io so' Dottore! " 

Perché il popolo italiano è un popolo di santi, poeti e navigatori, ma soprattutto è il popolo del "Lei non sa chi sono io", dell'"Io chi sono, tu chi sei." 

E persino Umberto Eco lo sa bene. 

"Ho sperimentato con studenti stranieri, anche bravissimi, in visita all’Italia con l’Erasmus, che dopo avere avuto una conversazione nel mio ufficio, nel corso della quale mi chiamavano Professore, poi si accomiatavano dicendo Ciao. Mi è parso giusto spiegargli che da noi si dice Ciao agli amici a cui si da del Tu, ma a coloro a cui si da del Lei si dice Buongiorno, Arrivederci e cose del genere. Ne erano rimasti stupiti perché ormai all’estero si dice Ciao così come si dice Cincin ai brindisi. Se è difficile spiegare certe cose a uno studente Erasmus immaginate cosa accade con un extra-comunitario. Essi usano il Tu con tutti, anche quando se la cavano abbastanza con l’italiano senza usare i verbi all’infinito. Nessuno si prende cura degli extracomunitari appena arrivati per insegnare loro a usare correttamente il Tu e il Lei, anche se usando indistintamente il Tu essi si qualificano subito come linguisticamente e culturalmente limitati, impongono a noi di trattarli egualmente con il Tu (difficile dire Ella a un nero che tenta di venderti un parapioggia) evocando il ricordo del terribile “zi badrone”. Ecco come pertanto i pronomi d’allocuzione hanno a che fare con l’apprendimento e la memoria culturale."

Io avrei menzionato pure le caprette di Heidi, perché anche loro (anzi elle...o esse?!) fanno ciao, ma in effetti sono svizzere, quindi extracomunitarie, come gli albanesi e gli africani.

Spero che dopo tutto questo sproloquio risulti comunque chiaro che anche a me, e ci mancherebbe altro, sta a cuore la salvaguardia e la tutela del patrimonio linguistico e culturale italiano, allo stesso modo in cui mi stanno a cuore l'educazione ed il rispetto. Ma il rispetto non ha nulla in comune con la riverenza e quest'ultima, quando richiesta, quando pretesa e non ispirata, è odiosa. Io, per prima, so che ci rimarrei male se ai miei genitori qualcuno si rivolgesse sgradevolmente. Ma non credo che un "tu", rivolto col sorriso, educato e familiare sia da considerarsi motivo di offesa o insulto. Tanto più quando a pronunciarlo è un adolescente, intriso di concetti di uguaglianza e pace, o uno straniero cui piacerebbe sentirsi solo un po' più a casa.

 
 
 
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Sai contare al contrario, partendo
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Sotto l’arco
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Me stessa, quell’altra o la stessa
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Per capriccio
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