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LeCoccinelleVolano

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***domenica_mattina***

Post n°513 pubblicato il 19 Aprile 2016 da fragolozza
 

Da un paio di mesi, ho preso l'abitudine, ogni domenica mattina, di indossare tuta e scarpette ed uscire di casa. 

L'intenzione iniziale era quella di dedicarmi alla corsa, ma, dopo un primo tentativo miseramente fallito, causa dieci minuti di pausa ogni dieci metri di corsa per imminente collasso polmonare, ho capito che sarebbe stato ben più sano e produttivo dedicarmi ad un'innocua passeggiata veloce. 

La strada in cui vivo è un avenida lunga un chilometro e mezzo, che nei giorni festivi viene chiusa al traffico e si popola di genitori, bimbi, nonni, zii, parenti, amici, coppie, single e cani in quantità. In mezzo ad una folla del genere, mi viene facile occultare le mie improbabili doti atletiche che, dopo una fase di fulgida ostentazione nelle aule di zumba, scaduto e non rinnovato l'abbonamento in palestra, si sono riconfigurate nel loro assetto originale che è molto prossimo all'inesistenza. 

Alla fine dell'avenida, dopo una salita abbastanza impervia, c'è un lago artificiale, circondato da una pista lunga ottocento metri.  

Fare tre giri e sommare il percorso di andata e ritorno da casa, equivale a rientrare con un bottino di circa cinque chilometri di camminata all'attivo, il che mi basta per  illudermi di essere una gran sportiva, un po' come quando casualmente mi infilo i jeans di mio marito e per due secondi mi illudo beatamente di essere dimagrita un sacco.

Ieri, arrivata al lago, le cui sponde sono sempre popolate di pescatori, passeri e cicogne, ho notato, sotto una macchia di salici piangenti, un gruppo di strani animaletti. Accecata dal sole, li avevo scambiati per cinghiali e, poiché uno dei miei incubi peggiori è essere divorata dai cinghiali come Mason Verger, stavo per battere in ritirata. Poi però ho visto che persino i bambini si avvicinavano a guardarli e, avvicinatami a mia volta, ho constatato che erano maiali.

In realtà, non è che i maiali mi infodano più fiducia dei cinghiali. Il dubbio che mi notassero, mi riconoscessero e decidessero di farmi fare la stessa fine che io propino ai loro amici tutte le volte che entro da Bacon Paradise (che è un locale il cui menù vanta persino il gelato alla pancetta), quando hanno cominciato a grufolare, mi è sorto. 

Ad ogni modo, poiché in fatto di maiali non c'è rischio che mi trattenga, ho alzato il volume delle Sugababes ed ho continuato il mio giro sul lago. 

Al secondo passaggio nei pressi dei maiali, essendo ormai quasi certa che fossero innocui, mi sono persino azzardata a scattargli qualche foto.

Al terzo passaggio nei pressi dei maiali, ho addirittura pensato che sarebbe stato carino farmici un selfie, che, poiché non avevo intenzione di avvicinarmi troppo e contemporaneamente il sole mi oscurava lo schermo, è venuto uno schifo.

Al quarto passaggio nei pressi dei maiali, avrei ritentato il selfie, ma si erano infrattati all'ombra e quindi niente.

Al quinto passaggio nei pressi dei maiali, ho realizzato che, con la scusa dei maiali, avevo già fatto cinque giri del lago. E stavo ritentando il selfie, che sarebbe comunque venuto uno schifo, quando mi ha chiamata mio marito.

- Ma dove sei?

- Sono al lago.

- Ancora?

- Sì, perché ho incontrato un gruppo di maiali!

- I maiali?

- Sì! Sono bellissimi, mi vieni a scattare una foto che da sola non riesco?

- Coi maiali?

- Perché che c'è di strano? 

 
 
 

***perfect***

Post n°512 pubblicato il 15 Aprile 2016 da fragolozza
 

Al risveglio, dura un paio di minuti la sensazione di essere così vicina a come vorrei essere e completamente dimentica di chi invece dovrei essere. Giusto il tempo di canticchiare con gioia Perfect degli Smashing Pumpkins, almeno fino allo specchio, dove poi scopro che di perfect non resta proprio niente e che sono molto più vicina a quanto non vorrei essere di quanto sia mai stata lontana da quello che io stessa mi impedivo di essere. 

Ma almeno sono veloce, nello scatto di cinquanta metri per raggiungere l'autobus che è già in partenza alla fermata, e sufficientemente commiserevole, nell'implorare a gesti l'autista di riaprire le porte e lasciarmi salire. 

Il resto è un malinteso in linea con tutto il resto.

- Buongiorno, avevo un appuntamento. Forse sono un po' in anticipo?

E guardo l'orologio che segna le otto e cinque. 

- A che ora aveva l'appuntamento? 

- Alle otto e mezza, ma posso aspettare. 

- No guardi che c'è un errore perché a quest'ora non ci sono appuntamenti e il suo è per le undici e mezza.

- Ma ieri al telefono...

- Le ho detto alle undici e mezza.

- Ed io le ho ripetuto otto e mezza.

Poi realizzo che quando parlo portoghese, ho ancora la cadenza strascicata di un bancarellista dei quartieri spagnoli ed è facile che confonda oito con onze. Perciò chiedo scusa, mi maledico internamente, infilò la porta e torno giù per strada. 

Un edificio attira la mia attenzione e rimango una decina di minuti nei pressi, perché l'insegna fa rima col mio nome. 

(Santa Maria - centro de atenção em psiquiatria) 

 
 
 

***simpatia***

Post n°511 pubblicato il 14 Aprile 2016 da fragolozza
 

- Chi ti chiede come stai e a te non va di dirlo e, allora, temporeggi, scoprendo che, al contrario, come stai si pronuncia iats emoc e sembra così tanto una bestemmia in napoletano che potresti quasi coniarla e usarla all'occorrenza. 

- Chi ti chiede se ci sono novità, quasi si aspettasse da parte tua una risposta da edizione straordinaria, e poi ti ascolta con lo stesso disinteresse con cui si sfoglia la copia di un quotidiano gratuito vecchio di due giorni.

- I ti voglio bene di circostanza, privi di qualunque grazia, sparati nei silenzi e nelle pause di un dialogo cui non si ha più nulla da aggiungere, ma che per amor di chiosa, animeresti sul finale giocandoti il colpo di scena del "buon per te, perché io non ti voglio bene affatto".

- I buongiorno, i buona notte, i buon fine settimana ed ogni santissimo buon qualcosa che a te non frega niente, perché non sono certo gli auguri, tanto più se di sola forma, a determinare la bontà dei giorni.

- I com'è il tempo, che ore sono, che hai mangiato, che fai di bello, e la replica del che cazzo vuoi che ti sale dritta dallo stomaco alla gola, come la saliva di quei vecchi che, non importa chi li sta guardando, risucchiano forte e sputano.

C'è chi la chiama simpatia, io la chiamo ipocrisia. E a volte davvero non so che farmene.

 
 
 

***Acronici***

Post n°510 pubblicato il 12 Aprile 2016 da fragolozza
 

Non puoi avercelo presente, se non l'hai passato, ma, se anche tu lo avessi passato, sarebbe comunque il tuo passato, quello così distante dal mio da impedire ogni facile illusione e presunzione che tu possa aver presente il mio presente, che di presente ha solo il nome, dal momento che, avendolo io già passato, ormai lo consideravo trapassato. 

Arrendiamoci, perciò, di fronte all'esclusività del nostro singolo vissuto, che pur vissuto non singolarmente, ci rende singolari quel tanto che basta a non essere mai pari nel conto delle cose da rivedere, del dare e dell'avere. Tanto lo sai che non saremo mai abbastanza simpatici, simpatetici o empatici da averci presenti.

Posti l'uno di fronte all'altro, sdraiati sul fianco e malinconici,  rimarremmo comunque acronici.

 
 
 

***la_lotteria***

Post n°509 pubblicato il 06 Aprile 2016 da fragolozza
 

Messaggio: Ciao carissima!
(Pensiero: Ma chi sei? Ma che vuoi?)
Risposta: Carissimo! Ciao! Come stai?

Messaggio: Bene, cara! Come sai mi diverto nei lavori di artigianato.
(Pensiero: Ah, sì? Veramente a stento so come ti chiami...)
Risposta: Vero! Mi ricordo!

Messaggio: Infatti colgo l'occasione per salutarti e coinvolgerti senza impegno in una lotteria che in tanti volevano io facessi.
(Pensiero: Che culo!)
Risposta: Interessante! Di che si tratta?

Messaggio: Un comodino in legno di pino. Perfetto per ogni stanza, bagno, corridoio o camera da letto. Volendo si può usare anche come tavolino. Leggero, ma estremamente robusto.
(Pensiero: e sticazzi non li aggiungi?)
Risposta: Sarà sicuramente bellissimo!

Messaggio: Con soli 5€ puoi acquistare la possibilità che sia tuo.
(Pensiero: Guarda, ce li ho proprio che mi avanzano!)
Risposta: Caro, mi piacerebbe tanto, anzi tantissimo, ma lo sai, no, che non vivo più in Italia.

Messaggio: Per questo non ci sono problemi. Ti invio le coordinate e puoi farmi tranquillamente un bonifico.
(Pensiero: Un bonifico? Per cinque euro? Per una lotteria? Per vincere un comodino?)
Risposta: Ah, bene! Ma, piuttosto, se vinco, poi come faccio a ritirare il premio?

Messaggio: Questo non è un problema. Anzi, se vuoi/puoi, fai partecipare anche i tuoi parenti.
(Pensiero: Creerò un gruppo su WhatsApp apposta per invitarli, guarda.)
Risposta: Ma certo! Conosco tante persone a cui piacerebbe partecipare.

Messaggio: Auguro un in bocca al lupo a tutti voi. L'estrazione dovrebbe esserci il 12 giugno, ma sarò più preciso prima di tale data. Ciao ciao!
(Pensiero: mavafancul)
Risposta: Ciao a te!

 

 
 
 

***porte***

Post n°508 pubblicato il 04 Aprile 2016 da fragolozza
 

Sono la prima. Lo sono quasi sempre per l'abitudine di arrivare da qualunque parte con almeno un paio d'ore d'anticipo. Non che mi piaccia aspettare, ma aspettarsi qualcosa è meglio che rischiare di perderselo, non trovi?

La ragazza alla reception mi ha detto che subito dopo la perizia mi comunicheranno se l'autorizzazione verrà concessa. È il motivo per cui tengo incrociate le dita delle mani e dei piedi, le braccia, le gambe, i legamenti e le arcate dentali. È il motivo per cui  mi stropiccio gli occhi, i capelli e i vestiti. 

Nel frattempo, arrivano altre donne e occupano alcune delle sedie in fila lungo il corridoio. Di fronte a noi ci sono delle porte, la uno, la due e la tre e canto silenziose filastrocche nel tentativo di prevedere quale si aprirà per chiamarmi dentro. 

L'occasione fa l'uomo ragno e la tensione fa l'uomo bagno, ma andarci adesso significherebbe correre il rischio di perdermi l'appello, per cui dolorosamente resisto. 

Poi una porta finalmente si apre. Scatto in piedi  e la busta con i miei esami, cadendo, fa un rumore pazzesco, ma l'uomo dal camice bianco mi ignora e chiama un altro nome. Una delle donne arrivate dopo di me si alza, raccoglie tutti i documenti ed entra. 

A quel punto, che resisto a fare? La donna seduta alla mia sinistra sembra quasi più nervosa di me.

- Senti, io devo andare al bagno. Non impiegherò molto. Ma nel caso mi chiamassero- e le dico il mio nome- puoi chiedere di aspettarmi?

La donna che sembra quasi più nervosa di me fa un cenno col capo e lo interpreto come un sì. 

I bagni sono poco distanti, alla fine del corridoio, a sinistra. Spingo la porta, entro e penso che sarebbe proprio da sfigati aver atteso più di un'ora ed essere chiamata proprio adesso. Ancora peggio sarebbe, dopo settimane di nervosismo e una notte insonne, vedermi rifiutata l'autorizzazione. Ma se per loro non fosse o non fossi abbastanza? 

Approfitto dello specchio per verificare quanto sto messa male e la mia faccia non mi delude.

Esco dal bagno ed ho la sensazione di sentir chiamare il mio nome.

La donna che sembra quasi più nervosa di me è lì dove l'ho lasciata.

- Non mi hanno chiamata, vero?

Fa un cenno col capo che interpreto come un no.

Ritrovo il mio posto, mi siedo e incrocio i manici della borsa. La busta con gli esami cade di nuovo e di nuovo fa un rumore tremendo. La raccolgo e mi raccolgo le braccia in grembo e riprendo a sperare. 

Poi lo sento chiaramente. È il mio nome e non lo stanno chiamando, lo stanno gridando. E non da una delle tre porte, bensì dalla reception. 

Guardo la donna che sembra quasi più nervosa di me, ma è un caso perso perché di nuovo fa solo un cenno col capo.

- Sono qui! Vengo subito!- e mi precipitò lungo il corridoio verso il bancone.

La ragazza alla reception mi sorride.

- C'è stato un errore.- dice. 

Io ingoia aria.

- I medici hanno valutato il suo caso.- aggiunge. 

Io ingoia saliva.

- E le hanno già concesso l'autorizzazione, perché non c'è bisogno di fare una perizia.

- Cosa?! - mormoro in un misto di incredulità e gioia.

- Tenga, questo è il documento di approvazione.

Il foglio che mi porge finisce sul fondo della busta insieme a tutti gli altri documenti. 

- Grazie.- le dico.

-Stia bene.- mi risponde.

E finalmente smetto di tenere le dita delle mani e dei piedi, le braccia, le gambe, i legamenti e le arcate dentali incrociate. 

 

 
 
 

***la_fine_del_mondo***

Post n°507 pubblicato il 22 Marzo 2016 da fragolozza
 

Sai, ho fatto un sogno che era la fine del mondo. No, non significa che era un bel sogno; significa che ho proprio sognato la fine del mondo.

Su una spiaggia un po’ brasiliana e un po’ napoletana, dove i fusti giganti delle palme si riflettevano nei vetri rotti delle finestre del secondo piano di palazzine abbandonate e lerce, coi muri sgarrupati e i tetti intonacati dallo sterco secolare dei piccioni, sotto un cielo un po’ grigio e un po’ color di seppia, sgranato negli occhi da una coltre spessa di nuvole belligeranti e ostili, i bambini correvano e urlavano e le madri anche peggio. Gli uomini, invece, ostentavano coraggio, ma scommetto che, in fondo, pure loro si stavano cagando sotto.

Quanto a me, non saprei dirti. So solo che mi sentivo tanto persa e respiravo e vagavo a bocca aperta e a pieni polmoni, perché di lì a poco l’ossigeno sarebbe finito e l’aria si sarebbe adagiata come una coperta inutile e pesante, su tutte le case e le cose e sui corpi di chi sarebbe morto e di chi si stava già uccidendo. So però che non avevo paura, forse per quel disinteresse che da sempre accompagna le mie sorti e mi permette di rimanere chiusa in ascensore per dieci minuti senza farmi prendere dal panico o di salire su un autobus, che qui, lo sai, è come andare sulle montagne russe senza cinture di sicurezza, a farmi ipnotizzare dall’espressione bidimensionale dei volti delle persone scomparse, incorniciati su volantini sbiaditi dal sole. Se sparissi anch’io? Se finissi in un luogo qualunque o finissi e basta?

Nel mondo agonizzante del mio sogno, ti incontravo e mi prendevi per mano. L’oceano Mediterraneo era un mostro infuriato da onde spalancate come bocche e denti di schiuma di rabbia e sale, verso il quale i nostri piedi, impastati di sabbia, si muovevano nudi. Il segnale della fine arrivava ed era un urlo di sirena tanto forte da renderci sordi e quello che ti avrei voluto dire non te lo potevo più dire.

Mi rimaneva un ultimo respiro, un ultimo passo, un ultimo ricordo. E sotto quel cielo ormai spento, chiudevo gli occhi, poggiavo le labbra alle tue e ti baciavo.

 
 
 

***straniera***

Post n°506 pubblicato il 10 Marzo 2016 da fragolozza
 

Subito dopo la laurea, in quel periodo di limbo trascorso in attesa di trovare un lavoro, frequentai il mio primo e ultimo corso di comunicazione di base, organizzato da una società del Centro Direzionale di Napoli e gentilmente finanziato dalla Comunità Europea. Eravamo all'incirca una dozzina, per quattro martedì disposti in cerchio come ad una riunione degli alcolisti anonimi. 

Il primo compito sembrò piuttosto semplice: descriverci, ma con un solo aggettivo. 

Fu un tripudio di solare, solare, solare, solare, solare e solare, in cui, a malapena, si inserirono blandi cenni a testardaggine e generosità. 

A differenza di tutte quelle persone che si esprimevano a colpi di sole, io non avevo alcuna idea di quale aggettivo utilizzare. Mi sarei potuta inserire nella guerra stellare e dichiararmi a mia volta solare o lunatica o marziana, magari galattica. Ma riassumere tutto ciò che sentivo o credevo di essere, in un solo termine, presupponeva una predilezione per la sintesi che ho sempre e solo indirizzato ai tessuti, come il mio armadio potrebbe largamente testimoniare. 

Ad ogni modo, arrivò il mio turno.

Ilaria, la psicologa che amministrava il corso, mi osservava curiosa. 

- Scusami, ma non posso. - Le dissi - Perché ogni giorno io sento di essere qualcosa di diverso. Pertanto, qualunque aggettivo io scelga di usare, in virtù di quanto sono mutevoli i miei comportamenti ed i miei stati d'animo, potrebbe rivelarsi inadeguato rispetto a come sarò/mi sentirò al prossimo incontro."

La situazione, a distanza di anni, non è cambiata. Ancora non mi è facile trovare quell'unico aggettivo in grado di descrivermi e mi diverto a fare della mancanza di riferimenti il mio unico riferimento. 

Come quando esco di casa per recarmi in un posto e sbaglio, minimo per tre volte, l'indirizzo, perché spesso non annoto il civico e in questa città tutte le strade sono lunghe almeno due kilometri. Come quella volta che, pure se l'indirizzo era quello giusto ed io c'ero arrivata senza perdermi, la sede di pertinenza più adatta era da un'altra parte, in un altro quartiere ed io non avevo una mappa, nè un navigatore e neppure una connessione dati per consultare le mappe di Google.

Non è giusto tornare indietro, solo perché non si sa per dove proseguire. Da qualche parte, comunque, si arriva e, forse, proprio laddove si voleva arrivare.

Ed io ci arrivai e c'era un ragazzo alla reception.

Sono poco credibile in qualità di brasiliana e inevitabilmente qui tutti si accorgono che sono straniera. I più mi dicono che ho una faccia argentina (io opterei per il bronzo), ma mi scambiano anche per americana, russa, francese, spagnola, cilena, colombiana e il ragazzo di quella reception addirittura per giapponese (ma è successo in un ospedale oftalmologico quindi non vale). Non riescono comunque mai ad indovinare che sono italiana.

In realtà, qualcosa del genere mi succedeva anche prima, cioè prima che diventassi straniera davvero. 

- Sei strana. 

- Tu non sei di qua, vero? 

E invece lo ero, almeno da bambina, quando puntualmente qualche persona mai incontrata in paese mi chiedeva se fossi la parente di qualcuno arrivata da Milano per le vacanze. E a me sembrava buffo, strano, un po' ci giocavo e, a volte, rispondevo persino di sì.

Ad ogni modo, quella volta che non sapevo la strada, ma non sono tornata indietro e sono arrivata a destinazione dove un ragazzo ha supposto che io fossi giapponese, ho capito che anche nella più totale mancanza di riferimenti una risposta si trova sempre. 

E, se incontrassi di nuovo Ilaria, le darei quell'aggettivo che tanto sperava.

Io sono straniera. 

Perché quelli strani ieri, sono strani anche oggi e lo saranno anche domani. Sono strani sempre e dovunque. 

 
 
 

***Otto_Marzo***

Post n°505 pubblicato il 08 Marzo 2016 da fragolozza
 

Il mio pensiero per la festa delle donne va ad alcuni degli uomini che fanno gli auguri alle donne per la festa delle donne.

Agli oltranzisti per un giorno, che, come ultrà  affetti da sindrome bipolare, si riscoprono improvvisamente sostenitori della squadra avversaria e sciorinano slogan, aforismi e sentenze che, nell'arco di ventiquattro ore, archivieranno, per tornare allegramente a cantare Ollellè Ollallà faccela vedè, faccela toccà.

Ai fantasmi dell'otto marzo passato, che, puntuali come la morte, ti inviano un messaggio di auguri, ottenendo come risultato che ti ricorderai di loro nelle tue preghiere e gli dedicherai un eterno riposo, affinché, dal purgatorio in cui li hai o si sono autoconfinati, passino quanto prima al livello successivo.

Agli sfigati cronici, quelli che fin da adolescenti, regalavano mimose (e solo loro, perché quelli che ti piacevano, col cavolo!) a tutte le ragazze della classe, alle professoresse scorbutiche e pure alle bidelle, nella vana speranza che, in mezzo a quel gran numero, qualcuna ci cascasse, come  imbucati ad una festa a cui non sono stati invitati, che tentino di conquistare la festeggiata col regalo più bello.

Insomma, a tutti quelli che colgono questa occasione per dedicare un pensiero, un omaggio, un fiore e non lo fanno perché gli interessa davvero celebrarti, bensì solo per mettersi in buona luce, alla stregua di un satellite di periferia che solo una volta l'anno, riesca a cogliere qualche riflesso e ad emettere un minimo di bagliore.

A tutti gli altri, no, non va il mio pensiero. Magari un grazie, cui spero replichino di nulla.

 
 
 

°*°Poi_smettO°*°

Post n°504 pubblicato il 04 Marzo 2016 da fragolozza
 

- Lei fuma?

Lo sapevo che me lo avrebbe chiesto. In fondo, è la prima cosa che un medico ti chiede. Solo che io adesso cosa gli rispondo? Sì, no, forse?

Ok, sì, fumo. Ma è pur vero che, no, non fumo. Cioè, non fumo da tre ore e per una che sta tentando di smettere è come se non avesse mai fumato. Del resto, io sono bravissima a smettere, smetto di continuo, smetto tutti i giorni, smetto tutte le volte che spengo una cicca. Il problema è che sono altrettanto brava a ricominciare. Così brava che non perdo un’occasione per ricominciare; praticamente ricomincio con la stessa frequenza con cui smetto.

Nella gestione della mia relazione col fumo, mi dovrei ispirare (oltre che inspirare) al modo in cui ho sempre gestito i miei rapporti con le persone tossiche, dannose, nocive. Perché, nei rapporti interpersonali, al primo segnale di danno, reale o potenziale, ho sempre smesso immediatamente di cercare, di pensare, persino di amare, senza mai ricominciare. Invece con le sigarette è un continuo lasciarsi e ritornare, scappare e farsi trovare, ti odio e poi ti amo e poi ti amo e poi ti odio e poi ti amo…

Il dottore, intanto, ancora attende la mia risposta.

- Lei fuma?

- Sì- rispondo.

Ma in compenso non mi drogo, non bevo alcolici, non uso psicofarmaci e non soffro di allergie. E, comunque, dopo questa sigaretta, smetto. Promesso.

 
 
 

*°*clicca_mi_piace_e_condividi*°*

Post n°503 pubblicato il 04 Marzo 2016 da fragolozza
 

Non riesco a condividere il gusto per la condivisione, la voglia e, in second’ordine, la consapevolezza, probabilmente piacevole, di essere simile, se non addirittura uguale, per gesti, pensieri e idee, ad un manipolo di estranei che si avvale dello strumento social per informare il mondo sulle proprie abitudini, attitudini e consuetudini.

Non faccio riferimento agli aggiornamenti di stato più o meno interessanti (per fortuna, pare sia stata superata la fase in cui ogni santo cristiano era preda della smania di aggiornare il popolo prima di dormire, prima di fumare, prima di lavarsi, prima di mangiare, etc.).

Faccio riferimento ai link, ossia a quei contenuti creati col solo scopo di essere condivisi e, quindi, per loro natura altamente condivisibili, in quanto connotati di una banalità e di una pochezza a dir poco disarmante. Perché io capisco gli scazzi, le frustrazioni, i rompimenti di scatole e tutto il resto, ma che si abbia bisogno di informare gli altri in merito al proprio punto di vista, condividendo la foto di una strappona con didascalia "Non mi è mai interessato piacere a chiunque. Preferisco un'antipatia vera ad una falsa amicizia", lo trovo parecchio triste.

Ancor peggio poi la recente tendenza, in voga soprattutto tra i miei contatti più giovani, di rendere partecipi gli altri della propria tipologia di reazione a fronte di qualsivoglia, scontatissimo evento, mediante condivisione di video girati da coetanei, il cui unico talento è una totale e sfrontata mancanza del pudore rispetto alla possibilità di ridicolizzarsi e immortalare il momento su yuotube, per la libera fruizone dei contemporanei e dei posteri. Un fioccare di video il cui titolo comincia quasi sempre con “Quando…”, una galleria di situazioni sciatte (es. quando sei sul divano, quando la tua ragazza è al bagno, quando il ragazzo che ti piace non risponde ai tuoi messaggi, etc…), cui l’utente medio si relaziona, non solo condividendo, taggando e apprezzando, ma anche accompagnando la pubblicazioni con commenti giubilanti relativi al riscontro di una conformità totale della situazione filmata, rispetto a quello che è il loro atteggiamento nell’affrontare o vivere la stessa situazione.

Comprendo il desiderio di accettazione, la necessità di sentirsi parte del gruppo, il sollievo che comporta scoprire (l’acqua calda) che esistono migliaia di persone che reagiscono ai pali, ai due di picche, alla stanchezza, ai ritardi e ad altre svariate ed eventuali situazioni nello stesso identico modo in cui reagiamo noi. Lo comprendo. Sul serio. E questo post non avrebbe alcuna ragione di esistere se non fosse che, di ultimo, una persona che ho avuto la sfortuna di conoscere e frequentare per lungo tempo e che, ancora adesso, si tiene saldamente al primo posto della mia personale classifica degli idioti senza possibilità di guarigione, ha deciso di diventare uno youtuber e ha cominciato a riempire l’etere di video della tipologia di cui sopra.

PICCOLA DIVAGAZIONE SUL TEMA

Durante una trasferta di lavoro, una sera a cena, mi si pose questa domanda.

- Sai che differenza c'è tra uno stallone, un puledro e un cavallo?

In verità non lo sapevo e avrei continuato a vivere benissimo pur non sapendolo, ma poiché all'epoca i miei datori di lavoro avevano deciso di darsi all'ippica e, dunque, la garanzia che continuassero a pagarmi lo stipendio dipendeva da quanto fossi brava a fingermi coinvolta nel mondo equestre, richiamai i pensieri dalle praterie in cui li avevo lasciati liberi, chiesi solertemente "quale?" e buona buona mi sorbii tutta la spiegazione.

In realtà, per quanto mi impegnassi a fingere, a me dei cavalli fregava davvero poco. Sarei stata molto più felice se, anziché in un frisone da competizione, avessero investito i soldi in una batteria di polli. Almeno c’avrebbero guadagnato in cotolette. E fu, forse, per questo motivo che tenni in piedi la conversazione domandando a mia volta.

- Sarà che la differenza che intercorre tra il cavallo, il puledro e lo stallone è la stessa che distingue i polli, i pulcini e i galli?

E fu allora che l’idiota senza possibilità di guarigione, fino a quel momento silenzioso come un vegetale, intervenne con un memorabile contributo.

- Scusami, eh? Ma i polli non sono galline? Io ho sempre pensato che i polli erano galline a cui tiravano le piume.

Nessuno ebbe il coraggio di replicare. Nemmeno per spiegargli che un pollo è un pollo e in quanto pollo non può essere gallina, poichè la gallina fa le uova, fa la cova, fa il brodo e il pollo no.

TORNANDO AL TEMA

Comprendo il desiderio di accettazione, la necessità di sentirsi parte del gruppo, il sollievo che comporta scoprire che esistono migliaia di persone che reagiscono ai pali, ai due di picche, alla stanchezza, ai ritardi e ad altre svariate ed eventuali situazioni nello stesso identico modo in cui reagiamo noi. Lo comprendo. Sul serio. Ma la prossima volta, prima di condividere, taggare e dichiararvi orgogliosi di quanto l’autore del video abbia colto in pieno il vostro mood, fermatevi a riflettere sulla probabilità che  l’autore di quel video, coloro che lo seguono e tante altre migliaia di persone che reputano degno di millanto emettere versi da asino in calore quando lui/lei non risponde, potrebbero non conoscere la differenza tra un pollo e una gallina. E voi siete tanto fieri di somigliargli!

 

 
 
 

***Realtà _Virtuale***

Post n°502 pubblicato il 24 Febbraio 2016 da fragolozza
 

- Zuckerberg ci ha visto lungo un'altra volta. 

- Ah sì? E perché? 

- Ieri ti ho detto che stava a Barcellona....

Ieri abbiamo trascorso il pomeriggio sul divano, lui a smanettare con il computer ed io a leggere I giorni dell'abbandono. Faccio mente locale e provo a ricordare. Sì, è probabile che me lo abbia detto, ma non gli ho prestato molta attenzione, perché ero arrivata al punto della storia in cui la protagonista, completamente svalvolata, esce di casa in camicia da notte per permettere al cane di fare la cacca,  solo che a sua volta viene colta da quella che dalle mie parti chiamiamo na moss e panz e non trova altra soluzione che accovacciarsi a defecare pure lei nel parchetto pubblico. 

-...per il lancio del nuovo Samsung S7. 

Sì, ora ricordo, me lo ha detto, ma ero troppo concentrata a scoprire dove andasse a parare tutta la merda del libro che stavo leggendo, per interessarmi a come Zuckerberg passa i fine settimana. 

Lo guardo ed ha un sorriso sornione. 

- Hai presente quella poltrona e quegli occhiali che abbiamo visto nella FNAC del BH Shopping?

- Sì sì! - Rispondo entusiasticamente. - Quelli che, se li compriamo entrambi, per il prossimo carnevale ci travestiamo da Xmen, io faccio Cerebro e tu fai Ciclope? 

- Chiccola, non scherzare. Il futuro è arrivato.

E continua a sorridere, stavolta trionfante. 

- L'hai vista la foto di Zuckerberg? - Mi chiede.

- No, che non l'ho vista!- E cerco di aggiungere al punto esclamativo una sfumatura di indifferenza che gli impedisca di continuare, perché tutto sto parlare di Zuckerberg quasi comincia a starmi sulle scatole. Ma continua. 

- Praticamente, c'è Zuckerberg che passeggia in una sala piena di persone, ma nessuno se lo fila, anzi in verità nessuno lo nota, perché tutti i presenti indossano gli occhiali per la realtà virtuale. Aspetta...la cerco e te la mostro.

Trascorre mezzo minuto e mi ficca il suo telefono sotto il naso. - Tieni, guarda tu stessa!

E in effetti la foto è esattamente come me l'aveva descritta. C'è Zuckerberg che passeggia di fianco ad una platea che lo ignora totalmente.

- Eh? Hai visto? Che te ne pare?

- O Chiccolo, - gli chiedo - Ma a te ti pare bella sta cosa? 

- A te no?- mi chiede a sua volta leggermente preoccupato. 

- E certo che no!- gli rispondo. - Voglio capire Zuckerberg, dal momento che, realtà virtuale o meno, se mi passasse accanto, pure io non me lo filerei di pezza. Ma immagina che tragedia se, a causa di uno strumento del genere, mi passasse accanto Jude Law ed io non me ne accorgessi. Cavoli! Non riesco a immaginare niente di peggio! 

Scoppia a ridere come avevo sperato e scuote la testa.

- No Chiccola, tu non ti rendi conto dell'impatto che questo tipo di tecnologia avrà sulla società. È meraviglioso! 

- No Chiccolo,- ribatto - Io capisco eccome, ma non ci trovo nulla di meraviglioso. E ti spiego perché. Quante ore al giorno trascorriamo insieme io e te? Dunque, tu esci di casa alle sette di mattina e rientri alle sette di sera, quindi stai fuori per lavoro dodici ore. Anzi no... Perché tu torni alle diciannove, quindi di ore fuori ne passi quattordici. 

- Aspetta, - mi interrompe- Che hai detto?

- Che trascorri quattordici ore fuori casa per lavoro. 

Spalanca gli occhi. - Quanto fa diciannove meno sette?

Cacchio! Questo errore di calcolo mi rovina la credibilità! Provo a rimediare argomentando più convinta che mai.

-Vabbè, dodici, quattordici, non fa molta differenza. Quello che vorrei tu capissi è che tolto il tempo del lavoro e del sonno, quante ore mediamente  trascorriamo insieme? E per insieme intendo insieme insieme, no che tu fai la doccia e io preparo la cena, no che mangiamo e la TV in sottofondo...Quante? Una, forse due, prima di dormire? E ti pare bello se da quest'ora, forse due, dovrei sottrarre altro tempo per vederti sdraiato sul divano, conciato da apicoltore, che sembri morto,  ma in realtà, che poi realtà non è perché è virtuale, stai inseguendo una libellula in un prato? È già tanto se non ti sequestro il telefono e ti disinstallo candycrash.

- Io però non li comprerei mica per me?! Sai che spasso vederti girare e sbattere dovunque per casa come una pallina impazzita in un flipper? 

- Beh, se si tratta di questo, mi pare che me la cavo già abbastanza bene... E poi io non ho bisogno di una realtà virtuale!  Hai idea di che sforzo comporti svegliarsi felici ogni giorno, apprezzare tutto ciò che si è conquistato, guardare sempre e comunque al lato positivo delle cose?  Ci vuole fatica, impegno... E tanta fantasia. È per questo che sento le voci, canticchio canzoni, ti chiedo di ballare senza musica e faccio facce strane. Mica perché sono scema davvero? Ma questo non vuol dire che barattarei questo tipo di sforzo con la possibilità di accedere al mondo fatato di Barbie grazie a un semplice paio di occhiali. Io adoro la mia realtà reale e non ne vorrei altre. 

- E allora perché leggi tanti libri? E allora perché guardiamo i film?

- Perché la letteratura e il cinema sono evasione, è vero. Ma la realtà virtuale è alienazione. E c'è una bella differenza! 

- Sì, ma la realtà virtuale ti darebbe l'opportunità di visitare posti in cui non sei mai stata, di passeggiare per le strade della tua infanzia, di pranzare con i tuoi genitori senza prendere un aereo...

- Pure di uscire con Jude Law? Perché se è così allora ci posso pensare.

- Vabbè, adesso non esagerare.

 
 
 

***L'Eco_degli_Scoppi***

Post n°501 pubblicato il 04 Dicembre 2015 da fragolozza
 

"Mi piace aggiungere materiali alle tele. Mi aiuta ad esprimere fino in fondo come mi sento"

Sembra persino facile mantenere l'orientamento, seguendo le linee perpendicolari delle pareti che limitano gli spazi, e, con gli occhi, aggrapparsi alle macchie di rosso, troppo forti per non venir fuori dalle cornici a mettermi in disordine i pensieri. 

Ma non lo è. 

Provo a sentirmi lontana come effettivamente sono, non per una questione di kilometri o di oceani, quanto di rughe e doppie punte, rispetto a quando, seduta a gambe incrociate con la schiena poggiata contro il parapetto, chiedevo a mio fratello di aprire il manuale su una pagina a caso, con la scusa di scoprire quanto sapevo di qualcosa di cui adesso nemmeno ricordo i fondamenti, ma in realtà solo per dimostrargli, al di là di tutti gli abbracci, quanto fossi felice che stesse lì con me. L'esame sarebbe andato bene e, dopo due giorni, avremmo fatto festa, tutti insieme, e, finalmente, almeno per un po', non avremmo pensato a Londra, alle bombe e a quale logica segue il caso quando distribuisce disperazione o sollievo. 

Ma l'esperimento fallisce e allora cerco di sentirmi il più possibile ferma e vicina alla mano che stringo, alle dita che soffoco, ai passi che seguo. Perché davvero "if the bomb goes off again in my brain or on the train, then I hope that I'm with you, 'cos I wouldn't know what to do". Sebbene la speranza, la fortuna, il caso e tutte quelle altre cose a cui siamo bravi a dare un nome pur non potendo dar loro una forma, c'entrino nulla. Perché le bombe esploderanno sempre e non importa di quanta arte o bellezza cerchi di riempirti gli occhi per fingere che non ti facciano paura. 

Alla fine del corridoio, la parete bianca è nascosta da uno strano quadro. 

- Se fossi un pittore, anch'io,  per esprimere al meglio come mi sento, aggiungerei dei sacchi di juta alle tele. 

- Perché? Come ti senti?

- Una pezza.

 
 
 

***Torno_Subito***

Post n°500 pubblicato il 11 Novembre 2015 da fragolozza
 

"TORNO SUBITO" recitava il cartello, ma, a giudicare dalle espressioni delle facce in attesa sul marciapiedi, la brevità dell'assenza era un concetto relativo e appannaggio del solo portiere. 

L'ultima ad aggiungersi al gruppetto di astanti era stata la ragazza. La signora con la saccolla della spesa sembrava la più rassegnata; seduta sul bordo della grossa fioriera, incassata al limitare dell'ingresso, aveva lo sguardo fisso nel vuoto. In piedi, con una mano poggiata sul pomello del portone di vetro e l'altra poggiata sulla fronte, c'era l'uomo in camicia, sfrigolante come un uovo in camicia, il quale, ogni venti secondi, staccava il palmo sinistro dalla fronte, per avvicinare il polso al naso, quasi volesse annusare il valore del suo orologio, più che controllarne il funzionamento. E poi c'era lui. Quando era arrivata, la ragazza gli aveva sorriso. Se l'avesse ricambiata, avrebbero potuto cominciare a chiacchierare.

"Sai, credo che questo portiere mi odi. Lo so, lo so, potrebbe essere una mia paranoia, ma pur di non salutarmi, ogni volta, finge di essere impegnato in qualcosa, tipo dormire, spolverare il computer, limarsi le unghie, parlare con i fantasmi."

Lui avrebbe sorriso, perché ce l'aveva scritto in faccia che ne aveva bisogno e, magari, avrebbe aggiunto che sì, era una sua paranoia, perché chi mai avrebbe potuto odiarla? Si intuiva subito che era una di quelle persone cui è difficile non voler bene. E stavolta avrebbe sorriso lei, perché era un sacco che qualcuno non le diceva qualcosa del genere e, anche quando in passato le era stato detto, non ci aveva mai creduto abbastanza. 

Ma non l'aveva ricambiata. Aveva continuato a tenere lo sguardo fisso e concentrato sullo schermo del proprio cellulare, concedendosi piccole pause solo per spingerlo oltre il vetro a ripassare la scritta sul cartello. 

"TORNO SUBITO". 

Più o meno quello che l'uomo in camicia aveva assicurato a sua moglie, quando l'aveva chiamata all'uscita del lavoro. Non erano bastati la lite con il capo, l'affare andato in fumo e il due di picche da parte della collega munita di un ottimo arsenale. Che poi...le aveva offerto soltanto un caffè, mica tanto? E quella stronza lo aveva guardato come se, anziché proporle un espresso, avesse fatto una scorreggia. Ma il peggio era ancora da venire, ne era certo. Appena quel lavativo del portiere si fosse deciso a tornare da qualunque fosse il buco in cui si era cacciato, avrebbe dovuto fronteggiare un'altra delle crisi isteriche di sua moglie, ormai sempre più frequenti. Tirò via la mano dalla maniglia cui ormai si era quasi attaccata e pensò fanculo, allontanandosi a passo veloce.

La donna con la saccolla nemmeno se ne accorse. Continuò a tenere lo sguardo puntato davanti a sé. La ragazza, invece, gli rivolse un cenno di comprensione ed empatia, di cui l'uomo in camicia non si accorse. Se l'avesse notato, avrebbe ricambiato quel gesto di cortese solidarietà e avrebbe fermato l'impulso di fuggire, scoprendo, quando il portiere si fosse deciso a riprendere la propria postazione permettendo a ciascuno di loro di rientrare a casa,  che forse sua moglie non era affatto in preda ad una crisi isterica e che magari gli aveva chiesto di rientrare il prima possibile solo perché sentiva la sua mancanza. 

Ma non lo notò e, in pochi veloci passi, raggiunse la fine della strada, svoltò a sinistra e sparì dalla vista. 

A quel punto erano rimasti in tre. 

La donna con la saccolla finalmente si mosse, ma solo per portare una mano alla bocca per frenare uno sbadiglio. 

Anche lui si mosse e la ragazza ebbe un sussulto perché, in quel movimento, intravide la possibilità che finalmente la notasse.

"Sai, somigli tantissimo a Bradley Cooper. Non te l'hanno mai detto? No, ti giuro, sei davvero identico! Hai presente quel film in cui sono tutti innamorati non ricambiati di qualcuno a sua volta innamorato di qualcuno da cui non è ricambiato? Ecco, tu sei uguale a Bradley Cooper in quel film. Peccato che adesso non mi sovvenga il titolo."

Ma lui continuò a non notarla. Spostatosi di pochi passi, continuò ad armeggiare freneticamente con il telefono, rivolgendo intermittenze di sguardi sempre più speranzosi al vetro chiuso, dietro il quale, improvvisamente, apparve lei. 

Click.

La donna con la saccolla in un attimo fu in piedi e, senza tanti convenevoli, varcó la soglia, diretta verso gli ascensori. 

La ragazza sarebbe stata altrettanto veloce ad approfittare di quel miracolo riscatto, ma quando vide il sorriso di lui e il sorriso di lei e  l'abbraccio e i baci e carramba che sorpresa, non potè fare altro che superarli a testa bassa, accennando un grazie stentoreo per la cortesia di averle tenuto la porta aperta. 

Raggiunse la donna con la saccolla, seguita dalla coppia, e di nuovo furono in attesa insieme, stavolta di fronte agli ascensori. 

Le porte di uno dei due si spalancarono e ne uscì il portiere, che sorrise e salutò amabilmente tutti. Beh...quasi tutti. Perché quando si rivolse alla ragazza, l'impulso di piegarsi a riallacciare le scarpe, sebbene indossasse i mocassini, fu troppo forte.

Ciascuno digitò il proprio piano e l'ascensore richiuse le porte. 

Stipata in un angolo, la ragazza gettò un'ultima occhiata all'indirizzo di lui. 

"Hai visto? Te lo avevo detto che questo portiere mi odia. Ah...E mi è tornato in mente il titolo del film. La verità è che non gli piaci abbastanza. E, sì, penso ancora che somigli a Bradley Cooper, ma, lasciatelo dire, lei non ha nemmeno le unghie di Scarlett Johansson."

 
 
 

*°*Naipì*°*

Post n°499 pubblicato il 19 Ottobre 2015 da fragolozza
 

Secondo la leggenda, c’era una volta un dio serpente, di nome M’boy, innamorato della bellissima figlia del capo della tribù a lui devota. Ma la ragazza, che si chiamava Naipì, non se lo filava di pezza e, nonostante M’boy gli avesse promesso ori, incensi, birra (rigorosamente Skol) e tanto altro, un giorno decise di prendere il largo col suo amante, Tarobà, per nulla dio, ma forse molto più serpente, e insieme, a bordo di una canoa, si avventurarono nelle acque del fiume Iguaçu, con l’intenzione di raggiungere la confluenza con il Paraná, tirare dritto fino a Buenos Aires e trascorrere allegramente la vita ballando il tango e mangiando empanadas. Ma M’boy li colse sul fatto, spaccò la terra, deviò il fiume e creò le famose cascate di Iguaçu, trasformando la ragazza in roccia ed il suo amante in palma. Si racconta che ancora adesso i due amanti si guardino da lontano, senza mai riuscire ad abbracciarsi.


LETTERA A NAIPÌ , la ragazza che rifiutò il dio serpente,  scappò con il canottiere, provocò la creazione delle cascate e fu trasformata in roccia.
Cara Naipì, come stai? Sicuramente un po’ acciaccata, considerate le bordate d’acqua che ti accolli da millenni. Lo so, col senno di poi, ti sei resa conto che, forse forse, non è stata tanto geniale l’idea di rifiutare un dio per scappartene con un comune mortale, che sarà stato pure un fusto, prima di ragazzo, poi di palma, ma che, contrariamente a quanto solo gli stolti pensano, ormai da tempo è stato trascinato via dalla corrente ed è marcito chissà dove. Perché le rocce sono immortali, ma le palme no.
Te ne stai lì, immobile da un’eternità, coperta di muschi, bagnata dal fiume e molestata dai turisti, che nemmeno si accorgono di te, perché nessuno si è mai premurato di indicare loro quale di quelle migliaia di rocce sei tu. Anzi,  la maggior parte  nemmeno conosce il tuo nome o la tua storia. E ti senti sola, sempre e comunque, anche quando ripensi all’incipit della canzone che ti ha insegnato quell’italiano che è venuto a girare il video dalle tue parti. “Io lo so che non sono solo anche quando sono solo.”
Tu sei sola, cara Naipì, ma hai di che essere fiera. Se fossi stata solo un po’ meno ribelle e diversamente egoista, adesso il mondo avrebbe una meraviglia in meno. Quindi, tirate le somme e considerato il servizio che hai prestato per l’umanità, alla fine ti è andata anche bene. Ma solo perché sei nata milioni di anni fa. Al giorno d’oggi, scelte come la tua non generano alcuna cascata… Semmai qualche caduta. E ti assicuro che non c’è nulla di meraviglioso in questo.

  

 
 
 

***il_resto ***

Post n°498 pubblicato il 15 Ottobre 2015 da fragolozza
 

Prendo cose per una spesa totale di sedici e ventisei. Porgo alla ragazza in cassa una banconota da cinquanta e le chiedo se ha bisogno degli uno e ventisei spicci, giusto per agevolarla con le operazioni di resto e farmi dare i trentacinque tondi. Accetta volentieri e mi sorride. Scopro di non avere monete contate, quindi gliene porgo uno e trenta e lei prontamente le getta nel cassetto, senza nemmeno contarle. Ma si tratta di quattro centesimi, quindi fa niente. Poi mi dà il resto. La prima cosa che noto, sono due banconote da due. Avrebbe dovuto darmene una da cinque, o aggiungere alle due una moneta da uno, quindi resto un po' perplessa. L'istinto, ma in realtà è abitudine, mi invita a far finta di niente, infilare i soldi nel portafogli e andare. Del resto, manca solo una moneta.... Ma stavolta non vince l'abitudine. Stavolta me ne resto ferma lì, con le banconote in mano ad indicarle che qualcosa non mi torna. 

"Ah! Mi scusi!" dice lei e chiama una collega per farsi riaprire il registratore di cassa. 

Lo riapre e, con mio non poco stupore, mi porge una banconota da dieci, perché in realtà la mancanza nel resto era ben più alta di quanto avessi notato.

A quel punto, sempre consapevole che avrei dovuto ricevere trentacinque di resto, conto i soldi che mi ha dato. È un totale di trentaquattro e manca sempre quella moneta da uno. L'istinto, ma in realtà è sempre quella maledetta abitudine, mi suggerisce di nuovo di far finta di niente e di andarmene. Ma stavolta non è come le altre. Stavolta mi arriva come una mancanza ben più grave. Una mancanza di gratitudine per il semplice fatto di aver perso tempo a mettere insieme delle monete per agevolare lei, che in fondo è un'estranea e che peraltro si è pure presa quattro centesimi in più; una mancanza di attenzione nei confronti della mia attenzione; una mancanza che si riduce a una moneta che non mi ripagherà mai, nè per quello che ho perso, nè per quello che non ho mai avuto, ma che non per questo sono disposta a trascurare. Non oggi. 

Perciò le faccio nuovamente notare che i conti non mi tornano, lei si ravvede, mi chiede ancora scusa, mi dà la moneta e finalmente me ne vado.

Al contrario di quanto si possa supporre, dall'episodio non è scaturita alcuna forma di soddisfazione, nè di orgoglio, anzi...

Perché quando ti rendi conto della facilità con cui chiunque sarebbe in grado di sottrarti una banconota da dieci, mentre tu sei in imbarazzo persino nel far notare la mancanza di una moneta (e non perché i soldi ti siano mai usciti dalle orecchie, ma forse proprio per il contrario), allora devi anche renderti necessariamente conto che hai un problema. E non solo con la matematica. 

L'ammissione della disistima che si prova verso se stessi, talvolta, passa attraverso il riconoscimento del numero di crediti accumulati e insoluti, sparsi in giro come titoli di merito che non maturano, bensì marciscono. 

E non importa se è per incapacità di chiedere o per convinzione di non meritare. Alla fine dei conti, inevitabilmente, perdi. 

Perdi tutte quelle cose che hai prestato e non hai il coraggio di reclamare; perdi il denaro per cui hai lavorato e che ti hanno convinta di non meritare; ma soprattutto perdi tutto il bene, tutto l'amore e tutti quei cacchio di sentimenti che hai profuso in quantità industriale, solo perché gli altri non si accorgessero di quanto poco ti sentissi (fossi) all'altezza.

E capisci- finalmente ci arrivi- quanto sia decisamente meglio essere in debito.

I debitori, fintanto che non saldano, non sono mai soli e godono di auguri di lunga vita. I creditori/benefattori, invece, pensano di ricompensare con un presunto vantaggio morale la propria solitudine e le altrui mancanze, salvo capire poi che "sei proprio una brava persona!" non è una ricompensa, ma un'eufemistica definizione della loro stupidità. 

 
 
 

***come_stai***

Post n°497 pubblicato il 23 Settembre 2015 da fragolozza
 

Mi arriva un messaggio. 

"Tesoro! Quanto tempo!!! Come stai? "

In effetti è da molto che non sento questa persona e allegramente rispondo.

"Ehi, che piacere sentirti! Io sto bene e tu?"

Niente. Nessuna risposta. 

Passa un bel po' di tempo e la stessa persona mi invia un altro messaggio. 

"Tesoro, come stai? È tanto che non ci sentiamo!"

Un po' meno entusiasticamente, ma comunque volentieri rispondo. 

"Ciao! Qui tutto bene. A te come va?"

E di nuovo nessuna risposta. 

Passa dell'altro tempo e stamani, al risveglio, trovo un ennesimo messaggio da parte della stessa persona. 

"Tesoro, mi manca non sentirti. Come stai?"

Senza ormai alcun entusiasmo replico. 

"Bene e tu?"

Il nulla, il silenzio, il vuoto cosmico. 

Ho capito. La prossima volta rispondo che sto uno schifo, così forse la comunicazione acquista un senso.

 
 
 

***nulla_di_diverso***

Post n°496 pubblicato il 21 Settembre 2015 da fragolozza
 

Non desidero nulla di diverso da quello che ho adesso. E vorrebbe dirlo ad alta voce. 

Tra pochi giorni comincerà la primavera, la sua seconda primavera in un anno. Sul tavolo ci sono fiori freschi, quattro piccole dalie bianche infilate in una bottiglietta che, in un altro tempo, ha forse contenuto un aperitivo o un succo di frutta; i fiori rosa che, non più di un mese fa, tirati giù dal vento di un finto inverno, avevano ricoperto le strade come un tappeto, adesso, nuovi, giovani e forti si aggrappano ai rami degli alberi, intorno ai cui tronchi, un gruppo di giovani amiche, ornate con veli da sposa, zigzagando, festeggia un addio al nubilato, che l'alcool ha già parecchio obnubilato.

Le guarda, sorride e pensa. Non desidero nulla di diverso da quello che ho adesso.

Le luci del sabato sera riempiono gli sguardi di entusiasmo e le parole pronunciate dalle coppie che occupano i tavoli accanto, anche se fraintese o malintese, sono sicuramente dichiarazioni d'amore, che si sovrappongono alle parole di lui, che le siede di fronte e da una decina di minuti esprime opinioni sulla diffusione degli i-phone, gli aggiornamenti di android e l'estinzione di explorer, cui lei partecipa con blandi cenni del capo, perché l'unica cosa che davvero registra è la parola phone, ma intesa come un phon, che scalda l'aria e le lascia addosso brividi strani. Si ricorda di un'altra sera di settembre, del tempo trascorso nel frattempo e di come non avrebbe mai scommesso su quanto si sarebbe sentita felice. 

Perciò lo dice.

- Non desidero nulla di diverso da quello che ho adesso. 

Senza aspettarsi certo che lui replicasse...

- Neanche io. Il mio LG funziona ancora benissimo. 

 
 
 

***semplicemente_crederci***

Post n°495 pubblicato il 16 Settembre 2015 da fragolozza
 

Vorresti crederci.

Senza sperare, senza confidare.

Semplicemente crederci.

Come quando avevi undici anni e credevi davvero, ancora, nella befana. 

Che babbo natale fosse tuo padre, lo avevi scoperto da un pezzo, più o meno a sei anni, quando, a pochi giorni dal natale, trovasti quell'abito rosso bordato di ovatta sull'asse da stiro di tua madre. 

"Mamma, abbiamo un vestito da babbo natale!"

"Non è nostro."

"E di chi è?"

"È di una signora."

"E perché ce lo abbiamo noi?"

"…"

Quel vestito rimase in giro per casa fino a natale e anche dopo. Nel frattempo, durante la cena della Vigilia, quando tuo padre era uscito a comprare le sigarette- e tu volevi andare con lui, ma non ti fu concesso- nella cucina di casa apparve babbo natale. Fu un'apparizione fugace e silenziosa, senza renne e senza sacco, ma con due sacchetti della spesa nei quali erano infilati i regali per te e tuo fratello. E indossava scarpe nere identiche a quelle di tuo padre. Alcuni giorni dopo, provasti seriamente a discutere con tuo fratello dei tuoi sospetti sul fatto che babbo natale fosse vostro padre. Gli mostrasti il vestito, gli parlasti delle scarpe e di come babbo natale fosse comparso esattamente quando vostro padre non c'era. Ma tuo fratello aveva tre anni e ti guardò con lo stesso interesse con cui, a quella età, avrebbe potuto guardare o comprendere una puntata di C.S.I. Lui continuò a credere. Tu no.

Ormai credevi soltanto nella befana. Certo, avevi scoperto che aveva l'abitudine di consegnarvi i regali con qualche giorno di anticipo, nascondendoli dietro la tenda del salotto, per poi tornare durante la notte giusta e collocarli ai piedi dei vostri letti. Ma ci credevi. O è più giusto dire che volevi crederci. 

Stamattina, da qualche parte, hai letto che mancano cento giorni al natale e, a maggior ragione, vorresti crederci. 

Senza sperare, senza confidare, senza certezze, senza andrà tutto bene. 

Perché ciò che non esiste continuerà a non esistere, ma finché non ne avrai tutte le prove, finché non avrai guardato in tutti gli angoli e finché non avrai cercato in tutti i modi, crederci è l'unica cosa che ti resta.

 
 
 

***tu_siamo_qui_siamo_là***

Post n°494 pubblicato il 15 Settembre 2015 da fragolozza
 

Ho provato non poco fastidio leggendo questo articolo di Umberto Eco, sulla correlazione tra il corretto uso del vasto corredo pronominale di cui la lingua italiana si pregia e la salvaguardia dell'identità culturale nazionale, intesa non solo come bagaglio nozionistico, ma anche come espressione e manifestazione di valori, a mio avviso, indotti ma anche innati, quali educazione e rispetto verso l'altro. 

Ammiro chi è in grado di argomentare in modo valido tesi che non accetto o non condivido, ma inevitabilmente mi rifiuto di supportare tesi, anche fondate, quando l'argomentazione ordita appannaggio è tanto sgradevole da sembrare non avere fondamento alcuno; per questo, sebbene io tenda a trattenere le opinioni, a conservarle, a lasciarle maturare, a non spararle, a collezionarle e poi montarle, incastonarle, in quel punto di vista che è mio e mio soltanto, a fronte delle dichiarazioni di Umberto Eco non ce l'ho fatta a trattenermi. 

Che in Italia rivolgersi ad un estraneo sia un'impresa complessa e ardita, data la possibilità di scelta tra il tu, il voi, il lei, il lui, sua altezza e sua eminenza, è noto in tutti gli angoli del globo ( e penso sia uno dei non trascurabili motivi per cui gli stranieri non siano ansiosi di impararlo) e Umberto Eco ne parla dettagliatamente, facendo riferimenti a Dante, al Rinascimento, a Manzoni, al Fascismo e persino a suo padre. Dopodiché, descrive un episodio. 

[…] in un emporio mi sono visto (io allora quasi ottantenne e con barba bianca) trattato col Tu da una sedicenne col piercing al naso (che non aveva probabilmente mai conosciuto altro pronome personale), la quale è entrata gradatamente in crisi solo quando io ho interagito con espressioni quali “gentile signorina, come Ella mi dice...” De- ve aver creduto che provenissi da Elisa di Rivombrosa , tanto mondo reale e mondo virtuale si erano fusi ai suoi occhi, e ha terminato il rapporto con un “buona giornata” invece di “ciao”, come dicono gli albanesi [...].

Questo è l'episodio, narrato da Eco, secondo il suo punto di vista. Quello che, però, mi arriva non è la lecita manifestazione di dissenso a fronte del degrado nel costume e nel registro linguistico adolescenziale, quanto piuttosto una sontuosa manifestazione di boria da parte di una persona piccata, per l'uso sacrilego nei suoi confronti del pronome personale "Tu", da parte di una ragazza con il piercing (forse un anello) al naso; una manifestazione di hybris da parte di un professore che, anziché vantarsi a posteriori, di quanto fosse stato capace di mettere in difficoltà una sedicenne, se proprio riteneva l'uso della seconda persona tanto inadatto al suo indirizzo, avrebbe potuto correggerla, darle una spiegazione. Sia mai che nello stesso emporio non capiti un giorno un'altra persona di immensa caratura e la ragazza persista nel suo atteggiamento inappropriato (tipo una visita del Papa cui rischierebbe di rivolgersi, dicendo: "Cia' France'!")

Per restituirle la dignità che, a mio avviso, Umberto Eco le ha tolto, ho provato ad immaginare la stessa situazione, ma dal punto di vista della sedicenne.

"Oggi le mie amiche andavano in piscina. Un po' le invidio, perché mi piacerebbe, qualche volta, riuscire a prendermi un giorno libero e trascorrere questi giorni d'estate come li trascorre la maggior parte dei ragazzi della mia età. Ma ho promesso ai miei che avrei dato loro una mano. La situazione a casa è sempre più critica da quando papà ha perso il lavoro. Probabilmente questo inverno lascerò la scuola. Mi dispiace, ma se la signora, dopo le vacanze, dovesse avere ancora bisogno di me, non ci penserei due volte. In generale, mi piace lavorare in negozio e, anche se sono ancora un po' impacciata, i clienti sono sempre gentili con me. Beh...non proprio tutti. Stamattina, ad esempio, mi è capitato di dover servire l'uomo più antipatico del mondo. Aveva un'aria burbera e stanca, un'aria severa ed ho cercato di essere cortese, facendogli un sorriso gigante e mettendolo a suo agio, proprio come mi ha insegnato la signora. I clienti hanno sempre ragione ed io devo farli sentire come fossero benvenuti, a casa loro. È proprio quello che ho provato a fare, ma quell'uomo mi ha guardata come fossi un insetto e per aumentare la distanza, ha cominciato ad usare parole antiche, frasi che neppure in Elisa di Rivombrosa, che nemmeno ho mai visto, utilizzerebbero. Mi sono sentita impotente. Avevo l'impressione che si stesse prendendo gioco di me, ma non potevo farci nulla, perché il cliente è sacro. Alla fine, quando stava per andarsene, gli ho augurato una buona giornata e l'ho fatto sinceramente, non come semplice saluto. Perché io sarò pure piena di problemi, ma lui secondo me, veramente mai una gioia!"

Prima di andare oltre, ho bisogno di fare una piccola divagazione personale.

Qualche giorno fa, in un negozio di scarpe, nel mentre curiosavo tra gli scaffali, la commessa mi si è avvicinata e mi ha chiesto: "Qual è o seu nome?"

In Brasile, quando vi chiedono il nome, che sia per strada, in un negozio, in un ufficio o in uno studio medico, non intendono, come in Italia, il cognome, nè il nome e cognome, tantomeno il titolo attribuibile alla professione svolta. Intendono semplicemente il nome, quello di battesimo, e, se la situazitone non esige particolare formalità, va bene anche un nomignolo, un soprannome, uno pseudonimo. E, ovviamente, vi si dà del tu, anzi del você, che non è un tu, non è un lei, e letteralmente non è neanche un voi. È semplicemente você. E che siate giovani o vecchi, nobili o pezzenti, letterati o emeriti ignoranti, non fa differenza. In Brasile, per chi non vi conosce, siete semplicemente dei você. 

A Umberto Eco, probabilmente prenderebbe un colpo apoplettico. E non solo a lui. Penso a tante teste di cavolo italiane, intitolate in vari modi, ma principalmente dottori. "A bella! O nome? Chi te la dà tutta 'sta confidenza. Io so' Dottore! " 

Perché il popolo italiano è un popolo di santi, poeti e navigatori, ma soprattutto è il popolo del "Lei non sa chi sono io", dell'"Io chi sono, tu chi sei." 

E persino Umberto Eco lo sa bene. 

"Ho sperimentato con studenti stranieri, anche bravissimi, in visita all’Italia con l’Erasmus, che dopo avere avuto una conversazione nel mio ufficio, nel corso della quale mi chiamavano Professore, poi si accomiatavano dicendo Ciao. Mi è parso giusto spiegargli che da noi si dice Ciao agli amici a cui si da del Tu, ma a coloro a cui si da del Lei si dice Buongiorno, Arrivederci e cose del genere. Ne erano rimasti stupiti perché ormai all’estero si dice Ciao così come si dice Cincin ai brindisi. Se è difficile spiegare certe cose a uno studente Erasmus immaginate cosa accade con un extra-comunitario. Essi usano il Tu con tutti, anche quando se la cavano abbastanza con l’italiano senza usare i verbi all’infinito. Nessuno si prende cura degli extracomunitari appena arrivati per insegnare loro a usare correttamente il Tu e il Lei, anche se usando indistintamente il Tu essi si qualificano subito come linguisticamente e culturalmente limitati, impongono a noi di trattarli egualmente con il Tu (difficile dire Ella a un nero che tenta di venderti un parapioggia) evocando il ricordo del terribile “zi badrone”. Ecco come pertanto i pronomi d’allocuzione hanno a che fare con l’apprendimento e la memoria culturale."

Io avrei menzionato pure le caprette di Heidi, perché anche loro (anzi elle...o esse?!) fanno ciao, ma in effetti sono svizzere, quindi extracomunitarie, come gli albanesi e gli africani.

Spero che dopo tutto questo sproloquio risulti comunque chiaro che anche a me, e ci mancherebbe altro, sta a cuore la salvaguardia e la tutela del patrimonio linguistico e culturale italiano, allo stesso modo in cui mi stanno a cuore l'educazione ed il rispetto. Ma il rispetto non ha nulla in comune con la riverenza e quest'ultima, quando richiesta, quando pretesa e non ispirata, è odiosa. Io, per prima, so che ci rimarrei male se ai miei genitori qualcuno si rivolgesse sgradevolmente. Ma non credo che un "tu", rivolto col sorriso, educato e familiare sia da considerarsi motivo di offesa o insulto. Tanto più quando a pronunciarlo è un adolescente, intriso di concetti di uguaglianza e pace, o uno straniero cui piacerebbe sentirsi solo un po' più a casa.

 
 
 

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Le cloache di notte somigliano
a fiumi nascosti.
Scommetti che a perdere il cuore
guadagni più spazio?
Sul banco dei pegni
ho impegnato
il mio ombretto di rosa.
Palpebre nude non chiudo
per cogliere il resto
di quello che resta
sul conto in sospeso
dei nostri sospesi.

Le formiche al tramonto ricordano
grani di pepe.
Sai contare al contrario, partendo
da cifre irrisorie?
Sotto l’arco
s’inarca in trionfo
la triade imperfetta.
Me stessa, quell’altra o la stessa
si chiudono a riccio.
Per capriccio
mi cavo d’impiccio.
Mi sento di troppo.

 

 

 

 
 

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