Creato da fragolozza il 13/10/2006

LeCoccinelleVolano

...ma cadono lo stesso.

CERCA IN QUESTO BLOG

  Trova
 

AREA PERSONALE

 

ULTIME VISITE AL BLOG

fragolozzaAssaggio.Di.PassionemadultCostanzabeforesunsetautunno.dolciastropartnermaschiofra19572romhauscalos7ilcavaliere_1970only_viruallyil_giovanewertherzarita.63paneghessa
 

FACEBOOK

 
 

MOLKO-DIPENDENTE

 

 

 

But it’s you I take

‘cause you’re the truth

not I.


 


 

 

ARCHIVIO MESSAGGI

 
 << Luglio 2024 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
1 2 3 4 5 6 7
8 9 10 11 12 13 14
15 16 17 18 19 20 21
22 23 24 25 26 27 28
29 30 31        
 
 

ASTRATTE MELODIE

 

CHI PUò SCRIVERE SUL BLOG

Solo l'autore può pubblicare messaggi in questo Blog e tutti possono pubblicare commenti.
 

IL MIO PROSSIMO FIDANZATO

 

COME ALTERNATIVA

CERCASI MODELLO CALVIN KLEIN...

 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 
Citazioni nei Blog Amici: 46
 

 

°°°equilibristi°°°

Post n°370 pubblicato il 29 Marzo 2010 da fragolozza

Mio padre ha il nome esatto per ogni uccello che genericamente mia madre definisce papera. Non c’è alcun equilibrio in questo, ma siamo sereni comunque e spargiamo la cenere delle nostre sigarette nel vento di Villa Borghese, come se il dilemma sul se avremmo fatto meglio a ingoiare il rospo, a sputare il rospo o a sputare AL rospo, non ci avesse mai scossi.
La fantascienza applicata alla mia esistenza, stavolta, prevede il superamento dei miei squilibri mediante meccanici tentativi di ripristino di equilibri, che tradotto in parole povere, equivale a chiedere a un monco se è disposto a farsi amputare tre dita dalla mano superstite, per sentirsi meno sbilanciato.
Sulle prime, secondo me, il monco s’incazzerebbe a morte, come del resto mi sarei potuta incazzare io, se non avessi avuto la premura di infilarmi in borsa una tavoletta di cioccolato da utilizzare quale antidoto all’assodamento che il rassodamento del rancore sarebbe servito solo a storzellarmi lo stomaco.
Il cioccolato ha il dono di rendere l'atmosfera surreale quanto potrebbe esserlo fingere di trovarsi in una discoteca piuttosto che in una clinica, ma da qualche tempo, ho deciso di prendermi una pausa dagli assolutismi, in particolare da quelli superlativi, per concedere una pari opportunità ai relativismi.
E così mi sono convinta che il peggiorismo è più arginabile del pessimismo, così come il migliorismo può essere meno deludente dell’ottimismo e proprio sulla scia di questa falsa forma di equilibrio non faccio che chiedermi perché il mondo sia invaso dagli equilibristi.
Possibile che nessuno mai si renda conto di quanto sia opportuno talvolta fare un salto giù dalla corda, piuttosto che vivere con la preoccupazione e la tensione di stare sempre attenti a non cadere? Lo facessero per conto loro… niente da dire. Ma la mania degli equilibristi è quella di rompere le scatole a chi non è o non può essere o non riesce ad essere equilibrato per niente.
E sarò anche una squilibrata per questo, ma io preferisco gli squilibrii.
Preferisco valere dieci in dieci cose e zero in altrettante.
E chisseneimporta se per la maggior parte delle persone sarebbe meglio valere sei in tutte e venti le cose.
Preferisco essere lodata per dieci motivi e rimproverata per altrettanti.
E chisseneimporta se per la maggior parte delle persone sarebbe meglio passare inosservati per tutti e venti i motivi.
Scegliere di sminuire i propri pregi, per mettere in ombra i propri difetti è un comportamento che si addice a chi non è in grado di attribuire il giusto valore alle cose.
Ed io non mi sento più così piccola da scegliere di annullarmi per niente.

 
 
 

°*°exasperatio_cerebri°*°

Post n°369 pubblicato il 22 Marzo 2010 da fragolozza

C’è l’ironia a fare da balia alle deviazioni sentimentali. C’è l’asepsi a contornare di non senso la gratuità del dolore intenso. C’è la piccolezza dei miei picchi di saggezza e c’è la grandezza dei miei chicchi di debolezza. E poi c’è la distanza che, d’istanza, è sempre il miglior modo per chiudere tutte insieme le solitudini in una stanza e dopo uscirne fuori a respirare aria piena.
Da un certo punto di vista, potrebbero intendersi quali manifestazioni di un’exacerbatio cerebri che, in conformità all’estetica kierkegaardiana, mi permettono di inseguire e desiderare la realtà, per poi superarla, distaccarla e viverla nei filtri del ricordo e dell’immaginazione.
Da un certo punto di vista…
Perché da un altro punto di vista, molto più concreto e sincero, non sono altro che le manifestazioni di un’exasperatio cerebri che abbinata ad un’emotività alterata dalle troppe pressioni, dalle troppe vessazioni, dalle troppe situazioni che mio malgrado ancora subisco, fanno sì che non mi accorga nemmeno più dei paletti che sostengono i segnali stradali e ci vada a sbattere contro. E mi farebbe pure sorridere, tenendo conto che ho perso il senso dell’orientamento e qualunque segnale, di strada o di allarme, sarebbe un modo per ritrovarlo. E mi farebbe pure ridere,se ci fosse soluzione di continuità, rispetto a come mi faceva ridere inciampare, quando non avevo altro motivo per farlo e non c’erano corrimano ad offrirmi una presa.
Il problema è che io non credo nelle soluzioni di continuità.
Del resto, se si è già trovata la soluzione, che senso ha continuare?

 
 
 

***bisogno***

Post n°368 pubblicato il 17 Marzo 2010 da fragolozza

Rotte le scatole, dove finisce il contenuto?
Sono così abituata a vivere nella caducità della felicità, da credere troppo nell’eternità dell’infelicità.
La conseguenza è che la soggettività del mio tempo, scandita da troppi mai, da qualche forse e da decisamente troppi arrivederci, rende plausibile la convinzione che “io sono una facile da lasciare e anche più facile da dimenticare” “io sono  troppo estenuante per essere amata”, nonché ”un prodotto chimico volatile”
(fortuna che esiste Alanis a suggerirmi le parole, anche se sul prodotto chimico volatile non sono tanto convinta…).
La negatività della felicità consiste nella sua natura fittizia e arbitraria.
La positività dell’infelicità consiste invece in un alto spreco di energie, che accompagnato da un altrettanto consumo di calorie, fa sì che la mia massima urgenza di mattina sia correre al negozio del cinese a comprarmi le cinte per non correre il rischio di rimanere in mutande.
E tenendo conto di quanto avevo bisogno di dimagrire, potrei anche essere grata a chi mi fa incazzare.
Senonchè….
Senonché c’è che qualcuno ha bisogno di me.
Senonché è molto strano che abbia bisogno di me chi non dovrebbe affatto aver bisogno di me.
Senonché il fatto che non abbia bisogno di me chi mi piacerebbe avesse bisogno di me, ridimensiona il concetto di bisogno, riducendolo alla sua natura di fisiologica esigenza.
Ed è per questo che più che un prodotto chimico volatile, io mi vedo meglio come prodotto chimico solido.
Insomma, il risultato di tutta questa carambola di bisogni è che io mi sento sempre e solo una caccola (ogni tanto un eufemismo ci sta bene).

 
 
 

*°*bussola*°*

Post n°367 pubblicato il 10 Marzo 2010 da fragolozza

La sensazione che, senza azione, tutto sarebbe tristemente asciutto lava via la trascorsa ottemperanza all’inerzia, mai particolarmente gradita, ma molto dannatamente subita: in fondo tra potenza e atto subentra il fatto che senza l’una non sussiste l’altro e io voglio fortemente mettere agli atti quest’anticipo d’estate per il cuore, dove ramoscelli in fiore e frutti odorosi e buoni hanno ricoperto di boccioli e semi vivi banchi di stalattiti informi e foglie morte.
Il cielo, però, ha scelto di fare acqua da tutte le parti, nel giorno in cui ho fatto esperimenti di guida in stato di ebbrezza, non nel senso che mi sono ubriacata e poi mi sono messa al volante (scendeva acqua, non vino!), ma nel senso che per la prima volta ho provato l’ebbrezza di fare da guida turistica per mestiere.
Io e il lungotevere non siamo andati molto d’accordo nel calcolare la distanza dalla cassazione alla sinagoga e mi sono ritrovata con un branco di tredicenni infoiati alle calcagna, mentre pazientemente cercavo di far capire loro che forse il percorso che avevo scelto era sbagliato, forse era un pochino lungo, forse pioveva, faceva freddo e tirava il vento… ma, cavoli! Le nuove generazioni sono decisamente troppo pigre! E poi  solo nel monopoli è possibile raggiungere la destinazione stabilita, senza conoscere la strada e soprattutto senza passare dieci volte dal via! Io facevo la guida, mica la candela predestinata dai dadi?

C’è un che di paradossale nel ritrovarsi proprio adesso.
Perché è necessario smarrirsi prima di capire finalmente qual è la strada giusta?
Avevo perso la bussola ed ora navigo fra mille pensieri.

 

 
 
 

*°*uva*°*

Post n°366 pubblicato il 04 Marzo 2010 da fragolozza

Il saluto a questo giorno di quest’inverno cronologicamente quasi andato, ma climaticamente ancora vivo e vegeto, è una frase che ho letto vergata su un muro stamattina e cioè: “Te lo dico da Tor Bella Monaca, che io non sono una foca monaca”.
Dapprincipio mi ha fatto sorridere nella sua assoluta mancanza di senso, poi come mia abitudine un senso forzatamente gliel’ho trovato.
E non è un senso unico, anzi è parecchio sfaccettato e intrinsecamente legato all’idea che forse la colpa della mia realtà distorta è del mio nome che in forma lunga e corta, fa rima con utopia.
E così dalle foche, sono passata a pensare alle volpi.
Non mi sono mai ritenuta particolarmente furba, sebbene ritenga che non abbia alcuna importanza scriverlo visto che troverò sempre qualcuno (e purtroppo più di uno) pronto a fraintendere e a pretendere quello che nemmeno io ho mai preteso da me stessa.
Ma quale dovrebbe essere l’alternativa?
Autocensurarmi? Smettere di scrivere e zittirmi i pensieri solo perché farei più bella figura?
La desistenza, che a differenza delle sue sorelle etimologiche (resistenza e insistenza) ha il vantaggio del poco spreco, ha lo svantaggio di una conseguente persistenza (altra sorella etimologica) di dubbio. Io non ho dubbi per questo non desisto. E lo so che scritto così è talmente complicato che o non ci si riconosce nessuno o ci si riconoscono tutti (ed io preferisco vivamente che non ci si riconosca nessuno).
Ma se la ragazza di Tor Bella Monaca pensa di non essere una foca monaca, io penso che sarà pure troppo alta, sarà pure troppo acida, sarà pure ancora non matura, ma l’uva, distante e per questo inalterabile, merita tutta la mia stima e i miei tentativi di emulazione.
 E fanculo all’invidia e alla stizza dei vecchi volponi!

 
 
 

***la_lettera***

Post n°365 pubblicato il 03 Marzo 2010 da fragolozza
 

Non avrei potuto escogitare un espediente più stupido.
Ho fatto finta di frugarmi nelle tasche e ne ho estratto un foglietto, l’ennesima lettera per te, scritta appena poche ore prima. Nonostante ti stessi mostrando più indifferente del solito alla mia presenza, sapevo che, per pura curiosità, me lo avresti strappato dalle mani. E così è stato.
“Cos’è?  Una lettera d’amore?” E ti sei messo a ridere.
“Ridammelo”
“Cos’è?”
“Cosa vuoi che sia? Un vecchio foglio. Non so nemmeno a quanto tempo fa risale. Era da tanto che non indossavo questa giacca. Dai, ridammelo!”
“No!” Ed hai cominciato a leggere.
A quel punto mi sono sentita davvero cretina. Ma cosa avevo sperato? Che sarebbe bastata una lettera per farti innamorare di me?
Hai finito e me l’hai restituita. Avevi l’espressione perplessa, ma non è durata molto.
Hai subito ripreso a fare commenti su ogni ragazza carina che ti capitava a tiro.
Io mi sono chiusa in un assurdo mutismo. Se non fossi stata tanto ossessionata dal desiderio di rimanere lì con te, sarei scappata a casa e, per penitenza, mi sarei infilata non sotto le coperte, ma sotto il letto. Ma le gambe mi si paralizzavano alla sola idea di dovermi separare da te. Non c’era niente da fare. Eri colla.
Luca mi si è avvicinato e mi ha chiesto come stavo.
“Bene! Come sempre!” Ed ho provato a sorridergli, ma non credo se la sia bevuta.
Forse ha intuito qualcosa. Mi dice sempre che devo trovarmi un ragazzo, un bravo ragazzo che mi renda felice, perché gli sembro perennemente triste. Sì, credo proprio che si sia reso conto che sono innamorata persa di te.
E tu? Forse anche tu e magari è per questo che, per il resto della serata, non mi hai nemmeno rivolto la parola.
Però sei stato gentile quando, andando via, mi hai chiesto se venivo con te.
“Sì, si è fatto tardi.” Ti ho risposto. E mi sono incamminata al tuo fianco senza dire nulla.
La strada da fare non era molta: dieci metri di viale, una piazza da attraversare ed eccoci sotto casa mia.
Ti ho chiesto se ti andava di fumare una sigaretta con me, una scusa che utilizzavo già da un po’ per trascorrere i residui scampoli della sera da soli. L’unico modo che avevo per tenerti tutto per me, per parlarti, per dirti anche stronzate, ma solo per te, senza orecchi estranei ad ascoltare.
Hai accettato e l’ho accesa. Una sigaretta per due, cosicché le mie labbra potessero poggiarsi sulle impronte delle tue.
“Per chi hai scritto quella lettera?”
“Un ragazzo. Non ricordo nemmeno chi. E’ passato tanto tempo.”
“Dammela.”
E non so per quale assurdo motivo l’ho ritirata fuori dalla tasca e te l’ho data.
L’hai riletta, stavolta, ad alta voce.
Vorrei trovare il coraggio di dirti ciò che non riesco a dirti, che mi manchi anche quando ci sei, ma che, nello stesso tempo, mi accontento di starti vicino; che ti sento, con ogni mia cellula e in ogni mio respiro, perché sei l’anima stessa di tutto quello che ho intorno; che ti cerco e ti trovo in qualunque pensiero, affiorante dalla mente e carezzante il cuore. I miei sensi non hanno senso, se non sei tu ad allertarli. Le mie azioni sono puro affannarsi, se non è verso di te che oriento i miei passi. Lontano e distante, eppure ti ho dentro. Io ti sono fuori, altrettanto lontana e distante, ma indifferente. Vorrei solo che tu mi volessi un po’ bene…Dai, per chi l’hai scritta?”
“Ti ho detto che non mi ricordo.”
“Almeno dimmi a quanto tempo fa risale.”
“Ma non lo so! Credimi!”
“Allora buttala!”
“Buttala tu!”
“Ok, anzi no. Ho un’idea migliore. Che ne dici se la bruciamo?”
“Bruciarla?”
“Sì, passami l’accendino.”
L’accendino che ti ho messo nelle mani poteva benissimo essere un coltello, perché il modo in cui l’hai usato ha sortito lo stesso effetto. Ti ho guardato accartocciare il foglio e appiccare la fiamma. Le mie parole sono subito diventate cenere.
“Ecco fatto. Ora vado. Buonanotte.”
Ero una statua di sale. Non ho pianto, perché mi sarei sciolta.
“Buonanotte.” Ho mormorato a stento. Ed ho aspettato che il mio sangue riprendesse a circolare e che tu fossi abbastanza lontano da non vedermi, per poter finalmente piangere.

 
 
 

°°°pomeriggi_d'_inverno°°°

Post n°364 pubblicato il 01 Marzo 2010 da fragolozza

Ricordo ancora il silenzio dei nostri pomeriggi insieme: la mamma a sminuzzare le verdure per il minestrone di riso, io a fare i compiti di scuola. Il gatto ronronava acciambellato su una sedia, la pendola scandiva il tempo dei giorni brevi dell’inverno.
Qualche volta alzavo gli occhi dal quaderno e guardavo la mia bellissima mamma.
Anche lei, di tanto in tanto, mi guardava.
Pensavo: “Adesso mi parla, mi racconta qualcosa”. Lei taceva. Avara di parole, come di gesti teneri, non mi interrogava, né mi raccontava i suoi pensieri.
Buttava nell’acqua bollente le verdure tagliate e lavate.
Poi pescava nel sacchetto di juta due manciate di riso e le versava nella tafferia, un recipiente largo e basso, di alluminio, che serviva per mondare il riso.
Osservavo incantata la sua gestualità sapiente nel far danzare i chicchi che si libravano nell’aria, verso l’alto e precipitavano di nuovo sul fondo della tafferia eliminando le scorie che lei soffiava via.
Ogni volta commentava: “Bello, questo vialone abbiatense”.
Io avrei voluto che dicesse: “Bella questa mia bambina”.
Non mi ha mai fatto un complimento, non mi ha mai dato una carezza. Era una mamma di una volta.*
Non mi ha mai chiesto: “Vuoi bene alla tua mamma?”
Io le avrei gridato, nella mia voce stentorea e bambina: “Sì che te ne voglio!” e in un abbraccio mi sarei sciolta d’amore.
Ma le cose non vanno mai come si spera e ti ritrovi su un ciglio di strada, donna  non più bambina, a ricordare una madre che solo per poco fu madre, a desiderare un figlio, tu che non fosti mai figlia.
L’indolenza del destino è un ruolo cucito addosso senza troppa convinzione.
C’era luce piena nei miei pomeriggi d’infanzia, quella luce intensa, ma breve, che non torna nemmeno a cercarla. Sul fare della sera, giocavo con le ombre disegnate sui libri da una molle candela. Nei simboli, nei colori, nelle strofe arcane di poeti che scrivevano senza farsi capire, non intravedevo alcun senso. Alzavo gli occhi cercando un conforto o soltanto il coraggio di chiederle aiuto.
Sbuffi di vapore appannavano i vetri, odore di cipolla pizzicava il naso e la schiena di mia madre che diceva: “Tra un po’ arriva tuo padre, sbrigati a finire.” E di nuovo silenzio.
Presto sarei diventata grande e non avrei avuto alcuna fretta nel rimuginare su giorni che non erano stati giorni, ma prologo del futuro.
Ma cos’è il futuro? Prima è domani, poi diventa un mese, poi, ancora, un decennio.
Chissà se mia madre, nella mia mente attualmente impressa quale Venere immatura e sofferta, si chiedeva che donna sarei diventata.
Finalmente il silenzio di quei pomeriggi, frattanto diventati notti scure, veniva interrotto dalla chiave che girava nella toppa della massiccia porta di casa e dai passi pesanti di mio padre su per il corridoio. Saluti smorzati, nessuno schiocco di baci e rumore di sedie. Poi soltanto il suono dei respiri, dei risucchi e del metallo contro le porcellane rigate d’oro, quello che io chiamavo il canto del vecchio servizio di nonna.
Dopo cena, quando papà dormiva ormai da un pezzo ed io ripassavo le ultime  nozioni, rimesso a posto l’ultimo utensile opportunamente ripulito, mia madre lasciava la cucina e si abbandonava contro il vellutato schienale del nostro divano malridotto, le gambe nascoste sotto un plaid di lana a scacchi. Anche in quei momenti sembrava presa, assorta, altrove. Chi l’avesse guardata, avrebbe sentito il rumore dei suoi sguardi, gettati in ogni dove a cogliere gli spifferi di vento al di là delle tendine a fiori, che pavesavano le piccole finestre del nostro soggiorno.
Le aveva cucite due mesi prima che mio fratello morisse. Eravamo così felici allora! Ritagli di stoffa sul pavimento e bambole nude, fili di cotone e soldatini di piombo, due bambini vivaci, una madre ed un padre. Che fosse solo quella la mia felicità?
Poi una lapide bianca.
Sempre d’inverno, ma un inverno più cupo, più freddo, gelato, agghiacciante.
Mi ammalai per prima. Cominciai tirando su col naso, le guance più rosse di sempre. Ricordo che mio padre, ogni sera, seduto al capezzale del mio letto, mi stringeva al petto e pregava, ogni tanto piangeva, finché fui guarita e mi disse: “Sei una bambina forte.”
Poco tempo dopo, quando si ammalò mio fratello, l’avrei contraddetto, rimproverandogli, ma senza parole, quella stessa forza che lui non era stato in grado di mostrare nei momenti più duri.
Mia madre non mi disse mai niente. Trascorse quell’inverno e quando venne primavera, sapeva ormai che era stato un puro caso se il cielo mi aveva respinta.
Odiai mio fratello con tutta me stessa. Se non fosse morto, lei non mi avrebbe addossato l’implicita colpa di essergli sopravvissuta o di avergli passato il mio male.
Eppure, più l’odio mi scavava dentro, più avevo bisogno d’amore e più avevo bisogno d’amore, più lei si ritraeva dal mio raggio, ossuta e scostante, quasi avesse paura.
All’età di dieci anni, quando fui abbastanza grande per capire, le chiesi perché non mi amasse. In tutta risposta, mi chiese: “Non devi studiare?”
Il ricordo di quei pomeriggi è uno spillo piantato nel petto, un’immagine di tenerezza appena vagheggiata.
Se potessimo sceglierci la vita e non solo la morte!
Quanti modi per farci dolore, per girare il coltello nelle zone più dolenti e martoriate!
Mia madre si è scelta la morte in un giorno di pioggia e mi chiedo chissà quale inverno monderà anche la mia anima stanca.

*incipit di Sveva Casati Modignani

 
 
 

*°*siamese*°*

Post n°363 pubblicato il 24 Febbraio 2010 da fragolozza

Non si può sentire la mancanza di ciò che non si è mai avuto.
Questa è retorica, non meno retorica di quando, pulendo il vetro e guardando fuori, l’alba mi suggerì che non potevo star male due mesi per una cosa che mi aveva resa felice per un solo mese.
La mia anima, troppo siamese per essere gemella, ha sempre  graffiato il pensiero di chi ha pensato, anche per un solo attimo, di essere al centro dei miei pensieri.
E non lo scrivo perché attribuisco peso a ciò che peso non ha- infatti ho buttato giù questa cosa ieri sera al punto da dimenticare a cosa mi riferivo- ma solo perché a volte mi sento come
Alanis che canta Uninvited ed entro così bene nella parte da non rendermi conto, che, in fondo, io ho una voce troppo da zampogna, anche solo per poter immaginare di sentirmi come Alanis.
Il punto (e aggiungo anche le virgole, le virgolette e gli accenti) è che ho acquisito consapevolezza di ciò che non va e me ne frego se gli altri capiscono, se non capiscono, se gli interesso o se vogliono solo toccarmi il sedere.
Il punto (e stavolta non ho bisogno di aggiungere niente) è che, come se non  mi bastassero le mie sindromi certificate, me ne sono create alcune non ancora certificate, credo, e che forse un giorno mi permetteranno di entrare a pieno titolo in un annale (e fosse anche un annale di malattie mentali è pur sempre un bel traguardo essere annualizzati… questa almeno è la mia opinione).
Il punto è che la lucidità è una caratteristica che ben si addice alle bocce, alle biglie, alle sfere di cristallo ed io sono così troppo senza palle e così troppo poco prevedibile che quando considero lucidamente i miei deliri mi viene il panico.
“Perché quando sto male mi vuoi bene e quando sto bene non te ne frega un cacchio?”
La sindrome del sopravvissuto è la peggiore e ogni giorno muori consapevole che chi ti sta intorno, al massimo, può prometterti di cambiarti i fiori nel bucale quando saranno secchi... niente di più.
Certi giorni sono viva per dispetto.

 

...Like any uncharted territory
I must seem greatly intriguing
You speak of my love like
You have experienced love like mine before
But this is not allowed
You're uninvited
An unfortunate slight...

 
 
 

***???destino???***

Post n°362 pubblicato il 17 Febbraio 2010 da fragolozza

Scoprire nel giorno del proprio compleanno di avere il compleanno in comune con Lamberto Sposini è...
... non lo so neanch'io com'è...
Sono parecchio sconvolta. 


 
 
 

*°*per_dono*°*

Post n°361 pubblicato il 16 Febbraio 2010 da fragolozza

Per dono vorrei il perdono della stessa me stessa ma, per dizione, perdizione e perdita coincidono quel tanto che basta a che siano rovina e l’attesa di un qualsivoglia dono è disattesa dalla percezione che, per cessione distratta e inopportuna del diritto di sentirmi a posto, mi ritrovo a rovescio e fuori posto.

Ciclicamente mi lascio ossessionare dalla mie stesse parole. L’ossessione del momento è rappresentata dalla frase: IL VUOTO CHE AVEVI RIEMPITO E’ PIU’ VUOTO DI PRIMA. Ed è una frase che, se fossi intellettualmente disonesta, potrei attribuire a qualcuno, scrollarmela di dosso e passare a un’ossessione diversa.
Ma è tutta mia e me la merito appieno.
Non sono mai stata capace di colmare degnamente i miei vuoti.

 
 
 

°°°le_coccinelle_non_volano°°°

Post n°360 pubblicato il 14 Febbraio 2010 da fragolozza

Penso che nessuno apprezzi appieno S. Valentino, quanto un certo signore perugino. Ma per essere romantica quel tanto che basta...

ESTATE 2004
"Immagino la tua espressione bacata, qualora ti chiamassi con un pretesto qualunque e, date le mie abitudini, assurdo....magari solo per dirti che, secondo me, le coccinelle non volano.
Ma volano?
Tu dicevi di sì e alla luce degli attuali fatti e, soprattutto, della fine che ho fatto, dovrei darti ragione e, per chiederti scusa, ridarti quella rosa che non meritavo e che  ancora conservo.
Lo sai che l'altro ieri era il suo compleanno?
Avrei dovuto dimenticarmene o far finta di niente, come quando a gennaio, incontrandoti per caso (sempre per caso!Caso strano!) infilai la testa nel cruscotto dell'auto per sopprimere l'esigenza di dirti: "Auguri!".
Ed invece, stavolta, considerata l'irripetibilità di quanto era accaduto un anno prima, ho celebrato l'agonia di un fiore impolverato come si celebra una grande ricorrenza.
Poi mi sono pavesata come un balcone a festa, sono uscita, ho traballato sui tacchi e, tenendo alta la tazzina, ho brindato col caffè al mio straordinario intuito e all'incomparabile capacità che ho di sentirti nell'aria.
Più di mezz'ora a guardarti da più di 50 metri.
Avevi una maglietta a strisce rosa e verdi.
Mi sarei dovuta chiedere che fine avesse fatto il tuo buongusto, ma eri troppo lontano e, dunque, apparivi perfetto.
E sembravi anche allegro, mentre io, deficiente incallita, litigavo con una necessaria sigaretta che, per vendicarsi del modo cruento in cui la stavo aspirando, mi sputava la cenere sulle scarpe.
Se non t'avessi mai incontrato avrei salvaguardato i miei polmoni?
Probabilmente sì, se è vero che ho preso a fumare di brutto quando, dopo averti confessato di aver fatto un tiro, mi dicesti che ero una scema.
E ora che sono certa tu mi odi, credimi, ho perso la misura.
Perciò attribuisco al fiato corto, piuttosto che alla mia vigliaccheria, l'inettitudine a rincorrerti.
Ma mi vuoi ancora bene?
Io, di certo, non me ne voglio, se sono qui a scriverti.
Potrei uscire fuori a godermi il sole, piuttosto che trivellarmi la memoria alla ricerca del suono giusto che mi ricordi la tua voce.
Ma le coccinelle non volano.
E stavolta mi sa tanto che ho ragione io."

 
 
 

*°*oh_mon_amour*°*

Post n°359 pubblicato il 12 Febbraio 2010 da fragolozza

Il mio regalo anticipato di San Valentino quest’anno è una penna che CANTA Je t’aimee, moi non plus.
Non sono mai stata così felice di ricevere quello che merito… e mi riferisco alla penna, non alla canzone, che, comunque sia, ha un suo perché e soprattutto un mio perché.
Qualche anno fa,  Brian (Molko per chi non lo sapesse) ne incise una cover con Asia Argento.
La scoprii nel periodo in cui per la prima volta insegnavo e ricordo che l’ascoltavo a palla.
Andavo a scuola e l’ascoltavo, uscivo da scuola e l’ascoltavo, entravo in sala professori e l’ascoltavo… insomma, ogni volta che non avevo altro da fare, l’ascoltavo.
Fortuna (?) volle che avessi in classe un’alunna francese, così un giorno, durante l’intervallo, le chiesi: “Gemma, mi fai un favore? Mi traduci questa canzone?” Le infilai le mie cuffie nelle orecchie e avviai il lettore mp3.
Osservavo il suo viso aspettandomi un’espressione deliziata e assorta, un’espressione da estasi. Ma Gemma non era estasiata. Gemma rideva.
“Embè?” le chiesi. “Fa ridere?”
Tu vai e tu vieni dentro ai miei reni. Amore mio, tu sei l’onda e io l’isola vergine. Professorè, lei piangerebbe?”
Sì… per la figura di merda!

 

 
 
 

°°°optabile°°°

Post n°358 pubblicato il 07 Febbraio 2010 da fragolozza

Scientificamente parlando, lo si sarebbe potuto definire il più stretto parente dell’oreopiteco Sandrone, un essere dalle fattezze scimmiesche e dall’ingegno ancora poco evoluto, ma dotato di una presunzione tale da sentirsi già uomo invece che ancora animale.
Volgarmente parlando, invece, lo si può definire un maiale che non ha nulla da fare la domenica mattina, se non importunare una ragazza che sta per fatti suoi a fumarsi una sigaretta in attesa che giunga l’autobus che la trasporterà altrove.
E’ disarmante il modo in cui certe persone si ostinano a violare la solitudine altrui. E’ raccapricciante quel bacio da cantante neomelodico (alla Gigione e Donatello, per essere più precisi), stampato sulla punta dell’indice e spedito nell’aria, a dispetto del mio disappunto, del mio fastidio, del mio totale disinteresse nei riguardi della sua morbosità.
Non sopporto chi non sopporta i miei silenzi. Non sopporto chi mi chiede: “Ci vogliamo conoscere?”. E non sopporto la vergogna che provo ogni volta che mi capitano certe cose. Perché tutte le volte che un determinato soggetto sceglie proprio me come optabile oggetto, mi viene il dubbio che ho la faccia di una a cui basta fare un cenno perché salga su un’auto. E non è affatto un bel dubbio.

 
 
 

*°*auto*°*

Post n°357 pubblicato il 06 Febbraio 2010 da fragolozza

Forse è la cosa più scema che abbia mai pensato, ma…
Se automobile si dice semplicemente auto e se tutto ciò che è riferibile esclusivamente a se stesso comincia per “auto”, tipo autonomia, tipo autarchia, tipo autismo, non è forse logico pensare che chi è autonomo, autarchico e autistico arriva più veloce e più lontano di chi invece non lo è?

L’apologia notturna della solitudine, innaffiata da una birra peroni che non contattavo da un pezzo, sfocia in mille necessari contrappunti a cui teoricamente, vista l’ora, non dovrei dar seguito. Ma le propaggini divagano, divaricano e disanimano anche la più nerboruta forma di ostentato ottimismo. Per questo le seguo.
Tipo… l’amore è complicato di natura. Se non fosse complicato, non sarebbe amore, ma sarebbe solo una complicazione. Non è forse vero?
Quando penso certe cose mi chiedo se qualcuno le ha già pensate.
Tipo… qualcuno ha mai pensato che tutti quanti nasciamo con un carico di convinzioni ben piantate nell’anima, ma solo pochi affinano lo scalpello e diventano bravi nel disseppellirle dall’inconscio e dar loro la giusta  forma?
Tratto la mia anima come Michelangelo trattava i pezzi di pietra. Tutto è già lì dentro. E io devo solo essere brava a tirarlo fuori senza rovinarlo.
Tipo… qualcuno ha già pensato che il modo migliore per introdurre un elenco di pensieri in un post iniziato parlando d’auto era proprio la parola “tipo”?

E scritto questo posso anche andare.

 
 
 

*°*CapitolO I- AttO II*°*

Post n°356 pubblicato il 04 Febbraio 2010 da fragolozza

(...) Sono in una casa non più mia e il terriccio che insudicia il tavolo, accompagnato fin lì da un vento infame, che si è sempre divertito a vedermi sudare tra strofinacci e spugnette intrise di acqua e sapone solo per beffarmi con rapidi e nuovi millimetri di sporco, è il mio schiaffo sul viso. Schiaffo metaforico ma che non brucia meno dei reali impatti di mani violente sulla mia anima inerme tutte le volte che sbaglio.
L’esattezza di un gesto o di una decisione è un concetto arbitrario e manipolato dal soggetto predatore. Io sono la preda incapace di andare al di là del male.
Riposo gli occhi, ma mi rivedo, non esattamente lì, ma poco oltre, sia nel tempo che nello spazio.
Fuori da questa stanza il sole innaffia di calore la città dormiente. Dentro di me è fine inverno, quasi primavera, e buio pesto.
Non c’è nessun tavolo e il cruscotto è lindo e profuma di lavanda.
“Apri il cancello” mi ordina Ivan, mio fratello, mentre siamo fermi nella Fulvia sotto casa.
“Non voglio scendere. Aprilo tu!”
“Sbrigati!” mi urla.
“Non voglio!” replico, sbadigliando per la stanchezza di un’ennesima giornata vissuta controvoglia. Ho bisogno del mio letto, dei miei spazi, di tutto ciò che mi fa sentire al sicuro. Delle sole cose che riesco a trascurare. Devo dimenticare e dormire, dormire e dimenticare.
“Scendi ad aprirtelo da solo!”- insisto- e nel mentre volto la faccia verso il finestrino, sono già consapevole di quanto poco valgano le mie proteste.
Il sedile scomodo della Lancia in cui siedo, non è un’arma e nemmeno una buona difesa. Perché in un istante mio fratello si è portato fuori dall’abitacolo ed è lì, pronto a spalancare il mio sportello, per dimostrarmi che non ho possibilità né di diniego né di scelta.
Mi afferra per una ciocca di capelli e mi trascina fuori. Mi spinge con forza e  prima batto il fianco contro l’auto poi finisco a terra, carponi. La punta di un sassolino mi affonda nel palmo della mano destra.  La sinistra è uno scudo con cui cerco di difendermi la pancia dai suoi calci, ma mi prende a pugni la schiena e allora mi arrendo e affondo in terra entrambi i palmi, cosicché i graffi che mi procuro da sola alle mani mi distraggano dal dolore che mi infligge lui, chino su di me, pronto ad annullarmi.
Finisce com’era iniziata. Ivan si rimette in auto e mi lascia fuori senza una parola. Mi rimetto in piedi, zoppico qualche passo e gli apro il cancello.
“Richiudilo!”
Mette in moto. Sulla sua faccia campeggia un’espressione vuota. Non ne ho la certezza, perché la notte è un mostro che spalanca le sue fauci e mi ingoia in una tenebra orfana di una dentatura di stelle ormai spente. L’unico bagliore certo è quello delle luci di posizione che si arrampicano su per il viale fino all’entrata del garage, che così lontano somiglia a un anfratto da strega.
Sono consapevole che la mia memoria è poco lontana dai blocchi di partenza e troppo condizionata dalla coscienza del presente. Per questo non riesco a spiegarmi come io abbia mosso quei passi, da un ciglio di strada, ai gradini di marmo, fino al corridoio e alla mia stanza.

Ho amato con un’incoscienza pari alla coscienza con cui adesso odio. (...)

 

 
 
 

*°*...che domande...*°*

Post n°355 pubblicato il 01 Febbraio 2010 da fragolozza

“E’ normale che gli estranei siano più gentili delle persone che mi conoscono?”
“Certo! Perché gli estranei non ti conoscono!”

Con la roba che abbiamo infilato nel carrello potremmo risolvere il problema della fame in Angola. Sono di fianco alla cassa, distratta dallo scomparto delle pinzette per le sopracciglia e delle forbicine per le unghie.
 Lilli mi scuote il braccio. “E’ il nostro turno”, mi dice,
ma poco pochissimo più distante c’è un’altra coppia.
“Prego” dico senza pensare e faccio un gesto con la mano invitandoli a precederci.
“E’ sicura?”
Perché me lo chiedono? Hanno solo una busta di insalata e due pacchi di tortellini. E’ ovvio che sono sicura!
Lilli non lo è e mi guarda in cagnesco.
Mi distraggo di nuovo, con lo sguardo avviluppato da tutte le cose che abbiamo comprato, e Lilli mi scuote il braccio. “Guarda che il signore di prima ti sta ringraziando”.
Alzo la testa, mi volto a lato ed effettivamente vedo l’uomo quasi chino sul nastro scorrevole che mi saluta e mi dice grazie grazie.
“Ah… sì, certo, e di cosa? Ciao.”
Finalmente imbustiamo, paghiamo e andiamo via.
Lilli non è più cagnesco ma è comunque pensieroso.
“Solo tu fai ancora certe cose”
“Quali cose?”
“Come quali cose? Loro non ti avrebbero fatta passare. E pensi che, fosse stata al tuo posto la tizia di ieri quella a cui si è sfondata la busta con la spesa e che hai aiutato, malgrado avessi tu stessa una valigia pesante,  malgrado piovesse, malgrado l’indifferenza generale, ti avrebbe aiutata?
“E che m’importa? Mica lo faccio apposta?  Mica mi aspetto qualcosa?  Mi piace sentirmi dire grazie. Mettiamola così.”

Oggi a lavoro ho stilato una lista di verbi che cominciano per IMP. Il primo era impiccarsi, il secondo impietosirsi, il terzo impasticcarsi e via di seguito. Ne ho messi insieme una ventina. L’ultimo era importare.
E’ buffo che importare abbia sia una valenza commerciale che, nella forma impersonale, una valenza emozionale. Come se le persone a cui non importa mai nulla, non importando nulla, fossero più vuote e più povere delle altre.

 

Sto Bene
Ognuno ha
Il proprio centro in questo universo
Ma finisce tutto qui
E i ragazzini che cercano di vedere tutto
Facendo graffiti sui muri
Ma finisce tutto qui
E siamo tutti informati
Da uno show televisivo
Ma finisce tutto qui
E prenditi cura di te
Perché gira tutto intorno a te

Ma finisce tutto qui
Mi sono perso a guardare
Un mare di visi dovunque
Adesso dov’è andata lei?
Devo trovarla subito
Per battezzare la mia insicurezza
Sono solo in mezzo a questa gente
E ho bisogno di provare l’amore
E ho bisogno di sentirmi parte di qualcosa
E’ strano?

E perché sono riluttanti a parlare
E perché sembrano soli quando camminano?
Vedo un viso ma nessun nome
Ma nonostante la mia confusione
Sono arrivato alla conclusione
Che le persone
Hanno bisogno delle persone
E’ una cosa che dimentico
Ma ho accettato il fatto
Che le persone
Hanno bisogno delle persone
E sto bene
Ed è tutto ok
Sto sopravvivendo bene

Senza di te
E cosa volevi
E cosa ti aspettavi
Volevi che parlassi ancora di te?
No, niente affatto
Sono da solo adesso
E sto bene (e sto bene)
No, niente affatto
Sono da solo adesso
E sto bene (e sto bene)
E chiunque può dare del denaro
Per una buona causa
Ma finisce tutto qui
E chiunque può firmare una petizione
Per cambiare la legge
Ma finisce tutto qui
E possiamo credere nel socialismo
O in qualsiasi altra teoria
Ma finisce tutto qui
E prenditi cura di te
Perché gira tutto intorno a te
E finisce tutto qui
Ma io non ne faccio parte
Non vedo quello che vedono loro
Sto fissando il tetto del mondo
Per vedere cosa c’è
All’orizzonte

Forse ti rivedrò un giorno ragazza
Ma nonostante il mio duro trattamento
Sento ancora
Che le persone
Hanno bisogno delle persone

E’ una cosa che dimentichiamo
Ma dobbiamo accettare
Che le persone
Hanno bisogno delle persone
E sto bene
Ed è tutto ok
Sto sopravvivendo bene
Senza di te
E cosa volevi
E cosa ti aspettavi
Volevi che parlassi ancora di te?
No, niente affatto
Sono da solo adesso
E sto bene
No, niente affatto
Sono da solo adesso
E sto bene
Io sto bene

 

 
 
 

*°*novità*°*

Post n°354 pubblicato il 30 Gennaio 2010 da fragolozza

Il binomio presente/passato riverbera le sue proprietà anche sulla possibilità di vivere una novità: cos’è una novità se non un qualcosa che non fai manco in tempo ad apprezzare e già ti appare vecchia e abituale?
La comparazione tra le solite circostanze e le insolite circostanze funziona come una lampadina a basso consumo. Non riesco a vedere chiaramente e finisco col fare continue associazioni, un po’ per orientarmi, un po’ perché niente è realmente inedito, se si escludono i dettagli di superficie.
Riuscirò ancora a sorprendermi?
La mia soluzione al problema è che non importa quanto dura lo stupore, l’importante è stupirmi e per riuscire a farlo, mi basta concedere un po’ di credibilità alla constatazione del “non ho mai…”, che se da un lato tiranneggia la coscienza col suo vuoto d’esperienza, dall’altro lascia largo margine alla libertà di elaborare e poi sperimentare una sequela di nuove gesta inconsulte.
L’altro giorno, ad esempio, mentre ero al negozio della signora Numa e consultavo il catalogo delle tinture per capelli, mi è venuto in mente che io non ho mai usato il decolorante.
Quindi adesso mi ritrovo che sembro la sorella parruccona di Billy Idol e non faccio che riderne da sola.
E lo so che tra un po’ ci farò l’abitudine e smetterò di ridere e allo stupore assocerò la ben più consona stupidità. Ma prima di applicare il colore giusto, per poi probabilmente ripiegare su un ermetismo fantozziano che annichilisce l’ilarità e troppo spesso mi è causa di opinioni spacciate per dati di fatto, mi godo in solitudine questa inaspettata ossigenazione mentale, parentesi personale di un anticipato carnevale .

 
 
 

**C_P_C***

Post n°353 pubblicato il 28 Gennaio 2010 da fragolozza

Casa Dolce Casa nel mio caso è un Casa Pizza Casa, motivato non tanto dalle locali abitudini alimentari, quanto dal modo in cui mi si appiattiscono i sentimenti ogni volta che ritorno o per come mi si impastano le lacrime al limitare della gola, dove vorrei ci fosse solo respiro, invece il più delle volte è un rantolo rabbioso ben disteso, ma non per questo soffocato.
Sapevo sarebbe stato inutile, un’ennesima umiliazione inutile, con gente pronta a scrutarmi come fossi una cavia da laboratorio, una cavia che però è troppo strana per essere incasellata, catalogata…. persino riconosciuta.
“Hai qualcos’altro?”
Vorresti che avessi anche la leucemia?
Ma rimango zitta.
Perché nemmeno il sarcasmo stavolta mi è di conforto.

 
 
 

°°°contare°°°

Post n°352 pubblicato il 26 Gennaio 2010 da fragolozza

Una bambina conta da uno a dieci e da dieci a uno e lo fa ad alta voce come se si aspettasse  l’applauso della folla astante, per un qualcosa che ha appena imparato e che ancora le sembra tanto speciale.
Per me, imparare a contare non fu affatto speciale, ma fu una cosa che detestai fin dall’inizio, per l’ossessione con cui presi a numerare tutto ciò che mi circondava, tutto ciò che mi capitava.
Mi spostavo da un posto all’altro ed erano uno, due, tre, quattro, cinque, sei passi fino a dieci… e di nuovo uno, due, tre.. (e a quel punto basta perché a tre anni non mi spostavo poi tanto).
Mangiavo la pasta ed erano uno, due, tre, quattro, cinque, sei maccheroni fino a dieci… e di nuovo uno, due, tre.. (e a quel punto basta perché a tre anni non mangiavo poi così tanto).
Poi crebbi e capii che contare tutto e contare tutti, non significava contare per tutti, ma era piuttosto un non contare per niente e venni fuori da quell’ossessione raccomandandomi di contare e far contare solo ciò che di per sé contava
Il problema è che apparentemente è un tutto che conta, cui si somma un fare i conti con tutti, che non paga il conto al tempo perso a contare cose che non contavano affatto. (mi sa che mi sono incartata).
Insomma… non ci si libera dalle ossessioni così facilmente e quand’anche si credesse di esserci riusciti, c’è un qualcosa che inevitabilmente torna a fomentarle.
E’ un po’ come togliersi o tagliarsi un pezzo e sperare che, almeno in superficie, il tessuto cicatriziale, in quanto meno elastico possa arginare  la ricostituzione di ciò che, dal profondo, vorrebbe ritornare.
Solo che le cicatrici non sono tutte uguali.
E la mia anima è tutta un cheloide.

PS: ... e adesso forse anche tu stai pensando che siamo troppo diversi...

 
 
 

***il_the_caldo_delle_notti_insonni***

Post n°351 pubblicato il 25 Gennaio 2010 da fragolozza

Non era così da un pezzo, da quando ritenendo di non aver nulla da perdere, convivevo con quei solchi scavati a mo’ di anatomici canali di Panama tra l’attaccatura del naso e quella delle orecchie, quasi non fossero occhiaie, ma stigmate non cruente atte ad un’espiazione che una volta finita o sarebbe stata rovina o sarebbe stata redenzione.
Ma, a quanto pare, non si smette mai di espiare.
“Camminare nella pioggia ti fa sentire più importante, perché stare male è più nobile per te.”
Nel pomeriggio ho canticchiato questa canzone, un po’ perché pioveva, un po’ perché camminando nella pioggia avrei sentito freddo e, se avessi sentito freddo, forse non avrebbe continuato a fare così male.
Ma faceva male comunque, ma fa male anche adesso ed io non mi sento per niente nobile, bensì immobile e per certi versi immemore, nei riguardi di tutte quelle volte che mi ero ripetuta di tenere bene a mente quando profondo fosse, quanto sconvolgente fosse e, non di meno, quanto significativo fosse desiderare di perdere definitivamente la testa, ma nel modo più letterale dell’espressione.
E che la canzone si intitoli “lasciarsi un giorno a Roma” è solo un caso, perché mi ritrovo a ripetere che preferirei mille volte essere lasciata, essere licenziata, essere imbrogliata, piuttosto che ritrovarmi costretta a sopportare un’orchestra stonata e squinternata che mi sbrindella i pensieri ad ogni ora del giorno e della notte.
Vorrei solo dormire, vorrei solo riposare e, più di ogni altra cosa, vorrei solo smettere di avere sempre paura.

Canzoncina dal vocalizzo anti-aulin.

 
 
 

CONTATTA L'AUTORE

Nickname: fragolozza
Se copi, violi le regole della Community Sesso:
Età: 43
Prov: EE
 

CIAO

web stats
 

ULTIMI COMMENTI

POETRY

Le cloache di notte somigliano
a fiumi nascosti.
Scommetti che a perdere il cuore
guadagni più spazio?
Sul banco dei pegni
ho impegnato
il mio ombretto di rosa.
Palpebre nude non chiudo
per cogliere il resto
di quello che resta
sul conto in sospeso
dei nostri sospesi.

Le formiche al tramonto ricordano
grani di pepe.
Sai contare al contrario, partendo
da cifre irrisorie?
Sotto l’arco
s’inarca in trionfo
la triade imperfetta.
Me stessa, quell’altra o la stessa
si chiudono a riccio.
Per capriccio
mi cavo d’impiccio.
Mi sento di troppo.

 

 

 

 
 

ARCHIVIO MESSAGGI

 
 << Luglio 2024 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
1 2 3 4 5 6 7
8 9 10 11 12 13 14
15 16 17 18 19 20 21
22 23 24 25 26 27 28
29 30 31        
 
 

KELLY JONES

I really hope ya happy,
 both of you
and maybe sometimes
you miss me too!

 

TAG

 
 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963