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°°°pomeriggi_d'_inverno°°°

Post n°364 pubblicato il 01 Marzo 2010 da fragolozza

Ricordo ancora il silenzio dei nostri pomeriggi insieme: la mamma a sminuzzare le verdure per il minestrone di riso, io a fare i compiti di scuola. Il gatto ronronava acciambellato su una sedia, la pendola scandiva il tempo dei giorni brevi dell’inverno.
Qualche volta alzavo gli occhi dal quaderno e guardavo la mia bellissima mamma.
Anche lei, di tanto in tanto, mi guardava.
Pensavo: “Adesso mi parla, mi racconta qualcosa”. Lei taceva. Avara di parole, come di gesti teneri, non mi interrogava, né mi raccontava i suoi pensieri.
Buttava nell’acqua bollente le verdure tagliate e lavate.
Poi pescava nel sacchetto di juta due manciate di riso e le versava nella tafferia, un recipiente largo e basso, di alluminio, che serviva per mondare il riso.
Osservavo incantata la sua gestualità sapiente nel far danzare i chicchi che si libravano nell’aria, verso l’alto e precipitavano di nuovo sul fondo della tafferia eliminando le scorie che lei soffiava via.
Ogni volta commentava: “Bello, questo vialone abbiatense”.
Io avrei voluto che dicesse: “Bella questa mia bambina”.
Non mi ha mai fatto un complimento, non mi ha mai dato una carezza. Era una mamma di una volta.*
Non mi ha mai chiesto: “Vuoi bene alla tua mamma?”
Io le avrei gridato, nella mia voce stentorea e bambina: “Sì che te ne voglio!” e in un abbraccio mi sarei sciolta d’amore.
Ma le cose non vanno mai come si spera e ti ritrovi su un ciglio di strada, donna  non più bambina, a ricordare una madre che solo per poco fu madre, a desiderare un figlio, tu che non fosti mai figlia.
L’indolenza del destino è un ruolo cucito addosso senza troppa convinzione.
C’era luce piena nei miei pomeriggi d’infanzia, quella luce intensa, ma breve, che non torna nemmeno a cercarla. Sul fare della sera, giocavo con le ombre disegnate sui libri da una molle candela. Nei simboli, nei colori, nelle strofe arcane di poeti che scrivevano senza farsi capire, non intravedevo alcun senso. Alzavo gli occhi cercando un conforto o soltanto il coraggio di chiederle aiuto.
Sbuffi di vapore appannavano i vetri, odore di cipolla pizzicava il naso e la schiena di mia madre che diceva: “Tra un po’ arriva tuo padre, sbrigati a finire.” E di nuovo silenzio.
Presto sarei diventata grande e non avrei avuto alcuna fretta nel rimuginare su giorni che non erano stati giorni, ma prologo del futuro.
Ma cos’è il futuro? Prima è domani, poi diventa un mese, poi, ancora, un decennio.
Chissà se mia madre, nella mia mente attualmente impressa quale Venere immatura e sofferta, si chiedeva che donna sarei diventata.
Finalmente il silenzio di quei pomeriggi, frattanto diventati notti scure, veniva interrotto dalla chiave che girava nella toppa della massiccia porta di casa e dai passi pesanti di mio padre su per il corridoio. Saluti smorzati, nessuno schiocco di baci e rumore di sedie. Poi soltanto il suono dei respiri, dei risucchi e del metallo contro le porcellane rigate d’oro, quello che io chiamavo il canto del vecchio servizio di nonna.
Dopo cena, quando papà dormiva ormai da un pezzo ed io ripassavo le ultime  nozioni, rimesso a posto l’ultimo utensile opportunamente ripulito, mia madre lasciava la cucina e si abbandonava contro il vellutato schienale del nostro divano malridotto, le gambe nascoste sotto un plaid di lana a scacchi. Anche in quei momenti sembrava presa, assorta, altrove. Chi l’avesse guardata, avrebbe sentito il rumore dei suoi sguardi, gettati in ogni dove a cogliere gli spifferi di vento al di là delle tendine a fiori, che pavesavano le piccole finestre del nostro soggiorno.
Le aveva cucite due mesi prima che mio fratello morisse. Eravamo così felici allora! Ritagli di stoffa sul pavimento e bambole nude, fili di cotone e soldatini di piombo, due bambini vivaci, una madre ed un padre. Che fosse solo quella la mia felicità?
Poi una lapide bianca.
Sempre d’inverno, ma un inverno più cupo, più freddo, gelato, agghiacciante.
Mi ammalai per prima. Cominciai tirando su col naso, le guance più rosse di sempre. Ricordo che mio padre, ogni sera, seduto al capezzale del mio letto, mi stringeva al petto e pregava, ogni tanto piangeva, finché fui guarita e mi disse: “Sei una bambina forte.”
Poco tempo dopo, quando si ammalò mio fratello, l’avrei contraddetto, rimproverandogli, ma senza parole, quella stessa forza che lui non era stato in grado di mostrare nei momenti più duri.
Mia madre non mi disse mai niente. Trascorse quell’inverno e quando venne primavera, sapeva ormai che era stato un puro caso se il cielo mi aveva respinta.
Odiai mio fratello con tutta me stessa. Se non fosse morto, lei non mi avrebbe addossato l’implicita colpa di essergli sopravvissuta o di avergli passato il mio male.
Eppure, più l’odio mi scavava dentro, più avevo bisogno d’amore e più avevo bisogno d’amore, più lei si ritraeva dal mio raggio, ossuta e scostante, quasi avesse paura.
All’età di dieci anni, quando fui abbastanza grande per capire, le chiesi perché non mi amasse. In tutta risposta, mi chiese: “Non devi studiare?”
Il ricordo di quei pomeriggi è uno spillo piantato nel petto, un’immagine di tenerezza appena vagheggiata.
Se potessimo sceglierci la vita e non solo la morte!
Quanti modi per farci dolore, per girare il coltello nelle zone più dolenti e martoriate!
Mia madre si è scelta la morte in un giorno di pioggia e mi chiedo chissà quale inverno monderà anche la mia anima stanca.

*incipit di Sveva Casati Modignani

 
 
 
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Le cloache di notte somigliano
a fiumi nascosti.
Scommetti che a perdere il cuore
guadagni più spazio?
Sul banco dei pegni
ho impegnato
il mio ombretto di rosa.
Palpebre nude non chiudo
per cogliere il resto
di quello che resta
sul conto in sospeso
dei nostri sospesi.

Le formiche al tramonto ricordano
grani di pepe.
Sai contare al contrario, partendo
da cifre irrisorie?
Sotto l’arco
s’inarca in trionfo
la triade imperfetta.
Me stessa, quell’altra o la stessa
si chiudono a riccio.
Per capriccio
mi cavo d’impiccio.
Mi sento di troppo.

 

 

 

 
 

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