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Ricordi

Post n°41 pubblicato il 11 Febbraio 2011 da domenicomolinini
 

Ogni tanto torno con la mente a quando ero scolaro. Un periodo, quello delle Scuole Elementari, che ricordo sereno e spensierato; solo a tratti velato dalle piccole ombre e segnato dai dispiaceri tipici di quell'età.
Forse per ragioni dovute a carenza di aule, io ed i miei compagni frequentavamo le lezioni presso la casa della nostra Maestra,
una palazzina ad un unico piano, posta su via ****, una via principale del mio paese.
La palazzina aveva due ingressi laterali, due portoncini uguali che si aprivano su due stradine che sboccavano sulla strada più importante. Noi dovevamo bussare al portoncino posto a destra di chi guardasse la facciata della palazzina. Una scala ad un'unica rampa, piuttosto ripida, ci portava ad un ampio pianerottolo. Di fronte l'altra scala, identica che scendeva all'altro portoncino.
A destra una zona dell'abitazione nella quale sono entrato un'unica volta. E' stato quando la Maestra è morta
. Ma questo è accaduto tantissimi anni dopo.
A sinistra un'ampia stanza dava ancora a sinistra in una cucina, che giudicavo enorme e dalla quale ogni giorno a metà mattinata provenivano profumi appetitosi, ed a destra in un'ampia stanza nella quale si svolgeva la nostra vita scolastica.
La cucina era il regno di una signora della quale ricordo e non ricordo il viso, brizzolati i capelli prevalentemente bianchi, una sorella o una cugina della Maestra. Mi era molto simpatica. Elargiva grandi sorrisi che diventavano comprensivi  nel caso fossimo stati ripresi per qualche nostra manchevolezza, sia nel profitto, sia nella condotta, senza mai, tuttavia intervenire, con una parola o un vezzo consolatorio: la Maestra non ammetteva alcuché considerasse come interferenza con il suo concetto educativo.
La stanza nella quale facevamo lezione probabilmente aveva le stesse misure della cucina e, priva dell'enorme camino, dei vari fuochi della cosiddetta cucina economica, delle credenze e delle suppellettili, risultava davvero vasta. L'arredo consisteva in un lungo tavolo centrale ed in un tavolino rotondo al quale sedevamo in due. Quest'ultimo era posto davanti ad un'ampia finestra a tutto tondo che si affacciava su un ampio terrazzo (così come le altre due stanze, l'anticamera e la cucina).
Il tavolino circolare era praticamente il mio "banco". Avevo i vetri alla mia sinistra. Potevo toccarli.
Era un posto magnifico: guardavo il cielo, ascoltavo il canto degli uccellini e seguivo con gioia il volo delle rondini  che sfrecciavano garrendo durante la primavera e la prima estate. Quando pioveva seguivo il movimento delle gocce d'acqua che rigavano i vetri e mi perdevo in mille fantasticherie e, quando la neve copriva il terrazzo ed i vasi delle tante piante che vi fiorivano in primavera, pregustavo il ritorno a casa al tepore.
C'era una figura centrale in quella casa: il padre della Maestra. Era molto anziano ed il mio ricordo, ormai vago, è di un vecchio, alto, bianchi i capelli e la barba, con indosso un'ampio scialle ed una papalina in testa. Lo chiamavamo con affettuoso rispetto "il nonno". Ogni mattina lo trovavamo in piedi, ad attenderci sulla soglia dell'anticamera e lo salutavamo con un bacio sulla guancia. Stessa cosa facevamo andando via al termine delle lezioni.
Era la seconda metà degli anni '50. Ma il clima che si respirava in quella casa, clima col quale "il nonno" si fondeva perfettamente, era quello della seconda metà dell'Ottocento.
Alle pareti ritratti di uomini e donne, la foggia degli abiti e delle pettinature dei quali rivelava come alcuni quadri fossero stati dipinti prima dell'Unità d'Italia, altri durante il periodo post risorgimentale, altri ancora nel tardo '800 e nei primi decenni del '900.
Una pendola, quietamente, segnava il tempo e scoccava le ore.

La Maestra si chiamava Maria ********* , era nubile, ci riferivamo a lei dicendo "la Signorina *********". La severità con cui applicava il suo insegnamento non escludeva che ci volesse bene e il suo affetto traspariva da piccoli gesti e parole. Anche a lei davamo il bacio sulla guancia arrivando il mattino e adando via al finis.








Al termine delle lezioni non uscivamo mai tutti assieme, magari vociando e spintonandoci, ma uno alla volta secondo un ordine che decideva lei e che poteva far sì che tra il primo e l'ultimo ad uscire potesse esserci anche uno scarto di un quarto d'ora.
Quando m'accadeva di restare da solo in attesa del permesso di uscire, nel silenzio accompagnato dai battiti della pendola


mi mettevo ad osservare minuziosamente i ritratti alle pareti e le tante foto dai bordi ingialliti dal tempo.
Facce tutte austere quelle degli uomini, come se ognuno d'essi
, nel momento di mettersi in posa, avesse voluto mostrare d'avere sulle proprie spalle tutto il carico delle problematiche del mondo.
Più naturali i visi delle donne, alle volte un sorriso appena accennato, con riserbo. Le donne, almeno la gran parte, non hanno bisogno di recitare la parte dei "grandi" per sentirsi importanti.
Guardando quei visi mi prendeva un senso di curiosità venata da profonda tristezza.
Pensavo a quelle persone, chiedendomi quante di loro fossero  ancora vive. Avrei voluto sapere di loro, dei loro atti e dei pensieri e dei sentimenti che le avessero animate e che non riuscivo a tradurre dai loro visi, fissati sulla trama della tela o sulla carta ingiallita in un attimo intraducibile della loro esistenza.Il permesso di andare mi sorprendeva, quasi disturbandomi, assorto in quei pensieri, forse troppo grandi per la mia età. Ma una volta scesa la ripida scala ed uscito dal portoncino m'avviavo a casa e presto rientravo nel clima seppure provinciale di un paese della seconda metà degli anni '50.
Non c'era ricorrenza, compleanno, onomastico, Prima Comunione, che non fosse degnamente festeggiata.
Alle volte non sapevamo che quel giorno fosse il compleanno d'un nostro compagno, ma poi la notizia trapelava (eravamo una quindicina) e sotto la calma che dovevamo mostrare, eravamo tesi come molle. Di solito a metà mattinata sentivamo bussare e poi qualcuno che saliva. Sbirciavamo e la sagoma dei vassoi che riuscivamo a vedere, prima che fossero rapidamente poggiati in cucina, era inequivocabile. Seguiva una anticipata conclusione delle lezioni, che ci sembrava eterna e guai a chi  di noi avesse mostrato segni di giubilo o, peggio, di fretta.
Un breve discorsetto della Maestra riferito alla festeggiata o al festeggiato che sorrideva compuntamente (in quel momento  da noi considerato come un essere speciale) faceva da preludio alla festicciola.
Focacce, pizze, panzerotti e rustici vari e poi dolci o, se si trattasse di un compleanno, la torta con le candeline, facevano bella mostra di sé nei vassoi sul tavolo, opportunamente spostato contro la parete di fronte alla finestra, prima che potessimo dare sfogo al nostro appetito.
Dopo aver fatto onore alle tante leccornie, ci era consentito di giocare.
Con il tavolo addossato alla parete la stanza recuperava e mostrava tutta la sua ampiezza, per cui si prestava al nostro gioco preferito: Il Musichiere.


Prendevamo spunto dal celebre programma televisivo di quegli anni, codotto da Mario Riva. Due compagni costituivano la prima coppia di contendenti e chi dei due vincesse si misurava con un altro, fino all'ultimo.
Chi ricordi quel fortunato programma sa che si trattava di indovinare un motivo musicale del quale in prima battuta era accennata solo qualche nota.
La parte musicale era compito mio. Miracolosamente appariva lo strumento (spesso "qualcuno" faceva in modo di fare arrivare a scuola una sorta di tastiera, a metà strada tra uno xilofono ed un glockenspiel, che avevo a casa), io accennavo il frammento iniziale di un motivo, e tutti, nessuno escluso, ci divertivamo davvero... 
Tanti anni dopo, dopo la morte della maestra, seppi che quella palazzina di dignitosa architettura della seconda metà dell' 800 sarebbe stata abbattuta. Rimasi male alla notizia.
Da tanti anni, ormai, lì sorge una indefinibile costruzione che ha contribuito ad arricchire il palazzinaro che l'ha edificata, e gli eredi della Maestra e ad imbruttire, assieme a tante altre costruite in quel periodo, la "non architettura" che caratterizza tutta l'edilizia urbana del dopoguerra.
Seppi con rammarico  e troppo tardi, che nell'abbattimento erano andati persi tutti i nostri quaderni, quelli nei quali la Maestra ci aveva fatto  ricopiare in bella grafia i nostri compiti dopo averli corretti e averceli fatti imparare a memoria.







La Maestra li custudiva gelosamente  e chissà quante volte li avrà riletti rivedendo con la memoria i nostri visi.
Aver memorizzato uno di quei compiti, mi fruttò, in seguito, una cospicua borsa di studio triennale.


 

 

 
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