Creato da stratagemmo il 02/04/2007

Tra le foglie

Racconti e ali di gabbiano segate a metà

 

 

 Due: il tempio deserto

Post n°67 pubblicato il 01 Novembre 2008 da stratagemmo

 Un vecchio monaco stava spazzando i gradini del tempio. Erano passati quattro anni dalla fine delle razzie che alcune formazioni armate, fuoriuscite dall’esercito, avevano compiuto nei villaggi dei contadini della provincia. Egli aveva pregato molto, all’epoca, affinché quei fatti orribili finissero presto, perché aveva intuito che quei disordini avrebbero danneggiato il sentimento religioso delle persone. E gli pregava tutte le sere, nella sala centrale del tempio, il grande, compassionevole Amida. In verità, recitava le sue preghiere con un sentimento forte, ma il pensiero confuso. Non sapeva cosa desiderare, in fondo. Quegli uomini malvagi portavano sulle loro bocche il nome del compassionevole bodshivatta1, e nessuno aveva il diritto di impedirglielo, nemmeno Amida stesso. Non poteva chiedere la loro morte, perché non era certo una cosa compassionevole, e non poteva volere che la situazione continuasse in quel modo. I contadini avevano ormai associato quel nome alle violenze e ai soprusi, e in molti avevano iniziato a pensare che Amida non fosse altro che un Kami protettore dei malvagi. O, nel migliore dei casi, un inutile ciccione che non sapeva far altro che starsene con le mani in mano mentre il mondo andava a rotoli. I suoi sforzi per cercare di spiegare che non bisogna confondere un Budda con un Kami scintoista erano stati completamente inutili. I Kami sono moltissimi, forse infiniti, e spesso se ne ritrovano di dimenticati o se ne scoprono di nuovi. Un Budda, cos’altro poteva essere?
Nonostante tutto, in un modo un po’ brutale le razzie erano terminate, ed egli non poté trattenersi da un moto di gioia riconoscente, nonostante sapesse che la retta via consisteva nel provare, al contrario, compassione per quelle vite che finivano così improvvisamente e dolorosamente.
Proprio mentre era perso in quei ricordi, apparve sul fondo della strada un drappello di soldati, come evocato da quei pensieri. Cavalcavano cavalli riccamente bardati, e nonostante fossero armati di tutto punto, le loro splendide armi erano più da parata che da guerra. Passarono attraverso la porta aperta ed entrarono nel giardino interno senza esitazione. Il monaco attraversò lo spiazzo per prendersi cura dei cavalli sudati e coperti di polvere, e rivolse a loro un sorriso e accoglienti parole di benvenuto.
“Dov’è il venerabile Raioga?” chiese il più anziano dei soldati, saltando i convenevoli.
“È nella sua cella, in questo momento, e forse vi stava aspettando. Ma temo che oggi non ve ne andrete più felici di quando siete arrivati” I soldati parvero non far caso alle parole del monaco. Il più giovane scosse la testa, e dal suo volto si vedeva chiaramente che stava pensando: “Questi monaci! Devono sempre parlare in modo torbido e misterioso!”

Il venerabile Raioga, ultima guida spirituale del tempio di Amida, nonché sventurato gestore delle relative finanze, a causa del calore di quel pomeriggio e della sua veneranda età, stava riposando nella sua cella, disteso su un umile pagliericcio.
Quando i soldati entrarono rumorosamente nella cella angusta, si alzò subito, stropicciandosi gli occhi.
“Non vorrei disturbarla troppo, maestro” mentì il soldato più anziano.
“Yoshimasa in persona… quale grande onore ci fate!” disse il venerabile Raioga “perché non andiamo a passeggiare sotto il portico?”
Lì, ad eccezione del monaco che, dopo aver sistemato i cavalli, era tornato a spazzare gli scalini, non c’era nessun altro. Il calore si stava facendo insopportabile, e i sorrisi tesi.
“Saltiamo i convenevoli. Quest’ anno sono venuto io in persona, per sincerarmi che non accadesse qualche pasticcio come l’anno scorso. Ho commesso un errore, lo ammetto, a mandare un funzionario giovane e inesperto da voi scaltri monaci a riscuotere ciò che ci dovevate, ed ecco, con i vostri piagnistei l’avete convinto. È tornato con poco più della metà di quanto vi avevamo chiesto. Quest’anno però, non ci saranno sbagli.”
“Non ci saranno sbagli? Questo è sicuro! Sono passati quattro anni dall’ultima volta che vi ho visto – prego, da questa parte -” continuò il monaco conducendoli verso la sala centrale del tempio “e di certo mi avrebbe fatto piacere rivederti prima, in occasioni più distese. A proposito, non noti niente di diverso in questo umile tempio, da allora?”
Yoshimasa si guardò attorno con attenzione. In passato aveva avuto occasione di dover indagare per scoprire qualche ladro o qualche assassino, ed aveva affinato il suo spirito di osservazione. Nonostante i quattro anni si ricordava la struttura del tempio a memoria. Ripassò, mentre lo attraversava, la sua mappa mentale. Ricordò la posizione esatta di ogni statua, di ogni porta, persino le dimensioni delle pareti. Ma non vi trovò nulla.
“Tutto sembra essere al suo posto.” Rispose, con riluttanza.
“Proprio così. Eccetto un paio di cose.” Affermò il venerabile Raioga. “Le persone, innanzitutto. Nessuno fa più visita al tempio, da molto tempo ormai.” Fece una pausa per far scorrere la porta che permetteva l’accesso alla sala centrale. Qui, vi dimorava una grande statua del Budda. “Ed in secondo luogo questa statua. Non v’è più nemmeno una lamina d’oro, e i fumi profumati non la circondano più. Semplicemente non possiamo permettercelo. I fedeli non ci sono più. Abbiamo dovuto vendere le lamine dorate per riparare il tempio, dopo la grandine e il terremoto, e per pagare voi, con la fiducia che i fedeli sarebbero tornati. Ma non è successo. Non ci sono più pellegrini, ormai. Beh, forse un paio, ogni due o tre mesi. Le nostre antiche ricchezze si sono esaurite. Ormai non ci rimane che l’orto che abbiamo qua dietro, un maialino, e le nostre vite ormai stanche. Potete prendere quelle, se credete che possa servire a qualcosa”
Yoshimasa perse il controllo: “Vecchio! Non credere che mi farò ingannare! Avrai nascosto il malloppo da qualche parte! magari l’hai anche seppellito pur di non pagare la nostra protezione…! Non più tardi di ieri ho visto una carovana di pellegrini con delle statuette alte così!”
“Oh, non ne dubito… ma non venivano certo dal nostro tempio.”
“E da dove allora?”
“Quelli che sono venuti dal sud… Quelli di Nichiren… erano dei poveri straccioni quando si stabilirono alle pendici del monte Meji, otto o nove anni fa. Ma la gente ha iniziato ad ascoltarli. Adesso sono in molti, hanno costruito un sacco di piccoli tempietti e di locande, oppure le hanno comprate, loro o dei loro amici. Persino i giovani monaci di questo tempio li hanno seguiti. Quaggiù restiamo solo noi vecchietti…”
“Stai mentendo! Anch’io sapevo che questa moda stava prendendo piede… ma al punto da rubarvi i fedeli! Suvvia! Questo tempio esiste da decine di generazioni! E tu vuoi forse farmi credere che sta svanendo nel nulla?”
“Un monaco non mente mai, dovresti saperlo. Ma tu sei libero di credere o non credere a quello che vuoi. Metti sottosopra l’edificio, porta i tuoi soldati a scavare dove ti pare… purtroppo non troverai quello che cerchi. In passato hai fatto ottimi affari con noi, e spero che ti sarai messo da parte un bel gruzzoletto per i momenti come questo. Tuttavia, se vuoi fermarti per cena, avrò il piacere di condividere con voi le verdure del nostro orto, che sono le migliori che possiate trovare in tutta la regione.”
“Idiota! Tienila per te la tua erba! Anche i contadini sono capaci di pagarci con riso e sakè, e non è la sola cosa che serve per mantenere un esercito! Credi che le nostre spade, le nostre armature, siano fatte di riso? Di maiali?”
Uscì camminando furiosamente, mentre i suoi lo seguivano senza fiatare.
Il venerabile Raioga uscì dopo pochi minuti e guardò il cielo terso. Non c’era un alito di vento. A nord si stagliavano cupe nubi, pronte per il temporale.

 
 
 

Post N° 66

Post n°66 pubblicato il 24 Ottobre 2008 da stratagemmo

Ok. Dopo un po' di casini esistenziali, che diventano sempre più grossi man mano che l'età s'allunga e il vissuto ingrassa secondo la formula " (età x densità vissuto + K casino - liv. serenità mentale) / liv nirvana aquisito = entità casino esistenziale", ritorno se non proprio in sella con almeno un piede nella staffa, mentre il classico furia cavallo dell'est che beve solo caffè e lanciato al galoppo verso chissà cosa e io vengo trascinato tra polvere e sassi appuntiti mentre cerco di tirarmi su a forza di caviglia e addominali che non ho più per raggiungere il pomello della sella, sep ora senza risultati. C'è di buono che il piede nella staffa è saldo, e nonostante tutte lebotte che piglio per la velocità di corsa, la stessa impedisce ai cobra di avvelenarmi, perchè sono trooooooppo veloce...!

Appena metto una mano sul pomello ritorno a scrivere...

 
 
 

Post N° 64

Post n°64 pubblicato il 09 Agosto 2008 da stratagemmo
 

CRONCA DELLA BATTAGLIA DEL MONTE MEJI

Parte Uno- Il demone di ghiaccio

La bruma ricopriva a chiazze l’erba rugiadosa del mattino, fino alla cima della collina, dove i gelidi occhi della ragazza accovacciata, balzavano in cerca di vendetta.
Di fronte a loro, lame di luce penetravano il varco tra il monte Meji e le alture del Fu-han perdendosi nel pallido cielo, mentre i neri uccelli da carcassa si radunavano seguendo traiettorie circolari, poche decine di braccia al di sopra della valle.
Laggiù, due eserciti con le stesse divise e le stesse bandiere erano schierati l’uno contro l’altro.
La lancia del monaco pellegrino brillava alla luce del sole ad un paio di metri dalla ragazzina, e le preghiere ed i nomi dei budda che vi erano legati, sussultavano al vento e alle preghiere dei soldati.
Un nome veniva urlato da ambo le parti, e gli uomini, con gesti identici ed identiche parole, facevano pensare ad un solo esercito allo specchio.
“Amida!” urlavano, “Amida!”

Nessuno parve badare alla figura del monaco, che si stagliava nitidamente contro il cielo, nessuno parve vedere l’altra figura, acquattata tra l’erba alta, che tremava al vento come un cespuglio di …..
“Che odioso grido di battaglia!” sibilò.
“Non denigrare il nome di Amida.” le rispose Kyoun , -così amava farsi chiamare questo monaco- “È il nome del budda illuminato, del più caritatevole essere mai apparso su questo mondo”
“Se è così caritatevole come dici, monaco” chiese la ragazzina ficcandosi le unghie nelle mani sporche di cenere e di terra “cosa ci fa sulle bocche di quegli esseri immondi?”. Le sue iridi, un tempo azzurre, erano talmente chiare che a malapena si distinguevano dal fondo dell’occhio, e ricordavano un lago ghiacciato nel mezzo dell’inverno. Per un attimo guizzarono dalla scena sottostante al volto del monaco, e l’anima di Kyoun barcollò senza capire se v’era accusa, o solo curiosità.
“Amida era l’essere più compassionevole che sia mai vissuto su questo mondo. Egli aveva una compassione infinita per tutti gli esseri viventi, ed i suoi insegnamenti aiutarono molti uomini a procedere verso l’illuminazione. Quando fu sul punto di morire, circondato dal rispetto e dalla riconoscenza di centinaia di discepoli, egli fece un voto terribile.”
Fece una pausa, per osservare un uomo che stava uscendo dalla formazione del suo esercito, indirizzandosi verso il centro del campo di battaglia.
“Egli giurò che non sarebbe passato all’ultimo stadio… alla pace eterna… finché non avesse aiutato chiunque invocherà il suo nome, a salvarsi… Ma gli uomini spesso interpretano male questo gesto, e dicono che non importa quanti crimini commetti nella tua vita: se in punto di morte invochi il suo nome, non ne pagherai le conseguenze…”
“Sia maledetto quel nome!”
Kyoun stava forse per rispondere alla bestemmia, quando il soldato iniziò a parlare. Il vento, che soffiava nella loro direzione portò le sue parole.

“Il mio nome è Yoshimasa! E non c’è nessuno, fra voi cani, che potrebbe sfidarmi! I miei antenati guidavano uomini in battaglia quando i vostri brucavano l’erba nei fossi! I miei avi hanno combattuto a fianco dell’imperatore contro gli antichi demoni mentre voi siete nati dalle bisce dei fossi! Non c’è nessuno tra di voi che sia abbastanza nobile per sfidare a duello nemmeno un mio servo!” Alle sue spalle un ottantina di uomini restavano immobili in silenzio.
I loro nemici erano di numero nettamente inferiore, sicuramente non arrivavano a cinquanta. Uno di loro venne avanti urlando:
“Nobile Yoshimasa! Quanta arroganza riuscite ad avere voi spocchiosi altolocati…! È l’unica cosa che si trasmette col sangue, di padre in figlio… dovrò stare attento a non bagnarmi quando ti squarterò, per non restare infetto…! Che diritto hai di insultarci così? Forse perché abbiamo disturbato qualche villaggio di stupidi contadini? Ci stavamo tenendo allenati alla guerra. Tu non hai mai saputo cosa sia la guerra, perché te ne sei stato a combatterla dietro alle mura di un palazzo, oppure te ne sei già dimenticato? Ovunque è morte e distruzione, e questo è il nostro lavoro! La morte è il nostro lavoro! Stavamo ammuffendo di fame e di noia, e siamo usciti a procurarci cibo e azione. Quando ti avrò tagliato la testa proporrò ai tuoi compagni di unirsi a noi, e se non sono dei perfetti idioti seguiranno il mio consiglio!”
I due erano finalmente l’uno di fronte all’altro. Rimasero in silenzio, fermi immobili, a studiarsi. Nessuno dei due aveva ancora estratto la spada. Cercavano entrambi di capire i punti di forza e le debolezze dell’avversario leggendogli negli occhi e sul viso la storia personale, le paure, la gloria. Dopo un tempo che sembrava infinito, finalmente si mossero contemporaneamente, estraendo la spada e avanzando.
Yoshimasa portava una lama lunga tre braccia, mentre il suo avversario una lama lunga solo due. L’arma del nobile era di una lunghezza davvero inusuale per un campo di battaglia. Infatti, non appena ebbe il nemico a portata, Yoshimasa lo sorprese con un rapido fendente, ferendolo alla fronte. Questi imprecò e si lanciò con furia contro il nobile, ma non riusciva ad avvicinarglisi abbastanza per poterlo colpire. Il sangue che gli colava dalla ferita alla fronte gli coprì gli occhi e Yoshimasa ne approfittò per tagliarlo lungo tutta la superficie del busto, dalla spalla sinistra al femore della gamba destra.
“Uno scarafaggio di meno” commentò la giovane.
I banditi non parvero impressionati da quella morte. Ma alle loro spalle sbucò all’improvviso un drappello di uomini che portavano lunghe lance. Erano passati inosservati, coperti dall’alto argine del canale che correva al loro fianco, mentre tutti erano distratti dal duello.
Yoshimasa fece segno ai suoi di avanzare: “Arrendetevi, e vi sarà riservata una morte rapida!”
Stretti tra due fronti, sentendosi ingannati, i fuorilegge si gettarono in avanti, furiosamente. Nella confusione della mischia, almeno qualcuno di loro avrebbe trovato una via di fuga. Yoshimasa si trovò ben presto a dover fare i conti con alcune furie decise ad ottener vendetta prima di morire. La sua arma più lunga gli dava un certo vantaggio, e certo aveva passato molti anni ad imparare le tecniche di spada con i maestri più famosi della provincia, ben pagati dal padre. Ma la sua spada era anche molto più pesante di quella dei suoi avversari, e si stancò molto in fretta. Per sua fortuna i suoi soldati lo superarono rapidamente e si chiusero davanti a lui come un muro, mettendolo in salvo. Intanto alcuni fuorilegge avevano tentato di fuggire arrampicandosi su per l’argine. Quando lo raggiunsero però, lo trovarono molto più scosceso e scivoloso di quanto si aspettassero. Quasi tutti gettarono a terra le spade per cercare appigli con le mani, mentre dietro di loro, il drappello di lancieri si avvicinava senza fretta. Giunti verso la metà della salita, trovarono che l’erba più sottile aveva radici meno profonde, e non reggeva il peso dell’arrampicata, ed i fuggitivi giunti più in alto cadevano, travolgevano i propri compagni che li seguivano.
Allora alcuni di loro si volsero dall’altra parte e si misero a correre su per la collina.
Uno di loro, coperto di sangue e fango, giunse a pochi passi dal monaco, e lo guardò sospettoso. Il monaco sorrise di rimando. Sentendosi preso in giro, il bandito si lanciò contro di lui con un urlo rauco e senza fiato.
“Grande e potente Haciman, dammi la forza” pregò il monaco. Poi, con un inaspettato quanto rapido guizzo della sua lancia, trafisse l’avversario stupefatto.
In suo aiuto accorsero alcuni suoi compagni che stavano scalando la collina. Il più vicino passò di fronte al cespuglio dove la ragazzina era nascosta. Lei saltò verso il cielo. I suoi capelli corvini si aprirono nel vento, mentre i suoi occhi senza colore si piantarono nel corpo del bandito come una lancia. Ai fuggitivi che salivano apparve l’immagine di uno Shinigami dalla pelle pallida, vestito di bianco, e dagli occhi di neve, che balzava dalla terra e scendeva dal cielo, e gelarono di terrore e di stupore. Il bandito rimase congelato dal terrore di quella visione. Davanti a lui vedeva lo spirito furioso di tutte le sue vittime, tornato per vendicarle. Tremò, e la lama gli cadde, mentre le unghie, e le dita dello shinigami gli entravano nel collo, e gli cercavano l’anima. Cadde all’indietro, mentre un alto fiotto di sangue si alzava verso il cielo. I suoi compagni urlarono. Alcuni gettarono le armi e si misero a correre scendendo dalla collina, verso le lance e le spade dei loro nemici che li attendevano più sotto. Molti, accecati dalla disperazione e dalla paura, caddero correndo a folle velocità per il piano scosceso e accidentato, e si ferirono mortalmente. Altri, tra i più coraggiosi, nella follia di quell’apparizione ritrovarono la calma per recuperare dignità e libertà. Estrassero dai luridi foderi lucide Wakizaki e si pugnalarono al cuore.

Lo spettacolo era invero molto curioso. La lama, per quanto tagliente infatti, è molto fragile. È dunque molto rischioso farla passare tra costola e costola per raggiungere il cuore. Rischierebbe di spezzarsi scontrandosi contro la gabbia toracica. Bisogna allora farla passare da sotto lo sterno, e spingerla con decisione verso l’alto, affinché trovi la strada verso il cuore passando attraverso organi molli. Essi diedero prova di grande coraggio portando a termine il gesto in maniera pressoché immediata. Due di loro però arrivati a metà strada, si fermarono per il dolore, feriti ma vivi, con i polmoni trafitti da non poter urlare con la bocca, ma emettendo sibili e rantoli inumani, provenienti forse dal mondo dei morti. L’ultima cosa che videro furono due occhi di neve aleggiare sopra di loro, e lo Shinigami strappare loro la carotide a mani nude. Il loro volto, da morti, era un sorriso contratto dal dolore, ma pareva intravedersi un guizzo di riconoscenza allo spirito della morte per quest’ultimo aiuto.
Intanto, a valle, era ormai un mattatoio.
La battaglia- una piccola scaramuccia in realtà- era finita in pochi minuti. Ormai i banditi che avevano provato a combattere erano stati abbattuti, quelli che avevano provato a scappare erano stati raggiunti. Non ne rimaneva uno in piedi. Presto sarebbero giunti i corvi a rubare gli occhi dei caduti, ed i ladri li avrebbero ripuliti di spade e armature.
La ragazza-shinigami scese per prima volteggiando sul primo cadavere che aveva incontrato quel giorno. Il monaco la osservò profondamente, e solamente i lunghi anni di meditazione zen gli permisero di mantenere la calma.
Osservandola attentamente, mentre, curva sul cadavere lo frugava alla ricerca di qualche avere, di qualche bene terreno, capì che non erano i capelli, grovigli di tenebra, ad essere così spaventosi, né la sua magrezza, che la rendeva simile ad uno scheletro ritornato dal mondo dei morti, ad aver terrorizzato quegli uomini, né i suoi laceri vestiti, sporchi di sangue, odorosi di fumo e morte.
Erano bensì quegli occhi, che un tempo erano stati azzurri e che adesso erano diventati bianchi, e dell’azzurro di un tempo conservavano solo un pallido ricordo. Sembravano gli occhi di un cieco, eppure sapevano arrivare fin dentro allo spirito di un uomo, e mostrargli ciò che egli era in realtà come in un lucido vassoio metallico di un ricco mercante, come nel riflesso della lama della spada di uno shogun, come nello specchio di una bambina, di una bambina con lo sguardo di chi vede oltre le apparenze del mondo caduco, effimero, mortale. Lo sguardo di uno Shinigami.
“Ti chiameranno demone” profetizzò il Kyoun “demone di ghiaccio”.

 
 
 

Kiba

Post n°63 pubblicato il 27 Aprile 2008 da stratagemmo
 

Kiba uscì dalla room alle tre e trentatrè, e un attimo dopo uscì anche dalla stanza. Il pc era rimasto bianco e immobile per giorni. Soltanto il piccolo led aveva continuato a lampeggiare regolarmente. Praticamente l’unica lampada. Tutt’attorno vestiti sudati, sacchetti di patatine, lattine di coca e birra, e polvere. Ci aveva pensato, ma non avrebbe saputo dire qual era il momento esatto in cui la depressione l’aveva presa. Forse in un momento tra il sonno e la veglia, durante una colazione frettolosa e triste, che l’aveva spinta a riaccendere il computer di corsa. Se n’era accorta di essere dipendente, certo, anche se non avrebbe saputo dire da cosa. Dalle radiazioni che emanavano dallo schermo era l’unica risposta che le veniva in mente, ma non la soddisfaceva per niente. Cercò informazioni su Wikipedia, e vi trovò un quadro di Vincent Van Gogh “Sulla soglia dell’eternità”. C’era un vecchio seduto su una sedia che si teneva la testa tra le mani. Le capitò di pensare che anche lei si sentiva così. Vecchia, con la testa tra le mani e seduta. Erano secoli ormai che non usciva per fare una corsa, una passeggiata. Un giro in centro. Erano secoli che non usciva.
L’uomo è un animale sociale. Ha bisogno degli altri, per vivere. Ma c’era qualcuno dietro quello schermo. Forse. Persone, entità.
La tastiera, lo schermo, il mouse. Interfacce. Strumenti per mettersi in comunicazione con un sistema. Una volta il sistema era semplice. Un calcolatore. Gli davi un ordine, un imput, e lui rispondeva univocamente. Output. Due per due? Quattro. La radice di centoquarataquattro? Dodici. Adesso è tutto diverso. Al di là dello schermo c’è un mondo infinitamente più vasto del mondo reale. Nella testa di ogni persona collegata in rete vive un brulicante universo di idee, simboli, esperienze, interpretazioni, immagini, suoni. E tutti questi universi sono collegati tra loro, si compenetrano, esondano sulle parti dure della vita, traboccano dalle periferiche e ti inondano come uno tsunami, trascinandoti con loro. Ogni interfaccia ha il suo universo. L’universo delle tastiere, era stranamente rinchiuso in un universo più piccolo, quello materiale. Quello in cui al posto di tasti e click ci sono dita e occhi. Interfacce di un altro mondo. La cosa buffa è che le sensazioni del mondo duro, l’Hard World, per essere capite dal nostro essere devono essere ri-codificate in impulsi elettrici, trasmesse attraverso nervi e sinapsi al cervello, che li ritrasmette all’Io. Ma allora qual è la vera natura dell’essere? Un Soft compreso in un Hard che in ultimo ridiventa Soft e quindi Hard, forse all’infinito?
Comunque, Wikipedia diceva che la sua depressione non esisteva. Alla fine, le parve di capire da una lettura rapida, la depressione ha origini o genetiche o traumatiche. Kiba escluse subito le origini genetiche, perché si ricordava di un tempo in cui rideva. Escluse quelle traumatiche perché non le era capitato nulla. Da eoni. Non capitava mai nulla, e forse era solo quello il problema. Era successo tutto molto lentamente, senza traumi. Ogni giorno un po’ di più attaccata a quello schermo, ogni giorno un po’ più svogliata.
I sintomi c’erano tutti però.


1. Umore depresso per la maggior parte del giorno, come riportato dal soggetto
2. Marcata diminuzione di interesse o piacere per tutte (anedonia) o quasi tutte, le attività per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno.
3. Significativa perdita di peso in assenza di una dieta, o significativo aumento di peso o diminuzione o aumento dell’appetito quasi ogni giorno
4. Insonnia o ipersonnia quasi ogni giorno
5. Agitazione o rallentamento psicomotorio
6. Affacatibilità o mancanza di energia
7. Sentimenti di autosvalutazione o sentimenti eccessivi o inappropriati di colpa
8. Diminuzione della capacità di pensare o concentrarsi o difficoltà a prendere decisioni
9. Ricorrenti pensieri di morte, ricorrente ideazione suicida.” (Wikipedia)

Lei era per quelli di assenza- mancanza. Non si muoveva, non ne aveva voglia, eppure non ingrassava. Anzi. In fondo, nemmeno di mangiare ne aveva una gran voglia. Qualche patatina ogni tanto giusto per.
Poi erano passate le ore. I giorni no. I giorni non passavano mai. Al di là della finestra grande passavano luci e ombre, e vento e pioggia, ma i giorni, quelle foglie da calendario, non cadevano più. E alla fine, al di là della finestra piccola e luminosa non passarono più nick, né bot, né entità di alcun genere. Forse perché quella room in cui si era ritirata non la conosceva più nessuno, o quasi. Per qualcuno forse era un ricordo d’altri tempi, d’una community morta come le città fantasma della corsa all’oro. Quella room era diventata come la sua stanza.
Kiba era dentro a tutto. Dentro al Hard World e dentro il Soft, dentro la città, il palazzo, la stanza, dentro il letto, dentro il pc, dentro la room.
A Kiba venne voglia di uscire, verso mezzanotte. Restò comodamente a letto, senza essere né sveglia né addormentata, ad ascoltare quell’unica scintilla di desiderio che le era rimasta attraverso la nebbia. Ad aspettarla crescere. Verso l’una e venticinque sentì una specie di prurito percorrerle gli arti superiori, e mosse le dita.
Lentamente, si alzò, sfiorò il mouse e guardò la x bianca in campo rosso in alto a destra. Click.
Chiudere sessione. Non aspettò che lo schermo si spegnesse, ma sentì il rumore dello spegnimento di windows mentre usciva dalla porta di casa.
Uscì dal letto, dalla room, dalla stanza, dalla sessione, dall’appartamento, da internet, dal pianerottolo, dal pc. Entrò nell’ascensore per uscirne un attimo dopo. Era strano aver chiuso quasi tutto il Soft. Le restavano giusto i suoi pensieri, come uccelli in gabbia, come palline di gomma a rimbalzare in quei pochi centimetri tra le parietali del cranio, con un bisogno infinito di cielo. Del buio dell’universo tutto.
Connettersi con il tutto o non essere niente.
Uscì sul tetto del condominio, un bel terrazzo dove in un’altra vita era salita a prendere il colore della terra dal cielo.
Guardò verso il basso, e le sembrò che il perimetro della via deserta assomigliasse ad una grande porta; c’era persino un camion parcheggiato sulla sinistra a fare da maniglia.
Cosa c’era oltre la durezza del cemento? Il nulla? La Grande Rete?
Mentre volava, pensò soltanto al vento tra i capelli.

 
 
 

Post N° 62

Post n°62 pubblicato il 01 Aprile 2008 da stratagemmo

It's not time to make a change... ma lo vorrei molto.
E' da molto tempo che ho paura di tornare da queste parti... dopo tanto silenzio forse bisogna tornare con qualcosa di importante... e di cose importanti o ce ne sono troppe o non ce n'è nessuna...
Cmq

POLITICA
Quest'anno voterò scheda bianca o nulla, odio il sistema che ci schiavizza, odio quella classe politica che riesce a restare sempre a galla e chi glielo premette, l'anno prossimo i berlusconidi o i finto-progressisti faranno le solite porcate ma NOT IN MY NAME, come dicevamo ai tempi della guerra in iraq...

PIANI DI VITA
Entro fine anno tornare nella mia patria adottiva, Firenze, la Toscana... Quale valutazione dare di questo limbo? Di questo anno e mezzo sospeso nel nulla? La mia vita è diventata come un atomo a legame covalente bipolare; giro come una trottola senza senso, tra bisogno di solitudine e bisogno di amicizia vera...
Un viaggio. Ci deve essere un viaggio più lungo, nella mia vita.

ROMANTICISMO
Ho bisogno di inventarmi qualche pazzia, di farla, o di scriverla semplicemente, o di immaginarla soltanto senza dirla a nessuno.


 
 
 

ubriachezza modesta

Post n°61 pubblicato il 13 Gennaio 2008 da stratagemmo
 
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Sono le 2.20 di notte, non ci sono più abituato. Alla notte, alla menabrea, alla du demon, al mojito. A questo piacevole mal di testa che mi circonda, al metal never die.
Bisogno di esprimersi, come tutti, del resto.
Artisti senz'arte, parrucchieri senza capelli.
Pensieri, pochi, complicati d'amore.
Luigi e Fiorini, sterline e ghinee, compiasso gigantografie comete Kowabonga, e poche parole mi piacciono come "gocciare", come "strataGEMMA", come Andromaca.
Anybody seen my baby?
QUando ero giovane ero piuttosto cieco. Quando ero vecchio ero piuttosto povero. Adesso sono solo spaventato. E' la terza volta che ascolto questa canzone dei Nightwish. BAsta, ascoltiamoci qualcosa di giapponese.
Ho bisogno di dipingere. perchè non ho mai dipinto. E di fare fotografie. E di cambiare le batterie nella macchina fotografica. E di smettere di picchiare su questa tastiera. Forse ho anche bisogno di vomitare, ma non mi va di sboccare. Ho sonno. Fottuti Charlie. Fottuti giapponesri. Kowaboonga, Vento di Vino. Kami. Dio. Kaze. Vento.
washi. Guerriero. Do. Via.
E sta sera, cellule staminali embrionali per tutti!!! Cin cin!

 
 
 

Post N° 60

Post n°60 pubblicato il 07 Dicembre 2007 da stratagemmo

Quello che cerchiamo, mia cara, è un bacio puro, vergine.
Quello che cerchiamo, è un gesto gratuito, depurato da ogni sospetto di debito pubblico.

 
 
 

Post N° 58

Post n°58 pubblicato il 20 Settembre 2007 da stratagemmo

Hai quindici anni, fratello mio. Ti sei fatto i capelli blu, come io volevo. Hai avuto ragazze per le mani prima ancora di poterle desiderare. E oggi mi dici che non t'è mai successo, che proprio non ti riesce di innamorarti.
Alla tua età già il caos mi pervadeva, e tutto era più confuso, ma emozionante da morire. Sfiorare, quasi per sbaglio, un capello di una compagna di classe, era toccare il cielo con un dito.
Oggi le ragazze girano con i peli di figa fuori dalle mutande, le pance sopra le magliette, le cosce al vento. Non riescono più a tenersi nei vestiti, sono esplose fuori, trascinate dallo show biz e dalla concorrenza.
E ai ragazzi non è rimasto più niente da desiderare. 
La poesia, fratello mio, l'hanno ritagliata per ficcarla nel tre per due vicino alla cassa.
Qui non c'è, inutile cercarla.
La troverari, prima o poi, fratello?
Dove sarà?


 
 
 

Aiko

Post n°57 pubblicato il 18 Settembre 2007 da stratagemmo
 
Tag: Vita

Veniva da lontano. Era arrivata a Firenze giusto per salutarmi, una mezzoretta prima dell'altro treno, e via. Il suo nome significava "Voluta dall'Amore".
Vestiva punk, calze a rete e piercing sui vestiti, ma aveva le braccia di una panettiera, e i movimenti di una donna. "Bionda senza averne l'aria" avrebbe detto il Guccio. Gli sapebbe piaciuta.
Io invece avevo la mia solita tenuta medio-borghese, i classici vestiti di chi non lavora e deve sottostare alle clausole paterne. In fondo non sembrava darle fastidio.
Andammo a berci una birra, dopo aver raccontato al suo ragazzo per telefono chissà quale mezza verità.
Eravamo una ben strana coppia. Io moro, lei bionda, io alto e mingherlino, lei che sembrava l'inno alla gioia. Non che fosse grossa, intendiamoci. Certo era una donna vera.
Al pub delle ragazze biondo-slavato cercarono conversazione al nostro tavolino, senza troppa fortuna. Fu lì che iniziammo a parlare. Quasi senza accorgercene. A volte, ti capitano queste cose assurde... un momento prima sei li che guardi il cielo, un momento dopo stai parlando. Per sedici ore consecutive. All'inizio sembra una conversazione normale... nè stupida nè tropo colta, una cosa così sulla fotografia, abbastanza generica da non risultare invadente, abbastanza artistica da divenire interessante. Dopo un po' il tempo passa e tu non te ne accorgi che passa. E non ti accorgi che non hai più fatto nemmeno una pausa per prendere fiato. I treni partono, partono gli inviti in pizzeria, gli amici si defilano, e ci si ritrova in due, che ancora stai parlando, tra una pizza e un bicchiere di vino.
Lei fumava lucky strike, e io debbo avergliene scroccate una quantità imbarazzante quella sera.
Ci raccontammo tutta la vita, quella notte.
Ogni piccolo grande dramma, ogni cosa dall'infanzia a quel giorno. Tutto quello che racconti in un amicizia di dieci anni, ce lo siamo detti in una notte.
E' strano, avere una ragazza in casa tua, e non provarci nemmeno. Lei era bellissima, e in certi momenti avrei voluto darle almeno un bacio. Ma sarebbe stato troppo poco... che cos'è un bacio a confronto di una vita?
Ci siamo scambiati le vite, la sua a me, la mia a lei.
E' stato come un'amore, come una storia d'anime senza corpo.
Se ne andò via alle undici di mattina, senza più niente da dire.
Non la chiamai, non la rividi più.
Però è una di quelle poche persone per cui darei la vita, se me lo chiedesse, o se ne avesse bisogno.

 
 
 

Sogni dispettosi

Post n°56 pubblicato il 17 Settembre 2007 da stratagemmo
 

Anche questa notte ti ho sognata.
Mi dicevi "ti amo, lascia perdere tutto, torniamo assieme"
Ero felice, ed era quasi primavera.
Nel sogno volevo sposarti. Eri felice, e solo questo importava.
Invece sei a mille chilometri più a sud. Cifra tonda. Fa ancora caldo, laggiù?

 
 
 

Post N° 55

Post n°55 pubblicato il 13 Settembre 2007 da stratagemmo

Azioni-volante-obbligazioni-tassi-clienti-interessi-garanzie-strada-rischi-titoli-banche-colleghi-macchina-flessibilità...

Poi d'improvviso
TOC
il tempo che fa un buco in se stesso
d'improvviso mi cadono addosso venti minuti
venti minuti di tutto il tempo del mondo
e d'improvviso ho l'erba
ho il vento tra gli alberi
e una strada lungo il lago
e il tramonto
e penso
al vento
agli alberi alla sera
e spengo la musica
e tutto è musica

 
 
 

La Ghigliotteine!

Post n°54 pubblicato il 10 Settembre 2007 da stratagemmo
 
Tag: Sesso

Prima o poi doveva arrivare il momento di parlarne. Forse per stemperare l'aria troppo densa, forse per riprendere il discorso sessualo anomalo che è sempre interessantabile...

La storia parte da molto lontano, parte dai pali. Ricordatevi sempre: un palo è una ghigliottina in potenza.

Palo. Definizione: dicasi palo ragazza che si corica nel tuo letto e respira. E basta. La spogli, si lascia spogliare. Rimanendo praticamente immobile. Magari prima ti ha pure chiesto di "essere dolce". Quindi devi un attimino lavorare su di lei. Solo per lei... che alla fine rischi che ti passi pure la poesia... E allora prima o poi, dopo giorni o dopo anni, cerchi di farglielo capire, o di dirglelo, che magari è ora che si dia un po' da fare pure lei, altrimenti ti senti solo...

A questo punto, dopo lunga e attenta riflessione, la ragazza di cui sopra si getta in un attività a cui par nuova e poco avvezza, però con entusiasmo e tanta energia con cui pensa di controbilanciare la mancanza di delicatezza. Nella foga entusiastica si propone pure attivamente di restare lei sopra, e noi poveri ingenui che per un attimo pensiamo "evvai! oggi sto più comodo!"
Ma è proprio in questo momento che si carica la ghigliottina.

Le donne (anche gli uomini a quanto ne so, ma il discorso non mi riguarda...) hanno un osso piatto, che va da un anca all'altra, che si chiama pube. In effetti, lama finale a parte (per fortuna!) ha tutta l'aria di una ghigliottina.

Ora, quando la ghigliottina è caricata, la ragazza si trova sopra, nel pieno del suo entusiasmo fai da te.... quando, all'improvviso, dimostrando ben poca conoscenza di anatomia, geometria, calcolo delle distanze e delel direzioni, si getta dal quinto piano verso la tua parte più intima sbagliando clamorosamente mira...

.... e ZACK!

(colpiscono sempre lì, verso la radice, proprio come se foses ben chiara in loro la premeditazione del gesto, un taglio netto, via tutto in un colpo solo...)

AAAAAAAAAAAAAAAAAAHHHHHH!!!

urli tu

ah, ti piace? -pensa lei, e ricarica la ghigliottina

Poi quando vede che ti sei accasciato al suolo dolorante forse inizia ad intuire che qualcosa non va... ma tu intanto sei fuori combattimento...

- ...Ma che c'è? C'è qualcosa che non va?

- No, niente cara... è solo che sta sera ho mal di testa...



 
 
 

Ky

Post n°53 pubblicato il 10 Settembre 2007 da stratagemmo
 
Tag: Amore

Chiara come un bel sole d'inverno, e trasparente stella all'imbrunire...

Mi manchi. Tra tutte le persone di questo mondo che si sono perse nella nebbia, inghiottite da chilometri e strade diverse, sei tu a mancarmi di più. Mi manca il tuo sorriso, la tua dolcezza, i tuoi capelli. Mi manca la nostra complicità, il nostro bisogno di giustizia, la voglia di essere don chisciotte ogni giorno della nostra vita. Provare a metter su qualche progetto e immaginarci nel domani, mi manca il tuo sole e la mia notte che splendeva quando stavo con te. Mi manco com'ero quand'ero con te, nascosto da tutti e da tutto, una persona che nessuno, a parte te, ha mai conosciuto.

Ehy Lady come stai? Non ci sentiamo più, ma non potrò scordarti mai...

Era Settembre quando ti dissi "ti amo". Era Ottobre quando ti baciai.
Era Aprile quando ti persi per sempre, anni dopo.

Chissà come mai. Non l'ho mai capito. Forse io amavo troppo birra e sigarette, e tu la tua terra, o la tua famiglia, o forse abbiamo avuto solo paura.
So solo che se tu me lo chiedessi ti sposerei domani.

Sanguino ancora un poco quando penso che tutte queste cose non te le posso nemmeno dire, e allora mi tocca accartocciarle qui, in questo sgabuzzino sporco di parole vomitate con alcuni raggi di luce che entrano da un tetto bucherellato.

Si tu n'existais pas, dis moi pour qui j'existerais? Des passantes endormie dans mes bras que je n'amerais jamais...

Ed ecco, tu non eisti più- e faccio sempre più fatica a trovare un senso a questa scalcinatissima vita...



 
 
 

Post N° 51

Post n°51 pubblicato il 07 Settembre 2007 da stratagemmo
 

Let me fall in love with you...

Who does care if you do not too?

 
 
 

Tette e consulenti

Post n°50 pubblicato il 05 Settembre 2007 da stratagemmo
 
Tag: Vita

Io nella vita faccio una cazzata dietro l'altra. Com'è che sono diventato "consulente finanziario e assicurativo"?
Ma non dovevo imparare a scrivere? O almeno fare la fine di un topo di biblioteca, rinchiuso in una qualche libreria del centro, sottopagato come un tirocinante di 40 anni a bestemmiare perchè ormai ero vecchio ed è sempre più dura rimorchiare con la filosofia quando il fisico non ti sostiene più... Ah, ecco perchè. Si torna sempre lì. Non è che le ragazze siano troie. Nemmeno che adorino i soldi. E' che adorano quello che i soldi possono comprare. Loro lo chiamano "essere presente", oppure "concedergli qualche attenzione"... noi leggiamo "fare regali", andarle a prendere con una macchina decente e scorrazzarle in giro...  In fondo anche un tramonto, costa. A meno che non vuoi vedere il sole tramontare dietro i grattacieli della periferia, che non vedi più il sole e il cielo è ancora azzurrino grigino. "Basta una bella serata con gli amici". Magari con qualche bella cannetta eh? Ma non fumo, che quello stona e fa venire mal di testa. Erba, magari from swizzerland. E vallo a trovare.

Ma le americane, quelle buone vechcie chiattone che non aspettano altro che essere rimorchiate... quelle cicicone che mi bloccano il motorino in salita da quanto pesano, che però non ti fanno storie, basta che le offri magari un moito a 2.50 e sono già contente, e il giorno dopo vanno via e non vogliono le coccole...

Americane forever....
Solo che non si può campare per sempre di americane. Uno prima o poi si innamora. Magari uno prima o poi vuole metter su famiglia. E come fa? Dove li trova i skei per la casa e per i pannolini? Con una laurea in M&G? Libreria a 400 euri al mese? Sottimpiegato fotocopista e caffettaro?

Poi un giorno vedi una ragazza con due tette così che ti fa "Vieni, ti insegno a rimorchiare. E in più ti do uno stipendio che te lo sogni."
Ah già. Ecco come sono diventato consulente...

 
 
 

Shunga (ovvero: dell'erotismo antico giapponese)

Post n°49 pubblicato il 23 Agosto 2007 da stratagemmo
 

Ci sono certe cose che anche se sono davanti ai nostri occhi non si vedono. Quando entro in questo ripostiglio di frasi sconnesse non noto mai l'immagine, lì in alto. E' uno Shunga, antica arte "erotica" giapponese. Una specie di giornalino porno dei samurai, che si sa, la guerra è lunga, le mogli lontane, e quando si tiene sotto assedio una città non è che di giorno l'assedi e di notte ti fanno entrare a fare un giro al bordello... o almeno, non di norma. Solo che dato che la carta costava molto, l'immaginazione nulla, la fotografia ancora non l'avevano inventata e i pittori bravi erano rari e poco cheap, di disegni da appendere alla tenda nelle lunghe notti di luna piena se ne portavano solo una. Ora, lo shunga ripetuto quassopra mostra una donna in potere di un polipo gigante, che a quanto pare, per uno strano scherzo della natura, ha le terminazioni nervose dei tentacoli uguali a quelle di una ben altra parte anatomica di un altra specie animale (o più propiamente "nimale"). Sinceramente non ci trovo nulla di eccitante in questo polipone, ed infatti più che l'erotismo postdatato in quest'immagine ammiro la libertà artistico-espressiva di una cultura che faceva queste cose mentre noi avremmo bruciato vivi pittori che lasciavano intravedere un centimetro di pelle di caviglia di troppo. Però sicuramente se qualcuno dipingeva questo genre di cose e qualcun altro le comprava qualcosa di stimolante per qualcuno ci sarà. Quello che mi chiedo, invece, è: come si sarà sentita quella donna? Una donna di oggi, nella sua più nascosta ed intima libertà, si immaginerebbe mai di farlo con un polipone gigante? 

 
 
 

Post N° 48

Post n°48 pubblicato il 22 Agosto 2007 da stratagemmo

Mezzanotte

Mia madre ha gli occhi rossi
- succede troppo spesso-
legge il giornale
da sola

A mezzanotte
in una buona famiglia
non si legge soli il giornale
con gli occhi rossi

senza occhiali.

 
 
 

Post N° 47

Post n°47 pubblicato il 18 Agosto 2007 da stratagemmo

Peso... ho fatto il mio test.
Ho fatto un punteggio di 72 su 88.
 mah.

 
 
 

Post N° 46

Post n°46 pubblicato il 18 Agosto 2007 da stratagemmo
 

"Cosa fanno i momenti felici,
quando se ne vanno
dove vanno?

A cosa serve essere felici un momento?
il momento dopo
passa

e sarà ancora noia, o lavoro, o testa,
o vita,
o un altro momento
malinconico o felice,
ma un altro,
sarà un altro.

A cosa serve ricordare i momenti
felici,
di ieri o di anni fa?

A cosa serve la gioia,
anche quando la riconosci,
anche quando è tua?

A cosa servono i momenti felici?"

 
 
 

I mantovani e la Figa

Post n°45 pubblicato il 18 Agosto 2007 da stratagemmo
 
Tag: Odio

Odio i mantovani.

Quattro giorni in versilia, tre ragazzi mantovani (io no, rinnego quella patria!), due discoteche, una sola parola mi tunzava nelle orecchie: "LA FIGAAA!"
Il ragazzo mantovano è un ossessionato della figa. E' un pornomane, voyerista che sfoga buzzurramente le sue pulsioni verbalmente.
Inizia parlandone con gli amici il 99% del tempo. "Dov'è la figa, provaci con quella figa, io voglio una figa, ah! come la scoperei quella figa, figa figa figa!"

Dopodichè cercano spasmodicamente i "locali dove c'è figa". Ovvero andando a fare gli aperitivi alle sei e mezza di sera, quando ovviamente non c'è ancora nessuno in giro. Allora inizia il lamento sul posto sbagliato, sul locale sbagliato, sul paese sbagliato. Poi cenano, guardandosi attorno tutti sbavati di sugo e con gli occhi fuori dalle orbite. Sembrano quegli erbivori, nei documentari di quark, che si chinano al fiume a bere restando sempre a roteare le pupille in ogni direzione cercando di capire se sta passando un predatore. Nel caso del mantovano: una figa.

Poi c'è la bevuta post cena, verso le otto e mezza, quando la gente è ancora all'aperitivo. Qui finalmente iniziano a vedere un po' di ragazze tirate. E il meglio che possono fare è urlar loro in faccia sconcerie umidicce e ripetitive. Facendo finta di essersi sbagliati, che in realtà pensavano di parlare più piano...

Dopo un oretta, giunti al secondo bicchiere, iniziano a lamentarsi che le ragazze non gliela danno- il mantovano ha una capacità innata particolarissima: riesce sempre a trovarsi in quell'esatto punto del pianeta in cui le ragazze se la tirano più di tutte... (e un motivo ci sarà...)- anche se  ogni tanto (ma proprio tanto) a qualcuno viene in mente "ma per quanto buzzurri siamo, se non la chiediamo nemmeno, come farebbero a smollarcela?"


A questo punto finge di essere abbastanza ubriaco per andare in disco. Sceglie quella più costosa, più scenografica e frequentata dalla gente più vecchia e tirata possibile. Per poi lamentarsi che "qui se la tirano, sono vecchie e costa tanto". Ma l'hai scelto tu, coglione. Questo particolare però gli sfugge sempre.

Ritornano a casa cercando di fare qualche grandissimo danno, come suonare il campanello della bicicletta in pieno centro, per poi raccontarsela come una notte di rock and roll, di devastazione pura in cui hanno messo sotto sopra la città. Il tutto tunzandomi nelle orecchie come il peggior Repetto "figa figa figa".

E tu vagli a parlare di poesia.




 
 
 
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