Creato da ciapessoni.sandro il 21/02/2010

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P o e s i a - L e t t e r a t u r a - S t o r i a - M u s i c a

 

 

L'AMORE DI LOREDANA - Romanzo dello scrittore: Luciano Zuccoli.

Post n°206 pubblicato il 21 Dicembre 2012 da ciapessoni.sandro
Foto di ciapessoni.sandro

L’AMORE DI LOREDANA – Romanzo dello scrittore: Luciano Zuccoli

 

 

Immagine: Sirmione

Grotte di Catullo.

 

… seguito PARTE PRIMA

***

Quinta parte del romanzo – (seguito del post 205)

 

V

La mattina dopo l'arrivo a Desenzano, Loredana corse al balcone dell'albergo e vide sotto il sole fastoso scintillare il lago di cobalto. Lontano, a levante, un piccolo paese si spingeva per una lingua di terra molto innanzi nell'acqua.

- Andremo laggiù, - disse tra di sé, contenta di vedere paesaggi nuovi, ella che non si era mai allontanata da Venezia se non per pochi chilometri.

Il colore del lago, così azzurro da dare quasi all'acqua una densità materiale, era mirabile. La fanciulla, abituata alle trasparenze leggere della laguna, ne restò meravigliata e sentì come un piacere intenso per quella vita liquida che si stendeva ampiamente sotto i suoi occhi. Filippo bussò discretamente all'uscio ed entrò.

- Amore mio, come sei elegante! - disse.

Loredana vestiva tutta di bianco, con una cintura bianca e lo scarpe bianche, e sorrideva all'amico, il quale era superbo della sua candida bellezza.

- Ogni cosa fatta a pennello! - dichiarò Loredana, indicando l'abito; e soggiunse, dopo una lieve esitazione: - Tu mi portavi con te, nella tua mente, quando ordinavi i miei abiti! Ma il pensiero non le si era presentato così; era stato piuttosto un senso di molestia per quella strana perizia dell'amico suo, la quale svelava una lunga e costante dimestichezza con le donne, una singolare esperienza d'anime e di corpi femminili. Nulla a lei importava di ciò che era finito ieri: ma domani?

Ella disse, attirando Filippo sul balcone:

- Vedi, laggiù? Quel paese che si spinge nel lago? Là, vuoi andare?

- No, - rispose Filippo. - Quello è Sirmione; noi andremo a Maderno o a Gargnano o più oltre, nel Trentino, a Riva....

- Che peccato! Deve essere molto bello, laggiù,

- Vuoi? Se ti piace, io non ho nulla in contrario. Farà molto caldo, ecco tutto. Sirmione è grazioso. Manderemo a vedere se vi sono alloggi...

Mandarono a vedere; partì un uomo dell'albergo con la vettura; tornò dopo colazione.

V'erano alloggi, modesti ma puliti, nell'unica trattoria del paese; si poteva tentare...

La cosa, piacque molto a Loredana. In quel tempo, Sirmione non vantava ancora alcun grande albergo né uno stabilimento di bagni. Vi arrivavano di tanto in tanto gli escursionisti, quasi tutti tedeschi, a visitar le grotte leggendarie di Catullo; mangiavano, ammiravano, ripartivano. Il piroscafo v'approdava una volta al giorno, se il tempo non era cattivo. Tutto questo, raccontato dal direttore dell'Albergo Reale, accese la fantasia della ragazza, che già pensava di vivere più anni in quella penisoletta con Filippo, lontani dal mondo e pur vicini, obliati e felici...

Nel pomeriggio, sotto mi sole rovente, per la strada piana e bianca di polvere, gli amanti partirono in una carrozzella alla volta di Sirmione, seguiti da un baroccio coi bauli che avevano spaventato il conte Roberto. Quando giunsero al punto nel quale si lascia la strada provinciale per volgere a sinistra e inoltrarsi nella penisoletta, la fanciulla fu molto contenta. Dal balcone dell'albergo di Desenzano non avrebbe mai immaginato un paesaggio così bello. A destra e a manca, tra i rami degli ulivi e il fogliame degli alti pioppi, scintillavano le acque del lago riccamente turchine, immote nella accidia delle ore calde. È a un gomito di quella strada che s'incontra una casetta modesta, con uno svelto cipresso innanzi, e sotto si stende il lago irto per buon tratto di canne fragili; angolo pittoresco, riprodotto migliaia di volte da sapienti e da timidi pennelli.

- Andremo un giorno a vedere quei paesi laggiù! - disse Loredana, indicando i gruppi di case sulla sponda veronese. - Voglio veder tutto il lago.

- Ti piace? - domandò Filippo.

- Ah, immensamente! Sarò felice! - esclamò la fanciulla in un impeto di gioia, battendo le mani.

Tacque. La fronte le si rannuvolò subitamente; ripensava alla mamma, cui non aveva ancor dato notizie, e che era sola ormai nella casa deserta. Per celare a Filippo la tristezza improvvisa, si volse indietro a guardare il baroccio che correva tra un nugolo di polvere.

Ma già si vedeva la torre del castello Scaligero, cinta a metà da mura grigiastre, e la strada si ampliava; la carrozza oltrepassò il ponte di legno che dalla porta del castello mette in paese, e la rocca apparve lacerata da lunghe feritoie, circondata tutta intorno dall'acqua; lo stemma degli Scaligeri, ancor visibile, il leone di San Marco, in rilievo, la croce bianca in campo rosso del Comune, posti simmetricamente sull'alto della porta che guarda a occaso, dicono i tre domini che si susseguirono.

Le donne e i pescatori raccolti in gruppo sulla piazza osservarono l'equipaggio insolito e il carro coi bauli, ma nessuno si mosse. Non avevano alcun bisogno dei forestieri. L'acqua li faceva liberi, e quell'anno la pesca delle sardelle era stata insolitamente fortunata.

Si fece incontro alla vettura il proprietario dell'albergo, e aiutò Loredana a discenderne. Era un uomo tozzo dal viso rubicondo; non abituato a cerimonie, salutò con una certa dimestichezza e annunziò che gli «sposi» si sarebbero trovati benissimo in casa sua. Aveva tutto approntato, rinfrescato, ripulito con cura; le due camere e il salotto guardavano il lago; di giorno faceva caldo, ma si tenevano le persiane chiuse e si scendeva in giardino; di sera, poi, era una bellezza ovunque. A pochi passi di là, comparve anche la moglie dell'albergatore, più timorosa per l'aspetto signorile di Loredana, della quale notò in un batter d'occhio l'abito, la figura slanciata, il viso freschissimo, la bella bocca. Essa dichiarò che era felice di non alloggiare i soliti tedeschi con la piuma di gallo sul cappellino verde.

Mentre i due vetturali scaricavano i bauli, gli amanti salirono a veder le camere, e sulla scala s'imbatterono in una signora ampia di forme, col viso pitturato e le sopracciglia duramente segnate a nerofumo. Ella salutò chinando la testa, e si fece da un lato.

chinando la testa si fece da un lato.

- È la signora Teobaldi, di Verona, - disse l'albergatrice, che seguiva. - Una buona e bella signora.

Filippo la guardò appena, rispondendo distratto al suo saluto, Loredana sorrise per quelle spaurevoli sopracciglia; e per la maschera di biacca e di belletto che le deturpava la faccia. Le due camere da letto erano grandi e pulite, ciascuna con un armadio a specchio, un cassettone di legno chiaro, una tavola rettangolare coperta da un tappeto modesto ma nuovo. Il salotto era addobbato con carta a fiori d'oro sul fondo rosso; i mobili mal disposti, in ordine scrupolosamente simmetrico, facevano pensare a lunghi mesi d'abbandono, quantunque non vi fosse un grano di polvere. Il pianoforte, del quale Filippo toccò alcuni tasti, emise un miagolio prolungato che fece ridere Loredana.

- Bisognerà comprare molti oggetti inutili per nascondere la bruttezza degli oggetti utili, - osservò Filippo, senza badare alla faccia scorata dell'albergatrice. - Va bene, - seguitò con quest'ultima. - Faccia portare subito i bauli...

- Sì, signor conte, - disse la donna.

- A proposito: sa il mio nome?

- Me lo ha detto l'uomo che è venuto stamane a vedere le camere, - rispose l'albergatrice. – Il signor conte Filippo Vagli e la signora contessa, di Venezia. Anzi, volevo chiedere alla signora contessa se suona il piano...

- Perché ? - domandò la giovane.

- Perché in tal caso lo farei accomodare: è un po' scordato.

- Lo faccia accomodare, - disse Filippo.

E quando la donna se ne fu andata, seguitò con l'amica sua, che si toglieva il cappello:

- Non vorrei esser caduto in un covo di pettegole...

- Dove sarebbero? - domandò la fanciulla stupita.

- Quella signora di Verona, per esempio: Teobaldi o Tibaldi o Ribaldi....

- L'albergatrice ha detto che è buona....

- Sì, - osservò Filippo, - ma ha detto pure che è bella! E allora, stiamo freschi!

Loredana diede in una risata, pensando alle terribili sopracciglia immobili. Ella s'era affacciata alla finestra e sembrava compenetrarsi della luce folgorante che saliva dal lago, dardeggiava la linea onduleggiata delle montagne, incendiava le case di Desenzano, faceva frinir le cicale sugli alberi.Ad un tratto si volse e disse:

- Oggi scrivo alla mamma.

- Appunto, - rispose Filippo. - Anch'io...

E stava per continuare, quando fu bussato alla porta ed entrarono gli uomini con un baule.

- Che cosa dicevi? - domandò Loredana, allorché gli uomini uscirono per prender gli altri bagagli.

- Volevo dirti che ho intenzione di andare a Venezia, fra qualche giorno. Bisogna, ch'io sappia ciò che si dice, - dichiarò Filippo, sedendo in una poltroncina. - La mia assenza non può essere stata notata: a Venezia son rimaste poche famiglie che io conosco, e in quest'epoca, tutti gli anni io vado in campagna. Ma voglio udire se si fanno chiacchiere e voglio, se mi riuscirà, aver notizie di tua madre.

- Come farai?...

Di nuovo gli uomini entrarono con un baule, che Filippo ordinò di deporre nella sua camera.

- Non deve esser difficile. - egli continuò poscia, - mandare qualcuno da lei con un pretesto. Anzi, servendomi d'una, persona fidata, potrei farle consegnare la tua lettera.

La fanciulla tacque un istante. Quel disegno di Filippo le pareva logico e pure la turbava; appena arrivata in un paese nuovo, tra gente sconosciuta, doveva rimaner sola, di giorno e di notte. E all'idea che Filippo volesse abbandonarla, un tale spavento la prese, che si sentì sbiancare il volto, come tutto il sangue le si fosse gelato nelle vene.

Ritornò alla finestra, per nascondere il suo turbamento; ma non vedeva né il lago, né il sole, né la città dirimpetto, che un minuto prima le era parsa sfavillante...

- Che pazza! - disse a sè medesima. - Come potrebbe abbandonarmi, se mi ama, se lo amo, se gli ho dato tutta me stessa? Non lo conosco da tre anni, non sono stata per tre anni la piccola amica, e non sono oggi la piccola amante?

Udì che gli nomini, recato l'ultimo baule, salutavano e uscivano ringraziando. Si tolse dalla finestra, e disse a Filippo, con voce un po' debole:

- Sì, è giusto. Devi andare.

Quella stessa mattina, il conte Roberto, arrivate a Fasano in carrozza, spedì subito un telegramma a sua cognata. Il telegramma, alla forma del quale aveva pensato durante tutto il viaggio, diceva: «Non ho visto nessuno. Lascia fare».

E la contessa Bianca ricevendolo si chiese se quel «Lascia fare» significasse «Fida in me» o non piuttosto: «Lascia che ciascuno viva a modo suo».

Ma le parve che la seconda interpretazione fosse la buona.

 

Fine quinta puntata

Buona lettura.

 

 
 
 

L'AMORE DI LOREDANA - Romanzo dello scrittore: Luciano Zuccoli.

Post n°205 pubblicato il 15 Dicembre 2012 da ciapessoni.sandro
Foto di ciapessoni.sandro

L’AMORE DI LOREDANA – Romanzo dello scrittore: Luciano Zuccoli.

 

 

Immagine

Gargnano del Garda – Pescatori…

Cliccare sull’immagine per ingrandire.

… seguito PRIMA PARTE

***

Quarte puntata (seguito del post 204)

Ogni giorno si tornava daccapo; il carattere passionale d'Adolfo s'accendeva e s'inveleniva; il giovane avrebbe voluto che la signora De Carolis intervenisse a favore di lui, ma la mamma giudicava con la testa della figlia, e non ricordava nemmeno di averla rimproverata una volta in diciotto anni. Anzi, vedendo che la figlia era triste, anche la signora De Carolis cominciava a pensare, senza avere il coraggio di dirlo, che Adolfo era brutale; e si pentiva d'avere accolta e favorita la proposta della famiglia Gianella, che voleva unire i due giovani. Non si poteva negarlo: la pace della casetta bianca era stata turbata da Adolfo Gianella; Loredana, sempre allegra, aveva mutato carattere per colpa di lui; egli, geloso, inquieto, pieno di sospetto, guardava tutti in cagnesco, non voleva che si andasse a teatro, s'irritava per la spensieratezza di Loredana, l'offendeva con incessanti osservazioni, pretendeva ch'ella fosse già grave e prudente come una madre di famiglia, e infine, anche nei momenti buoni, era querulo e noioso, pedante e meschino.

Per quel contrasto incessante, la fanciulla era accasciata; e più d'una volta Filippo la trovò con gli occhi rossi e gonfi.

- Non bisogna sposarlo, sa? - egli diceva recisamente. - È un matrimonio impossibile. Che cosa farà quel ragazzo quando sarà suo marito e avrà i diritti più stupidi e più antipatici? Vuole che parli io con la mamma?

La fanciulla non aveva il coraggio di togliersi da quella situazione tormentosa: tutta la famiglia Gianella, madre, padre, zii, cugini di Adolfo, le stavano attorno, magnificando le virtù del giovane, facendo disegni per l'avvenire, dimostrandosi tanto sicuri, tanto lieti per quel matrimonio singolarmente felice, che Loredana soffocava e taceva. Ma non si sarebbe potuto trovare un uomo il quale fosse più di Adolfo incapace di comprenderla, tanto che essa, buona con tutti, era sempre con lui irritata, nervosa, dolente.

Da ultimo egli voleva anche legger le lettere ch'ella riceveva dalle amiche, delle quali non si fidava punto; una mattina, mentr'egli s'era recato a dare il buon giorno alla fidanzata, sopravvenne il portalettere, e Adolfo s'impadronì della posta, aperse la lettera d'una ragazza che scriveva a Loredana da un paese della provincia, domandò notizie delle persone ch'eranvi ricordate, e finì col mettersi la lettera in tasca. Quando giunse Filippo verso sera, la fanciulla vibrava ancora tutta di sdegno e d'ira; raccontò ogni cosa all'amico, anche quel che aveva taciuto fino a quel giorno, le angherie, le taccagnerie, la diffidenza oltraggiosa, la gelosia irragionevole, la presunzione di Adolfo.

- Non lo voglio, non lo voglio, non lo voglio! - esclamava con gli occhi sfavillanti di rabbia.

- Qualunque cosa piuttosto di questo matrimonio! Mai, mai, mai!

Filippo aveva ascoltato in silenzio, guardando il pavimento a piastrelle bianche e rosse e segnando col piede il ritmo d'una marcia. A un tratto sollevò il capo, afferrò le mani dell'amica, e chiese:

- Vuole venire con me?

La fanciulla non capì subito.

- Dove? - ella domandò.

- Via, lontano, fuori di Venezia, per sempre! - incalzò Filippo.

- Fuggire? Fuggire con lei? - ella disse sottovoce, già tremando senza saperne la ragione.

- Mi ascolti, - mormorò Filippo.

Andò fino al limitare della saletta, vide che la mamma leggeva attentamente un libro mal rilegato, e continuò, tornando presso Loredana:

- Quella che noi chiamiamo amicizia, non è che amore. Se n'è accorta?

Essa, ferma e fissa, con gli occhi spalancati, non rispose.

- Me ne sono accorto io, - proseguì Filippo. - So che ti amo, sento che ti amo, sento che noi possiamo essere felici. Io non posso sposarti; capiscimi bene, non posso sposarti perché tutta la mia famiglia ci darebbe tali e tanti dispiaceri, che, in confronto, ciò che hai sofferto finora ti sembrerebbe una gioia. Sono ignoranti, caparbi e feroci.... Ma ti offro lo stesso il mio amore e la mia vita.... Anch'io sono stanco; anch'io non posso più trascinare questa esistenza tormentosa e inutile. Dimmi che accetti, e saremo felici.... Partiremo subito....

Loredana tolse le mani dalle mani di Filippo e si alzò in piedi: fece alcuni passi come per uscir dalla camera, ma sì fermò e si addossò al muro; piangeva in silenzio e le lagrime le scendevano giù per le guance.

Filippo le si avvicinò di nuovo. Era pallido e la sua voce tremava. Disse:

- Sei offesa?

Ella negò con un movimento del capo.

- Allora non mi ami d'amore, come ti amo io?

La risposta non venne. Loredana guardava l'amico attraverso il velo delle lagrime. Egli fece un passo come per allontanarsi, ma la fanciulla, rapidamente, istintivamente lo trattenne con un gesto.

- Sì, l'amo anch'io, - ella mormorò sottovoce.

Filippo l'afferrò per il busto e la baciò sulla bocca.

- Pensaci, - disse. - Pensa che saremo tanto felici.... La mamma perdonerà. Ti vuol troppo bene per condannarti. Capirà che tu avevi il diritto di vivere, di sottrarti a un avvenire spaventoso. Tu saprai farti perdonare, non è vero? poiché conosci la strada per giungere al cuore della mamma! Dimmi che accetti, e partiremo subito...

Essa, sempre addossata al muro, sempre immobile, con gli occhi pieni di lagrime, non rispondeva. Ma una scampanellata fece sussultare lei e Filippo. La fanciulla s'asciugò prestamente gli occhi, e corse nella saletta.

- Deve essere Adolfo, - ella disse alla mamma. - Io ho l'emicrania, non voglio vederlo, mi chiudo nella mia camera!

La mamma sospirò e alzò lo sguardo al soffitto. Loredana tornò da Filippo, gli strinse le mani, mentr'egli la baciava ancora sulla bocca.

- Pensaci! – ripeté Filippo.

Ella fece un gesto vago e scomparve, per chiudersi nella sua cameretta.

Adolfo Gianella saliva le scale, e Filippo udendone il passo, diceva con la signora De Carolis:

- Mi dispiace molto che la signorina sia indisposta; spero non sarà nulla....

- È malata? - chiese Adolfo sopraggiungendo e salutando Filippo con un saluto freddo e un'occhiata dì sbieco, - Dov'è stata ieri sera? Avrà preso freddo, o avrà mangiato qualche cosa d'indigesto...

Filippo se ne andò subito, e senza volerlo si disse, ridendo dentro:

- Tu, dovrai mangiare fra poco qualche cosa d'indigesto!...

Ripensò, quella notte, all'idea della fuga, balenatagli così di repente; e più vi pensava e più gli pareva buona. La signora De Carolis non avrebbe osato nulla contro la figlia adorata; Adolfo avrebbe trovato una consolazione nel pensiero che una fanciulla capace di scappar col conte Vagli non era degna di lui.... Infine, la cosa si sarebbe saputa da pochi, malamente, e si sarebbe sminuita, polverizzata per così dire, nel classico pettegolezzo veneziano. Filippo trovava l'onestà della sua disonestà; amava Loredana; sentiva che le sarebbe stato fedele, che l'avrebbe fatta contenta, ch'ella non avrebbe sofferto, e poiché di matrimonio era assurdo parlare a causa dell'opposizione formidabile che avrebbe trovato in famiglia, la fuga, una fuga prudente, senza troppo scandalo, senza chiasso, metteva termine a una situazione insopportabile per lui e per la piccola amica.

Gli venne anche il pensiero di Fausta; ma la disgraziata donna s'era in quel periodo di tempo totalmente perduta agli occhi di lui, pel suo strano contegno d'umiltà, nel quale egli non capiva nulla. Egli pensava con rammarico alla devozione della sua amante: Fausta non era fatta per obbedire, per tacere, per soffrire; ogni donna ha il suo fascino e il suo destino. L'asservimento aveva smorzato la bella fiamma di quegli occhi cilestri e tolto al viso il colorito della fresca giovinezza.

- È veramente doloroso, - pensava Filippo, - ch'io non possa amarla!

A poco a poco, ribadita dal conte, l'idea della fuga conquistava anche Loredana; nulla pareva più dolce che la vita con Filippo, e la fanciulla non trovava termini di paragone se non nella paura di quel matrimonio. Adolfo aveva svelato un nuovo difetto, insolito in un giovane: l'avarizia.

Egli spiegava certe sue miserabili economie con la necessità di aver denaro pel giorno degli sponsali, d'aver molto denaro per far bella figura; ma la fidanzata gli credeva poco, e notava, senza volerlo, quasi arrossendo, che intanto lo spirito gretto di lui si rivelava nei regalucci ch'egli le faceva e che sarebbero rimasti in casa a fare non bella, ma triste figura. Egli anche - aveva scoperto Loredana, ormai maestra di scoperte incresciose - egli mangiava troppo, ingordamente, magnificando la bontà delle salse e dei sughi. La madre sua si beava vedendolo così allegro, con un appetito quasi insaziabile; e Loredana, per non odiare l'uno e l'altra, inventava un'emicrania ogni qualvolta la signora Gianella l'invitava a pranzo.

Sui primi di maggio, quando la ragazza pensava di farsi qualche abitino nuovo e di comperarsi qualche piccolo oggetto d'eleganza, Adolfo decretò che gli abiti e i cappelli dell'anno precedente, ritoccati qua e là, potevano servire ancora; e la petulanza del fidanzato le sembrò tanto grave, che senza ribatter verbo, ella si ritirò nella sua camera e vi restò fin che Adolfo non se ne fu andato. Ma egli giudicava quei malumori con la presunzione di un esperto conoscitore di donne, sorridendo e aspettando che la bufera si calmasse.

Era ben lungi dall'immaginare che proprio quel giorno, otto maggio, qualche cosa di terribile e d'irreparabile doveva avvenire nella vita di Loredana. Sua madre l'aveva lasciata sola in casa, dopo la visita di Adolfo; la donna di servizio era andata alla stazione a incontrare il fidanzato che giungeva a Venezia per passarvi alcuni giorni di vacanza. Loredana non doveva aprire ad alcuno e stava nella sua camera, sdraiata sul lettuccio, leggendo un romanzo. Verso le quattro udì una scampanellata; corse al balcone, vide Filippo, e la tentazione fu troppo forte: andò subito a tirare il cordone e la porta si spalancò innanzi al conte, che credeva di trovar la fanciulla con la mamma.

Quando seppe ch'era sola, egli la guardò in silenzio ed ella guardò lui; le loro bocche si unirono e così, dopo tre anni, la piccola amica diventò la piccola amante. Quella medesima sera, la fanciulla andò a teatro con la madre e un'altra signora. Aveva il suo abitino rosa lievemente scollato e un cappellino di paglia rossa a tricorno, sotto il quale i capelli parevano più bruni e i riflessi più dorati. Ella stava attentissima alla rappresentazione, «L'amore ricama», una commedia francese in tre atti; teneva gli occhi fissi alla scena, la bocca dalle labbra purpuree un poco schiusa. Filippo la vide e fu colpito da quell'atteggiamento ingenuo, quasi infantile, come se un'altra anima, la vera anima della giovinezza indifesa, si fosse sovrapposta a quella ch'egli conosceva. Sentì il rimorso per ciò che aveva osato poche ore innanzi, nella cecità della passione e dell'egoismo.

Ma l'atto finiva e parecchi spettatori alzandosi e volgendosi guardavano la fanciulla con ammirazione.

- Imbecilli! - mormorò Filippo, guardando a sua volta Loredana, sorridente e bianca sul fondo scuro del palchetto. - È mia! E la certezza di quell'amore tacito e misterioso, pericoloso e crudele, poté meglio d'ogni altro pensiero. Filippo stette un istante a fissar la folla in platea, la quale, ammirando la piccola amante non osava sospettare ch'ella conoscesse già i baci, tutti i baci d'un uomo; e la stupidità della moltitudine; non gli sembrò mai più amena.

Due mesi erano passati da quel giorno indimenticabile, quando, sui primi di luglio, Loredana si decise, e abbandonò la casetta bianca sul campiello solitario per seguire

 

Fine quarta puntata del Romanzo.

Buona lettura.

 

 
 
 

L'AMORE DI LOREDANA - Romanzo dello scrittore: Luciano Zuccoli.

Post n°204 pubblicato il 10 Dicembre 2012 da ciapessoni.sandro
Foto di ciapessoni.sandro

L’AMORE DI LOREDANA – Romanzo dello scrittore: Luciano Zuccoli.

 

 

Immagine:

Venezia: Teatro La Fenice.

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PARTE PRIMA (seguito)

***

Terza puntata (seguito del post 203)

 

In tre anni, la bambina s'era fatta una giovane bella, della fresca e molle bellezza veneziana, e a Filippo piaceva. Ma anch'egli non l'amava; era la piccola amica... La piccola amica! Quante volte, sprofondato tra i cuscini della gondola silenziosa, o seduto in un salotto a fianco d'una dama, o in un palco della Fenice tra la luce dorata e lo scintillio dei diamanti, Filippo Vagli aveva pensato alla piccola amica, che dormiva tranquillamente nella casetta bianca sul campiello muto! E rideva dentro di sé, chiedendosi che cosa avrebbero detto quelle patrizie, le amiche officiali, se avessero conosciuto l'umile sua confidente, colei che sapeva farlo sorridere, sapeva parlare come a lui piaceva, sapeva ascoltare e discutere.

In quei tre anni egli aveva avuto più d'una amante; e la voce, per i meandri molteplici del pettegolezzo veneziano, esagerato ed innocuo, era giunta fino all'orecchio di Loredana, la quale non capiva se quei racconti le facevano piacere o se l'angustiavano; ma intanto si studiava d'osservare le donne che la voce popolare additava quali amanti di Filippo, per vedere s'erano belle, se vestivano bene, se non erano indegne di lui. Osò parlarne con Filippo, che ne rise.

- Stia attenta, - egli le disse, - e vedrà che ogni mese e fors'anco di quindici in quindici giorni il nome della mia amante cambia. Sono discorsi di sfaccendati, i quali mi rendono il favore di sviar la curiosità dietro mille tracce, e non si sono ancora avveduti che io passo tanto tempo vicino a lei.

- Non ha amanti, allora? - chiese Loredana.

Essi parlavano di sera, nel tinello; una sera a metà gennaio del 1893. Spesse volte si trovavano così quasi soli, perché la mamma, con la fiduciosa ospitalità veneziana accresciuta dalla stima ch'ella aveva per la figlia, non vigilava i loro discorsi e stava innanzi alla finestra della saletta a centellare la ventesima tazza di caffè. E quella domanda, la quale sarebbe parsa ardita e sconveniente per un'altra fanciulla, ai due amici sembrò così naturale, che si stupirono di non aver mai parlato d'un argomento che si prestava a tante confidenze.

- No, non ho amanti, - rispose Filippo.

Loredana si mise a ridere.

- Neanche la contessa Fausta di Montegalda? - domandò maliziosamente, e soggiunse: -

Fausta! Che bel nome!

- Toccato! - pensò Filippo. Quindi rispose: - No!

- Eppure, si ricorda quella sera che andai alla Fenice l'inverno scorso, con la mamma e gli zii? Lei era nel palco della Montegalda, che aveva un così bel diadema di brillanti sui capelli neri; e qualcuno mi disse che lei era innamorato della contessa. Io guardai attentamente e capii che avevano ragione.

- In ogni caso, - osservò Filippo, - tra innamorato e amante v'è un abisso.

- Oh sicuro! - esclamò Loredana con gravità comica. - Un abisso!... E lei, tanto timido, si spaventa degli abissi...

La fanciulla rise e Filippo la guardò. Non gli era mai parsa così bambina come in quell'ora, e tutta fresca, con la bocca sinuosa e ardente appena ombreggiata da una lievissima pelurie sul labbro superiore; e la luce che veniva dai grandi occhi scuri gli sembrò più vivida del consueto. Prima ancora di riflettere, si chinò e baciò quegli occhi e quella bocca, mentre Loredana abbassava la testa, attonita e sommessa.

- Ciò che egli fa, è ben fatto! - ella pensò. - Ciò che egli fa, si può fare!

Loredana pensava in tal maniera, pure senza amare Filippo, e Filippo la baciava senza amarla. Ma ambedue con ogni sforzo avrebbero difeso quella loro strana amicizia, perché sentivano l'un per l'altra una fiducia, che nessuno al mondo aveva mai loro ispirato. Fu in quello stesso mese di gennaio che Filippo trovò un giorno la casetta in festa. Era l'onomastico della mamma e v'erano due o tre famiglie, recatesi a portar dolci e auguri alla buona donna. Intorno a Loredana, tutta vestita di rosa e lievemente scollata, stavano altre fanciulle, e alcuni giovanotti scherzavano con la piccola amica di Filippo, la quale rideva e si scaldava presso il caminetto, avanzando i piedini con una mossa non priva di civetteria.

Filippo guatò lo spettacolo. Tra quei giovani, uno fermò specialmente la sua attenzione, un biondo con occhi cerulei; si chiamava Adolfo Gianella, era impiegato in una banca e possedeva qualche po' di terra in provincia di Vicenza. Parlava poco, vigilava gli amici, ascoltava, serrando le labbra, i madrigali ch'essi rivolgevano alla giovinetta; e sopra tutto, pareva annoiato e diffidente per la presenza di Filippo. Egli stava presso il caminetto, in piedi, di fronte a Loredana; e v'era nel suo atteggiamento muto un significato di padronanza e di protezione, che svelava, in lui il fidanzato o almeno l'innamorato serio. Dai suoi occhi si sprigionò più d'una volta qualche occhiata cupida al collo bianco e perfetto di Loredana. Il contegno di Adolfo Gianella divenne a poco a poco tanto chiaro, che i suoi compagni smisero di corteggiare quella e si volsero alle altre ragazze.

Filippo se ne andò, con un male in cuore, con una rabbia, con un'angoscia, che lo stupivano e lo facevano tremare. Entrò nel salotto della contessa di Montegalda e parve distratto tutto il tempo che vi rimase. Fausta gli passò vicino, gli fece un lieve cenno di seguirla e quando furono nella sala da ballo, deserta, gli chiese:

- Che cosa avete, Flopi?

- Mi fa male il cuore! - egli rispose.

- Male? – ripeté Fausta. - Un male fisico?

- Fisico. Un aneurisma, - disse Filippo sbadatamente.

- Mio Dio! - esclamò la contessa con voce soffocata. - Siete pazzo? Di aneurisma si può morire!

- Si può morire di tutto, amica, mia! - concluse Filippo.

La giovane voleva insistere, chiedere quali cure facesse, ma Filippo le lanciò un'occhiata stranamente beffarda, e rientrò nel salotto, dove si intavolava una partita di boston. Egli aveva bisogno di sapere, e tuttavia stette parecchi giorni senza recarsi a trovar le signore De Carolis. La comparsa di quel giovanotto biondo con gli occhi cerulei gli aveva fatto sentire che un giorno Loredana gli sarebbe stata tolta per sempre e ch'egli non avrebbe potuto nulla per impedire una cosa tanto semplice e tanto grave, poiché non aveva intenzione di sposare la fanciulla, d'affrontare una lotta con la propria famiglia, con la madre, con le sorelle e coi cognati...

Loredana avrebbe appartenuto ad Adolfo Gianella, impiegato di banca e piccolo possidente.

Fausta di Montegalda conobbe in quei giorni molte amarezze; Filippo era irascibile e pareva che il fasto e l'eleganza della giovane signora lo irritassero, quando per l'addietro gli erano stati tanto cari. In un convegno, egli sbadigliò più d'una volta, mentre Fausta gli esponeva, come nei primi tempi del loro amore, i progetti per la primavera, per l'estate, per l'autunno, tutto un programma di divertimenti, studiato in modo da non dover vivere troppo lontani l'uno dall'altra.

Quello stesso giorno, Filippo incontrò in Piazza, sotto le Procuratie Nuove, Loredana che camminava frettolosa, di ritorno dall'aver fatto alcune compere. Egli la salutò e tirò dritto, perché evitava di farsi vedere dagli amici con una fanciulla, ch'essi non conoscevano e che non apparteneva al loro «mondo»; il quale era un gruppo di men di duecento persone. Ma tornò presto indietro, e corse a casa delle De Carolis.

Loredana era molto impacciata; Filippo era freddo e pieno di rabbia. Anche il fatto, punto nuovo, d'averla trovata sola per strada, gli faceva dispiacere, sebbene non avesse mai ignorato che la signora De Carolis permetteva alla figlia, come del resto usavano tutte le sue amiche, di uscire sola a far compere o di andare sola a far visita alle conoscenti. Infine, per togliere quell'ombra che s'addensava tra di loro, la fanciulla raccontò a Filippo che l'avevano fidanzata, da un mese circa, ad Adolfo Gianella.

- Le piace? - domandò Filippo.

- No, per niente.

- Le pare che sarà felice con lui?

- Ne dubito molto.

- E allora?

Allora? La mamma aveva consigliato così; la famiglia Gianella era contenta; Adolfo era innamorato e minacciava d'uccidersi e di uccidere, se Loredana non fosse stata sua. Poi, che cosa poteva fare ella al mondo? Adolfo era un giovane onesto, in buona posizione, e le voleva bene davvero.... Ella s'era rassegnata e il fidanzamento era avvenuto.

- Senza dirmi nulla! - interruppe Filippo.

- Non osavo, - confessò la fanciulla, guardando l'amico a occhi socchiusi, tra le lunghe ciglia. - Del resto, che cosa poteva importare a lei? Lei non si occupa di queste piccole miserie. Filippo non rispose, ma disse a se medesimo, che infatti egli non poteva e non doveva occuparsi dell'avvenire di Loredana, poiché non voleva toglierla ad Adolfo e sposarsela lui.

- Tutto ciò che la riguarda m'interessa, - osservò. - La mia amicizia aveva qualche diritto.

La fanciulla chinò il capo e non rispose. Una sofferenza nuova sorgeva nel suo cuore per quell'interrogatorio. Aveva qualche diritto, Filippo? E allora anche lei aveva qualche diritto, e pur tuttavia Filippo le aveva sempre taciuto, anzi le aveva sempre negato quell'amore per la contessa di Montegalda, del quale si parlava ormai con sicurezza in città.

La madre sopravvenne, e mostrò a Loredana i campioni di alcune stoffe per gli abiti della fanciulla. Filippo volle sceglierne due egli stesso, ma la signora De Carolis osservò ch'erano troppo cari; bisognò contentarsi dei più semplici, che a Filippo sembrarono anche molto brutti. Egli comparò mentalmente la vita modesta, quasi povera della sua piccola amica col lusso onde si circondava Fausta; e fu intenerito, ricordando che Loredana non si lagnava mai, non badava a quei particolari meschini, non invidiava nessuno. Fausta sarebbe rimasta intontita se avesse potuto sapere che la povertà di Loredana era più gradita a Filippo che non l'eleganza di lei.

Una sera a pranzo dalla contessa Lombardi, Filippo s'irritò sordamente incontrando Fausta gemmata come un idolo, coperta di merletti preziosi, superba. C'era il marito, il conte Ettore di Montegalda, e Filippo non poté subito dire a Fausta qualche parola crudele; ma non gliene mancò l'occasione durante la serata; e ripensando ai campioni delle stoffe per gli abitini di Loredana, sentì il bisogno di criticare l'abbigliamento di Fausta, con tanta ingiustizia, che la contessa ne rimase stupefatta.

- Via, via, - ella disse, sforzandosi a ridere, - voi non potete giudicar di queste cose!

- Voi, piuttosto, non potete dare un giudizio di nulla e di nessuno! - rimbeccò Filippo. -

Credete di vivere, e siete tanto lontana dalla vita quanto la terra dal sole!

Fausta aveva l'abitudine di comandare, d'imperare sempre e dovunque. Era bella, alta, formosa, coi capelli nerissimi e gli occhi azzurri; gli uomini la desideravano, le amiche ne tolleravano il potere, il marito ne era orgoglioso senza mai aver pensato ad amarla.... Sentendosi, per la prima volta dacché viveva, così umiliata e torturata da Filippo Vagli, ella ne provava un dolore inesprimibile, e invece di ribellarsi, a poco a poco era tratta a soggiacere a quella forma di dominio non mai provata. Se un giorno ella aveva amato Filippo tepidamente, lasciandosi prendere per accidia e per noia, ora la rudezza insospettata dell'amante, la prepotenza che si tramutava qualche volta in sarcasmo, la soggiogavano; e temeva di perderlo, e si chiedeva ansiosa se quella irascibilità, quella voglia di tormentare non fossero i sintomi della stanchezza; e divenendo umile, moltiplicava le cure gentili per l'innamorato, cercava di farsi piccola e buona.

Ma ella era ormai condannata a scontare ciò che Filippo soffriva per Loredana; ogni episodio triste o increscioso dell'amicizia tra la fanciulla e il conte Vagli si ripercuoteva nell'amore tra il conte Vagli e Fausta; la quale non capiva, non sapeva darsi ragione, non sospettava menomamente la causa di quella mutazione improvvisa, e cominciava a credere che Filippo fosse malato davvero, seriamente, più di quanto egli aveva detto.

- Quel suo fidanzato è molto antipatico! - disse un giorno Filippo a Loredana. – Perché mi guarda sempre di sottecchi, e scappa appena giungo io? Non potrebbe trattare da persona educata? Adolfo Gianella voleva togliere di mezzo Filippo: la presenza di quest'ultimo, le sue cortesie e la sua assiduità presso una fanciulla dalla quale non doveva sperar niente, gli sembravano strane e sospette.

- È il mio amico! - aveva risposto Loredana alle insistenze del fidanzato. - È il solo amico che io abbia: mi vuol bene come un fratello. Perché devo fargli uno sgarbo e mandarlo via, dopo tre anni d'amicizia onesta?

Adolfo non capiva. Un conte, un libertino, un pessimo soggetto, preso da sentimento purissimo per una giovinetta di diciotto anni, bella e povera? Non aveva mai udito raccontar nulla di simile. Ed essa, fredda e testarda, continuava a ripetere ch'era l'amico, e che non lo avrebbe mandato via, e che Adolfo non doveva pensar male.

 

Fine Prima parte della terza puntata.

 

 
 
 

L'AMORE DI LOREDANA - Romanzo dello scrittore : Luciano Zuccoli.

Post n°203 pubblicato il 05 Dicembre 2012 da ciapessoni.sandro
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L’AMORE DI LOREDANA – Romanzo dello scrittore: Luciano Zuccoli.

 

Manerba del Garda.

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***

PRIMA PARTE

… seguito: Seconda puntata.

III

- Data fatale! - ella pensò e disse ad alta voce, senza rammarico.

Poi rapidamente si slacciò il corpetto, passò la catena attorno al collo, e sorrise. Nessuno, all'infuori di Filippo, doveva veder quella catena, e nessuno, all'infuori di Loredana e Filippo, sapere e ricordar quella data.

- Gli abiti li vedremo poi; ora scendiamo a cenare, - disse Filippo.

- E tuo zio? - mormorò la giovane titubando. - Se cena anche lui, mi vedrà senza velo.

- E rimarrà ammirato, - concluse Filippo.

Cenarono sul terrazzo illuminato da tre lampioni a gas; il lago era scuro, ma a Loredana pareva meno tetro e misterioso. Sulla strada innanzi all'albergo non poca gente passava e guardava la coppia, forse invidiando. Un piccolo gatto bianco e nero, poi un cane pòmero vennero a corteggiare i forestieri e ad accattar qualche boccone. Le zanzare attratte dalla luce danzavano intorno al capo dei due amanti.

Durante la cena, Filippo spiegò il programma per l'indomani: dovevano cercare un piccolo albergo nascosto o una villetta discreta a Salò o a Maderno o a Gargnano; e veder anche la sponda veronese, dove assai minore era la probabilità, d'incontrar gente, poiché i piroscafi non vi approdavano.

- La sponda veronese di là dalla penisola di Sirmione: Salò da questa parte, oltre il capo Manerba....

E Filippo faceva dei gesti in direzione del lago, mentre l'amica sua sorrideva perché non riusciva a distinguer nulla... Ma un gesto restò a mezzo: era comparso sul terrazzo lo zio Roberto, seguito dal direttore dell'albergo.

- Se il signor conte permette, - diceva quest'ultimo, - gli servirò io stesso una cena di suo gusto...

- Sì, roba leggera, ve ne prego! - rispose il conte, sedendo a una delle tavole di marmo, poco lontano da Filippo. E vedendo il nipote, come non si fossero lasciati un momento prima, gli fe' cenno con la mano, salutando:

- Oh, ciao, Flopi!

- Buon appetito, zio!...

Il conte attese che Filippo riprendesse il discorso a bassa voce con la fanciulla per darle un'occhiata; e la vide bellissima, con quel viso bianco e fresco e con quei capelli scuri, che due pettini scintillanti di strass trattenevano a pena. Ma gli parve pure che ella fosse estremamente giovane, non solo per Filippo che aveva da sei anni valicato la trentina, ma per chiunque se la fosse portata via senza passare dal sindaco e dal parroco...

- Che cosa le ha dato da intendere? - pensò il conte Roberto. - Non mi pare un'oca, e sta ad ascoltarlo come l'oracolo.... Che cosa, le ha dato da intendere, dico io?

Egli si volse udendo uno stropiccio di passi: ma mentre s'aspettava di vedersi posta innanzi la prima vivanda, scorse invece il cameriere che gli tendeva un telegramma sopra un piatto...

- Un telegramma per me? - disse stupito.

Filippo troncò il discorso con Loredana e guardò lo zio, che apriva il telegramma. Il conte Roberto lo lesse un paio di volte e se lo mise in tasca senza dir verbo e senza più volger l'occhio al nipote. Ma cenò di malavoglia, scoperse che il Bardolino non aveva un bel colore e acchiappò con le mani un paio di zanzare che gli ronzavano troppo da vicino.

Loredana s'era ormai alzata da tavola e rientrava; passando presso il conte Roberto abbassò il capo. Filippo la seguiva.

- Ascolta, - disse il conte Roberto, - verrai quest'anno a San Martino a veder la Torre? La inauguriamo a ottobre...

Ma non appena s'accorse che la fanciulla era scomparsa, mutò voce:

- La mamma chiede tue notizie, - disse. - Come la facciamo?

- La mamma? – ripeté Filippo sbalordito. - Che mamma?

- Tua madre, mia cognata, la contessa Vagli, quella che ti ha dato alla luce, bontà sua! - esclamò lo zio Roberto irritandosi.

- E come può sapere che noi siamo qui?

- Chi, noi? Quanto a me, lo sapeva, perché gliel' ho scritto. Quanto a te, avrai fatto le cose con la testa nel sacco. Toh, guarda!

E il conte Roberto levò da una tasca e mise sotto gli occhi di Filippo il telegramma:

«Flopi partito oggi constami trovarsi sul lago. Se incontri avvertilo domani denunzieranlo Procura Re. - Bianca».

Filippo gettò il foglio giallino sulla tavola e non disse nulla.

- Mi pare, insomma, - concluse lo zio, - che non tiri vento propizio per te da queste parti.... Io tornerei indietro...

- Indietro? - esclamò Filippo. - E dove? A Venezia?

- Se preferisci che ti denunzino al Procuratore del Re, è un altro conto.

- Ma perché mi denunzierebbero?

Il conte Roberto alzò le spalle.

- E me lo domandi, tu che sei avvocato? La tua compagna di viaggio è una bambina; ti denunzieranno per corruzione, per seduzione, che so io? per ratto...

E ricordando la famosa grida citata dal Manzoni, aggiunse con voce tranquillamente allegra:

- «Per rapto de dona honesta».

- Non faranno niente, - disse Filippo. - In ogni modo, ci penserò....

- Bravo, pensaci! Il Procuratore del Re penserà anche lui a modo suo: e quella disgraziata tua madre si divertirà un mondo, fra due pensatori di questo genere...

Il conte Roberto si guardò intorno, poi seguitò con voce più cauta:

- E chi è quella ragazza?

- Lo hai detto: una bambina, che amo pazzamente, che mi ama, e che voglio tener con me.

- Ma non ha più di sedici anni... - Diciotto....

- Son sempre pochi. E ha il padre, i fratelli, una famiglia?

- Non ha che la madre.

- La vuol tenere con sé - mormorò il conte Roberto, come ripensando alla frase del nipote. - O che cosa significa questo?

- Vedremo più tardi, - disse brevemente Filippo.

- È di modesta nascita? - riprese lo zio.

- Di modestissima nascita. Con una madre che l'adora, e che è troppo debole, troppo ingenua, troppo facile a credere, la poveretta si sarebbe perduta...

Il conte Roberto interruppe passandosi la mano tra i capelli bianchi, con un gesto di comico stupore.

- E tu la salvi, - disse poi, - menandola a passeggio sul lago di Garda?

- Chi sa? - rispose ancora brevemente Filippo.

Il direttore dell'albergo ricomparve e i due uomini tacquero.

- Buona, la vostra cena, - gli disse il conte Roberto. - Ma il Bardolino non aveva un bel colore. E poi dovete cambiar posto alle scuderie: il puzzo di lettiera e di fieno vi ammorba tutto l'albergo.

- Il signor conte ha ragione, - assentì il direttore. - Vedremo più tardi!

- Vedrà più tardi, anche lui! - borbottò Roberto fra i denti.

Si alzò da tavola e s'appoggiò al braccio di Filippo ch'era rimasto pensieroso innanzi al vecchio. Il conte Roberto era più alto e più tarchiato del nipote; Filippo aveva statura media, capelli neri e lisci; gli occhi chiari dallo sguardo rapido e vivo dicevano un'anima irrequieta e audace; ma il colorito del volto che intorno agli occhi pareva quasi grigio e certe rughe sottili ricordavano una vita di tempeste e di disordini. L'uomo di sessant'anni, col volto acceso e i capelli bianchissimi, dava più grata impressione di freschezza, o avesse goduto e sofferto meno, o avesse sortito una tempra meno sensibile.

Roberto e Filippo salirono le scale fino al primo piano; innanzi all'uscio della sua camera, lo zio disse a bassa voce:

- Arrivederci. Io parto domattina presto. Pensa quello che fai; comunque vada a finire, mi sembra una corbelleria, perchè io credo che l'uomo non è monogamo.

- Grazie. E... scusami, che cosa scriverai alla mamma?

Il conte Roberto alzò bruscamente le spalle e sparì nella sua camera senza rispondere.

IV.

- Perdonami, cara, - disse Filippo entrando e avvicinandosi a Loredana, che scriveva, seduta innanzi a un tavolino. - Mi ha data una lezione di storia: la torre, la battaglia, i quadri con gli episodi più importanti... Un quadro rappresenta anche lui, che a quei tempi era tenente di cavalleria e si è battuto a San Martino... E tu, che hai fatto?

Loredana scriveva a sua madre una lettera felice e disperata, piena d'umiltà e di carezze.

Filippo vide che gli occhi dell'amica erano umidi.

- Amore mio, - disse, chinandosi a guardare, - se tu adoperi la carta dell'albergo con la veduta del lago, di Desenzano, dei piroscafi, e il nome del proprietario e l'indirizzo, tanto vale chiamar qui la mamma e il Procuratore del Re.

Si morse le labbra, ma ormai troppo tardi: Loredana lo fissava corrucciata e pallida.

- La mamma e il Procuratore del Re? - disse. - Che cosa significa?

- Nulla, proprio nulla, ti assicuro, - rispose Filippo, accarezzandole lievemente i capelli.

- Che cosa volevi dire? - incalzò la fanciulla. - Come ti son venute queste idee?

- Volevo dire che non dobbiamo trascurare ogni precauzione e che le imprudenze potrebbero recarci qualche noia.

Loredana prese il foglio di carta già coperto di scrittura diritta e uguale, lo fece in pezzi minuti e li gettò a terra.

Filippo conosceva da tempo l'anima sdegnosa e taciturna della fanciulla. Non pareva fosse nata da piccola gente operosa (il padre era stato mercante di stoffe a Rialto); ma la sensibilità intellettuale, l'intelligenza acuta, la rapida intuizione e sopra tutto un orgoglio e un coraggio più pronti all'azione che alla parola, facevan pensare a un'origine aristocratica, a un atavismo imperioso, a un ambiente squisito. E tuttavia, ella ora così carezzevolmente e voluttuosamente femmina, così sommessa a chi sapeva guidarla, che Filippo non ricordava d'aver conosciuto una donna più varia d'atteggiamenti e più degna d'amore.

Da tre anni ella si recava a villeggiare con la madre a San Donà, in una villetta confinante coi poderi dei conti Vagli; e così Filippo le era diventato amico, senza, sognare che un giorno egli, a tanta distanza d'età, avrebbe avuto bisogno di quella giovanetta, allora tuttavia, con le sottane corte e coi capelli sciolti, che le scendevano per le spalle.

Egli le aveva raccontato molti fatti della sua vita, che gli amici più intimi di lui ignoravano; e senza amarlo, ella ne sentiva la protezione e la forza, Quand'egli partiva o da San Donà o da Venezia per qualche viaggio, una tetra malinconia le piombava sul cuore. Ella trovava in lui i modi, le forme, la perizia di vita, che scarseggiavano o mancavano interamente fra le persone le quali frequentavano la casa della mamma, piccole borghesi che con l'instancabile chiacchierio la inviperivano e l'allontanavano.

 

Fine prima parte della seconda puntata.


 

 
 
 

L'AMORE DI LOREDANA - dello scrittore: Luciano Zuccoli

Post n°202 pubblicato il 30 Novembre 2012 da ciapessoni.sandro
Foto di ciapessoni.sandro

L’AMORE DI LOREDANA – dello scrittore: Luciano Zuccoli

 

 

Immagine: Desenzano

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PRIMA PARTE.

I.

- Prendi quelle valigie e portale in questo scompartimento. Su, presto, che il treno riparte!

La voce nota diede un sussulto a Loredana, che stava sola, ancora col velo grigio abbassato sugli occhi, come quando era partita da Venezia.

- In questo? - domandò il facchino.

- Ma sì, su questo!...

Filippo salì, sorrise a Loredana, si volse a prender dalle mani del facchino le valigie, le collocò sulla rete, e sedette infine di fronte alla giovane, con un sospiro di sollievo. Poco dopo, lo sportello era chiuso e il treno riprendeva la marcia.

Filippo non aspettò altro, e si chinò a baciar le mani dell'amica, poi il volto e le labbra, senz'attendere ch'ella raccogliesse il velo sulla fronte.

- Hai fatto bene, - egli disse, enunziando mille pensieri in una volta. - Siamo soli. Fra un'ora saremo giunti. Sai chi ho trovato alla stazione di Venezia? Mi hai visto parlare con un signore alto e calvo? È il conte Lombardi: mi ha invitato a pranzo per lunedì, e ho accettato. Dove saremo lunedì?... Ma tu, cara, sei spaventata?... Quanta gratitudine ti debbo, cara!... Vedrai: non aver paura, non accadrà nulla, non ti toccheranno, non ti faranno nulla…

La campagna triste fra Verona e Peschiera era sinistramente illuminata dalla luce sanguigna del tramonto che alcune nuvole grigie interrompevano.

Loredana non diceva parola, tenendo le mani tra le mani di Filippo, sempre col viso celato da quel velo bigio, che pareva la togliesse dal mondo, l'allontanasse da tutti, la dovesse nascondere come una delinquente.

- Ascoltami, cara, - seguitò Filippo. - Hai scritto alla mamma?

- Sì…

- Che cosa le hai scritto?

La fanciulla non rispose subito. Le veniva innanzi agli occhi della mente la visione della sua casetta bianca nel campiello solitario; e la mamma che ogni mattina entrava a chiederle che cosa desiderasse per colazione; poi la mamma usciva, andava per la spesa, e, tornata, preparava la colazione per la figliuola, che con una vestaglia bianca e lunga, raccoglieva intanto i capelli intorno alla testa e si guardava nello specchio e si dava un po' di cipria e si sorrideva. La vestaglia bianca e lunga era stata abbandonata, anche quella, come tutto il resto…

- Le ho scritto, - rispose Loredana scuotendosi. - Le ho scritto che non si dia pensiero; che avrà mie notizie… Voglio scriverle anche stasera, subito… Si può?

Filippo scosse la testa.

- Domani ci raggiungerebbe! Puoi scrivere, e io manderò la lettera a un mio amico a Roma, perché la faccia partire di là.

- Così la mamma la riceverà tardi, - osservò Loredana, - e per tanto tempo non saprà nulla.

- Due giorni: fra due giorni sarà a destinazione…

La fanciulla rimase muta e guardò il tramonto tragico. A quell'ora, la mamma e la figlia terminavano di cenare, e si mettevano alla finestra prospiciente il campiello, dove i bambini del vicinato si raccoglievano a far chiasso. Sul davanzale la mamma disponeva il vassoio col bricco, e andava centellinando l'ultima tazza di caffè…

Loredana guardò acutamente Filippo. Che sapeva egli di tutte quelle cose, delle piccole cose amate, tanto piccole nei giorni di pace e tanto tristi a rammentar come perdute?

Ella ritrasse le mani dalle mani di lui e sentì che il cuore le doleva, che la vita era cupa e misteriosa, che quel cielo pareva farle entrar nell'anima tutta la disperata violenza del suo colore di sangue… Con quali parole avrebbe ella potuto esprimere quel tormento a colui che le era così vicino e così lontano?...

A Peschiera, nello scompartimento salì un uomo: andava a Brescia e non aveva trovato posto in seconda classe. Vedendo Filippo e la signora col velo, si ritrasse in un angolo, dopo aver posto sulla rete una valigia grossolana, biancastra con gli angoli di pelle rossa; e chiuse gli occhi, senza addormentarsi, quasi per far comprendere che non voleva disturbare, che sentiva di essere importuno, ma sapeva esser discreto.

- Sei stato mai sul lago di Garda? - chiese Loredana, dopo aver guardato con diffidenza il nuovo viaggiatore.

- Sì, due volte. In questo mese, con questo caldo, siamo sicuri di non trovar nessuno che possa importunarci.

- Come farò?... - disse nuovamente la fanciulla, ma poi s'interruppe impacciata.

- Come farai, che cosa? - domandò Filippo, riprendendole una mano e accarezzandola.

Era venuto in mente alla ragazza, fra tanti pensieri gravi e terribili, era venuto anche in mente che non aveva abiti, non biancheria, nulla di nulla. Fuggita dalla casa col pretesto di salutare un'amica, non possedeva che gli indumenti dei quali era vestita, e aveva tre lire nel borsellino.

- Non vuoi dirmi? - incalzò Filippo con la dolcezza di chi prega.

La fanciulla trovò modo di cambiar la frase:

- Ci son negozi a Desenzano?

Filippo capì e si mise a ridere.

- Oh non importa, - -disse.

Loredana non osò più insistere e chiedere spiegazioni: non importava, la sua roba, non contavano nulla i suoi abitini modesti, a parecchi dei quali aveva dato mano la mamma; non contavano nulla i suoi oggetti d'abbigliamento, i braccialetti, gli anelli, i pettini per la testa… Tutto perduto e scomparso per sempre, come la vestaglia bianca! Ella sospirò e si guardò l'abito nero, che aveva indossato di furia, perché capitato prima sotto gli occhi in quell'ora di decisione suprema. Il treno rallentò la corsa e si fermò.

- San Martino! - gridò un impiegato, - San Martino della Battaglia!...

Filippo stava per additare alla sua amica la torre storica, allorché lo sportello fu aperto e un signore attempato salì nello scompartimento.

Era un uomo sui sessant'anni, robusto, acceso in volto, con basette brizzolate e ancor folti capelli bianchi; gli occhi grigi fissarono un istante Filippo, e più attentamente la sua compagna, il volto della quale era sempre celato dal velo.

- Buona sera, - disse Filippo sorridendo. - Vai a Fasano?...

- Oh, - esclamò il signore, mentre stendeva la mano a Filippo. - Non ti avevo riconosciuto!...

Sì, vado in villa, per qualche giorno....

Guardò di nuovo Loredana, facendole un inchino, al quale essa rispose con un cenno del capo.

- E tu?... Non ti ho mai veduto da queste parti...!

- Un capriccio, - borbottò Filippo impacciato. - Farò una corsa fino a Riva…

- Bravo, bravo, bravo! - concluse il signore con tutta l'aria di chi non crede una parola.

E mentre il treno si rimetteva in moto, aperse la valigia e ne trasse un libro, lanciando un'occhiata sospettosa all'uomo che stava nell'angolo dello scompartimento e teneva ancora gli occhi chiusi…

Filippo guardò Loredana ed ambedue pensarono che quell'incontro era noioso, ma senza pericolo. La fanciulla conosceva di vista il signore e ne aveva udito parlare molto a Venezia. Zio di Filippo, il conte Roberto Vagli, annoiato, stanco, indifferente, si occupava poco degli affari altrui, e punto di ciò che faceva il nipote. Egli trovava tutto possibile, tutto giusto, tutto bene, purché non gli si desse noia e non lo si disturbasse nelle sue abitudini....

Col libro in mano, un romanzo inglese, si volse ancora a Filippo:

- Ti fermi all'Albergo Reale? - domandò.

- Sì, e riparto domattina.

- Io pure: ma tu partirai col battello delle dieci e venti?

- Sì.

- E io più presto, col legno.

Rassicurata così la coppia, poiché per non disturbare e non essere disturbato avrebbe dormito a un altro albergo se fosse stato possibile, il conte Roberto aperse finalmente il libro e si mise a leggere.

Loredana, allora, osò guardarlo un istante con un lieve sorriso. Dalle poche parole scambiate con Filippo, riconosceva bene l'uomo che Filippo le aveva così spesso descritto, e sentì una strana gratitudine pel signore che non si occupava di lei. Forse egli stesso, molti anni addietro, aveva viaggiato in qualche parte del mondo con una fanciulla; certo, i suoi amori non erano stati sempre regolari; aveva fatto male e aveva fatto bene, aveva visto molte cose esotiche, molti paesi lontani, aveva conosciuto molta gente, ormai dispersa. E non giudicava.

II.

A Desenzano, di piena sera, sul piazzale della stazione, si dovette aspettare che i bagagli di Filippo fossero caricati. Il conte Roberto era già salito nell'omnibus dell'albergo; Loredana vi si era pure rincantucciata, all'angolo opposto; solo Filippo restava fuori, impaziente, presso la fanciulla.

- Dimmi, - chiese il conte Roberto. - Hai molti bagagli?...

- Cinque bauli, due valigie e tre cappelliere.

- Santo Dio, potevi dirmelo.... Avrei preso una carrozza, per non rimanere in questo sporco omnibus ad aspettare tanto! Filippo si mise a ridere.

- Ora vengono, zio!... Eccoli qua.

- Cinque bauli! – ripeté lo zio. - Tu viaggi con gli utensili di cucina?...

Ma ricordandosi che il nipote non viaggiava solo, si morse lo labbra e si pentì dell'osservazione, che poteva sembrare scortese…

- Sono pesanti! - esclamò poi, udendo sul capo il rimbombo dei bauli calati sull'imperiale. -

Chi sa quante deliziose galanterie!...

E sembrandogli così d'aver rimediato allo sgarbo, non disse più parola.

Quando l'omnibus, traballando sul selciato, si mosse, Loredana si sforzò di veder qualche cosa, guardando fuori del finestrino, ma la città le sembrò orribile, soffocata, male illuminata, coi ciottoli che davano al veicolo sobbalzi continui.

Un senso improvviso di paura le pervase l'animo. Pareva, che tutto fosse finito, che la mamma fosse morta, il sole sprofondato tra la nuvolaglia; la fanciulla si strinse tacitamente a Filippo, il quale doveva essere per lei ogni cosa al mondo, e Filippo le prese una mano e la tenne finché l'omnibus non entrò sotto l'atrio dell'albergo.

Scesero primi gli amanti; poi il conte Roberto.

- Buona notte, Flopi, - disse il vecchio al nipote: e volgendosi al direttore dell'albergo, che era accorso salutando, aggiunse: - Questo vostro omnibus balla come un orso…

- Colpa dei ciottoli, signor conte, - rispose il direttore sorridendo. - L'omnibus è solido.

- Buona notte, zio! - disse Filippo stringendo la mano al vecchio.

Il conte salutò, inchinandosi, la sconosciuta e scomparve e su per la scala.

Filippo volle due camere comunicanti; ordinò di portar tre bauli in quella della signora, e due nella sua, e li indicò al facchino.

La camera di Loredana era tappezzata di giallo, coi mobili di damasco giallo; la zanzariera azzurrastra, scendendo da un baldacchino centrale, celava tutto il letto. La camera di Filippo era addobbata di stoffa rossa e disposta identicamente all'altra.

Loredana corse al balcone a guardare il lago, che nella penombra sembrava infinito; solo, nettamente, si distingueva il fanale rosso del faro sulla diga. Ella stava assorta in quella contemplazione, pensando che il paese sconosciuto era ineffabilmente triste, allorché udì il passo di Filippo. Egli aveva aperto i bauli e sorrideva.

- Mi hai chiesto se ci sono negozi a Desenzano, - disse, quando l'amica gli fu vicina. – Vedi che ho già pensato a tutto? Questo è il baule della biancheria; gli altri due contengono gli abiti…

La fanciulla si chinò per guardare, ma Filippo le afferrò la testa fra le mani e le ricoperse il volto di baci.

- Come sei bella! - esclamò. - Non ti vedevo da tanto, con quel velo misterioso sulla faccia…

Loredana gli rese i baci con un piacere quasi violento, sentendosi rassicurata da colui che ella s'era abituata a credere più forte, più audace, più potente, più libero, più sicuro di tutti.... E, l'anima divenuta a un tratto leggera e aperta, un sorriso sulle labbra, la giovane s'inginocchiò a terra e sollevando con l'agile mano quel cumulo di biancheria e di trine, guardò rapidamente come fosse composto il suo tesoro.

Filippo in piedi osservava la persona snella e pieghevole, la cara testa dai capelli bruni con bei riflessi dorati e il collo bianchissimo e le piccole mani.

- Sì, a tutto; hai proprio pensato a tutto! - disse Loredana, alzando gli occhi a guardare l'amico. - E che cosa è questo?

Ella teneva fra le mani uno scrignetto trovato sul fondo del baule.

- Apri: deve essere aperto, - disse Filippo.

Loredana mise lo scrigno sul bordo del camino, e aperse. V'erano diversi astucci e ciascuno conteneva un gioiello: orecchini formati da due piccole perle, due braccialetti d'oro a catenella con qualche turchese, e una collana d'oro a maglie piccoline che sosteneva una medaglietta col motto:

«Sempre» da una parte, e dall'altra la data di tre mesi prima: «8 maggio 1893». Poi un anello con una perla nera ed uno con una grossa turchese…

Filippo aveva voluto che tutto fosse elegante e semplice, i gioielli, gli abiti e la biancheria, perché l'amica sentisse d'essere ancora fanciulla, legata ancora alla sua vita di ieri. Ella parve comprendere quella cura gentile e sorrise dolcemente.

- Una mamma non avrebbe fatto meglio, - mormorò.

E andava volgendo e rivolgendo sul palmo la collana e la medaglietta con quella data fatale.

 

Fine prima puntata.

 

 

 
 
 

da: "IL CARTEGGIO DI GOETHE CON UNA BIMBA" della Scrittrice Bettina Brentano

Post n°201 pubblicato il 19 Novembre 2012 da ciapessoni.sandro
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da: “IL CARTEGGIO DI GOETHE CON UNA BIMBA” di Bettina Brentano von Arnim

Immagine:

Bettina von Brentano (banconota 5 DM vecchio corso

Dopo una visita a Beethoven. “Presso di lui mi sono dimenticata del mondo e di te… egli cammina innanzi a tutta l’umana civiltà, e chi sa se mai lo potremo raggiungere!”

***

Bettina fece incontrare per la prima volta Beethoven e Goethe, ma l’incontro non ebbe l’esito che forse Bettina sperava, e fra i due grandi uomini (L. v. Beethoven e W. Goethe) non nacque nessuna vera amicizia.

Sandro Ciapessoni.

***

Vienna, 28 maggio 1810.

Quando vidi colui, di cui voglio ora parlare, mi dimenticai di tutto il mondo; e anche adesso, quando il ricordo mi prende, il mondo scompare; sì, scompare.

L’orizzonte mio comincia ai miei piedi, s’incurva sul mio capo ed io sto in mezzo ad un mare di luce, che si sprigiona da te; in una calma profonda mi libro con placido volo verso di te, oltre i monti e le valli…

Oh lascia ogni cosa, chiudi i tuoi chiari occhi, vivi un istante in me, dimentica quanto si interpone fra me e te, le lunghe miglia ed anche il lungo tempo… Guardami dal punto in cui ti vidi per l’ultima volta…

Oh stessi ancora davanti a te!… Oh potessi esprimermi chiaro!…

Che profondo brivido mi scuote, quando, contemplato per qualche tempo il mondo con lui, guardo indietro verso la mia solitudine e sento come tutto mi è estraneo!

Eppure come è che ancora rinverdisco e rifiorisco in questo deserto?…

Di dove mi viene la rugiada, l’alimento, il calore, la benedizione, il bene?…

Da questo nostro reciproco amore in cui sento me stessa così graziosa… Se io ti fossi vicino, vorrei restituirti molto, in compenso di tutto…

E’ Beethoven colui, di cui voglio ora parlarti e presso cui mi sono dimenticata del mondo e di te. Io sono assai bimba ancora, ma certo non sbaglio se dico (ciò che forse nessuno ora intende e crede) ch’egli cammina ben innanzi a tutta l’umana civiltà, e chi sa se mai lo potremo raggiungere!… Io ne dubito. Possa sol vivere fino a quando il possente e sublime enigma che è nel suo spirito abbia raggiunto, maturando, la sua più alta perfezione: sì, possa toccare la sua ultima meta.

Allora ci lascerà nelle mani la chiave di una scienza celeste, che ci solleverà verso la vera beatitudine.

A te posso ben confessarlo: io credo ad un fascino divino, che costituisce l’elemento della natura spirituale.

Questo il fascino che esercita Beethoven nell’arte sua. Tutto quello che si dice per illuminarti, è pura magia; in lui ogni atteggiamento tende a costituire un’esistenza superiore, e in tal modo Beethoven sente d’essere il fondatore di una nuova base sensibile alla vita spirituale. Tu riuscirai certo ad intuire che cosa voglio dire e quale sia la verità.

Chi potrebbe sostituire per noi tale spirito? Da chi potremmo aspettarci un equivalente?…

Egli stesso ha detto: “Quando apro gli occhi, sono costretto a sospirare, perché ciò che vedo contrasta con la mia religione, e sono forzato a sprezzare il mondo che non avverte che come la musica sia una rivelazione superiore ad ogni sapienza e filosofia.

Essa è il vino che dà l’estro a nuove creazioni, io sono il Bacco che spreme per gli uomini questo mirabile vino e li inebria nello spirito.

Che se in seguito tornano in sé, vuol dire che essi hanno fatto di tutto per afferrare quanto li aiuti al regime secco…

Io non ho amici, debbo vivere solo con me; ma so con certezza che Dio nella mia arte è più vicino a me che non agli altri uomini; io lo pratico senza paura, ché l’ ho sempre riconosciuto e compreso. Né mi preoccupo della mia musica, ché non può avere una brutta sorte. Chi la comprende, deve necessariamente liberarsi da tutte le miserie, che gli altri trascinano con sé…”.

Tutto ciò Beethoven me lo disse la prima volta che lo vidi; ed io fui pervasa da un senso di rispetto nel vedere con quanta benevola franchezza si esprimesse con me, quantunque io dovessi essere ben insignificante ai suoi occhi…

“Parli a Goethe di me, gli dica che vada a sentire le mie sinfonie; allora converrà con me che la musica è l’unica porta immateriata, onde si accede in un mondo superiore della conoscenza, il quale abbraccia l’uomo ma non può essere abbracciato. Occorre il ritmo dello spirito per comprendere la musica nella sua essenza; essa dà l’intuizione e l’ispirazione delle scienze celesti, e quello che lo spirito vi percepisce materialmente, è incarnazione di conoscenza spirituale…

L’arte, così, rappresenta sempre la divinità, e il rapporto umano con l’ arte è religione. Ciò che raggiungiamo con l’arte proviene da Dio, è ispirazione divina, che prefigge alle facoltà umane la meta che egli aggiunge…”

Io gli promisi di trascriverti tutto, per quanto posso comprendere io. Egli mi condusse alla prova di un gran concerto a piena orchestra.. Mi ero seduta tutta sola in un palco dell’ampia sala, quasi al buio. Attraverso fessure e fori filtravano strisce di luce, ove danzava su e giù una fiumana di scintille multicolori, che dava l’impressione di vie eteree popolate da spiriti beati. Lì, scorsi questo immenso spirito dirigere la sua orchestra. Oh Goethe, nessun imperatore o re ha tanta coscienza del suo potere, e che ogni forza si sprigiona da lui, quanto questo Beethoven, che pur dianzi, in giardino, ricercava la causa, onde a lui veniva ogni cosa. Se io lo capissi come lo sento, saprei tutto.

Egli stava lì così fermo nella sua decisione; i suoi movimenti ed il suo volto esprimevano la perfezione della sua creazione; preveniva ogni sbaglio ed ogni equivoco; non un soffio era arbitrario; tutto era trasferito nella più cosciente attività dalla gigantesca presenza del suo spirito… Piacerebbe preconizzare che un simile spirito ricomparirà in una più matura perfezione come un dominatore del mondo.

Ieri sera ho trascritto tutte queste cose; stamani le lessi a Beethoven, ed egli disse: “Io ho detto questo?… e allora è segno che ero in estasi!”. Egli rilesse ancora una volta attentamente, cancellò qua e là, scrisse tra le righe, perché quel che conta per lui è che tu capisca.

Procurami la gioia di una pronta risposta, che provi a Beethoven che tu lo stimi. Abbiamo sempre avuto il proposito di parlare di musica; sì, questa era anche la mia volontà; ma adesso soltanto sento, in virtù di Beethoven che io non sono da tanto.

Bettina.

 

 

 

 
 
 

SCIOGLI LA TRECCIA MARIA MADDALENA dello scrittore: Guido da Verona

Post n°200 pubblicato il 01 Novembre 2012 da ciapessoni.sandro
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SCIOGLI LA TRECCIA MARIA MADDALENA – dello scrittore: Guido da Verona.

 

Immagine: Maria Maddalena…

[…] E il pentimento eri tu, Maria Maddalena. Tu eri la fredda rinunzia, il raggio di sole che diventa ombra; il cimbalo ed il sonaglio della danza nell'orchestra del canto liturgico; eri la ghirlanda sfogliata, il mazzo reciso, la semenza fuor dal granaio, il rosaio spezzato dal vento.

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***

Fine del romanzo (seguito del post 199)

Ed una di quelle donne diceva: «Comprate alla Vergine un cero», ed una soggiungeva: «Portate alla Vergine un fiore»; altre vendevano statuette per le quali si era salvi da tutte le epidemie, altre vi davano, con mezzo franco d'acqua miracolosa, la certezza di ottenere una grazia ineffabile, per voi stessi o per i vostri congiunti... E il mare della moltitudine vi spingeva innanzi, vi sbatteva come un rottame, senza che fosse possibile resistere ad essa; vi premeva in sé dandovi l'impressione, il terrore, d'essere divenuto uno dei suoi, irrimediabilmente, una preda lieve della infinita sua miseria, una povera cosa inerte nel potere immenso della cristianità. Questa folla camminava recitando preghiere, vi opprimeva col lezzo dei suoi corpi devoti e sudici, vi comunicava un poco della sua anima disperatamente accesa di miracolo, e fra quel mare di umana gente che tutta credeva in una sola follia, voi stesso comprendevate che non era niente affatto assurdo inginocchiarsi davanti ad un simulacro di legno, credere che i morti possano risorgere, le piaghe insanabili sparire, i ciechi riaprire gli occhi al sole perduto.

Ora entravo nel buio dolore di Cristo. C'era nel mondo un altro mondo, che tu pure imparasti a conoscere, Maria Maddalena. Da tutte le case usciva un grido; nell'anima di tutti gli esclusi era il bisbiglio della insoffocabile preghiera.

E il pentimento eri tu, Maria Maddalena. Tu eri la fredda rinunzia, il raggio di sole che diventa ombra; il cimbalo ed il sonaglio della danza nell'orchestra del canto liturgico; eri la ghirlanda sfogliata, il mazzo reciso, la semenza fuor dal granaio, il rosaio spezzato dal vento.

E l'ultimo rifugio eri tu, Maria Maddalena. In questa vita rossa e calda come il succo delle rosse melagrane, tu eri la via dell'altra sponda, il passaggio all'altra fedeltà; eri l'addormentata che apre gli occhi e vede il sole nascere nel lontano infinito. Brillasti nei conviti ed umiliasti nella polvere la tua treccia bionda. Su te furono ghirlande, su te gli spini; la tua carne denudata urlò, e pianse di fredda solitudine. Ne' tuoi capelli profumati si torsero le dita crudeli degli amanti, e la treccia tua si sciolse per avvolgere il sonno del Liberatore.

La tua treccia è gonfia di rugiada, le tue mani han l'odore dei mandorli, Maria Maddalena...

E tu sei quella che tiene me prigioniero, in questa moltitudine che si raduna davanti al Calvario; tu sei quella che risorgesti nel cuore della pallida Bernadette, musica eterna dell'umano amore, peccatrice di Mágdala, innamorata dell'Uomo di Galil... Egli ti disse:

«Lévati; ora è l'alba. Se nel sonno hai peccato, scendi alla fontana e detérgiti. Hai la veste orlata di brina: la tua treccia è gonfia di rugiada; il sole sta per nascere dietro la neve dell'Hermòn. Lévati; è già tempo di andare.»

E così, nella verde Galilea, fecero molta strada insieme. E camminando ella era sempre con lui, spesso a fianco, talora nella sua ombra. E l'amore della cortigiana di Mágdala fu l'amore che seppe andar più lontano traverso la memoria degli uomini: pallido e voluttuoso amore della rinunzia, eterna poesia del mito cristiano.

Ma ora tu risorgevi, cortigiana di Mágdala, dalle buie distanze dei secoli; venivi tra quell'immenso gregge di umiltà, e nuovamente perduta nell'amore di Cristo, me, davanti al Calvario, conducevi per mano.

Tu eri stata la povera figlia del mugnaio Soubirous, dai capelli pieni di vento, che andava per vicoli umidi, rasente il muro, alta e pallida, senza guardare alcuno. Tu splendevi, con la tua treccia bionda e buia, nel sogno dei miserabili, e la carne tua che possedettero i centurioni prepotenti, e l'amore tuo fedele che seguiva l'Uomo di Galil, era ciò che nelle favole millenarie ti rendeva, o peccatrice, così umana.

Non la moglie vergine del falegname di Nazareth, ma tu sola eri, o peccatrice, la divina bellezza del mito cristiano. E il mare umano scendeva, con me prigioniero, verso il terreno sacro del Calvario, alla Fontana dei Miracoli. Giunto in vicinanza del ponte che varca il fiume di Bernadette, cominciai con veder allargarsi lo spazio della dura vallata, e le montagne ovali scostarsi, chiudendo in sé una specie di fantastico anfiteatro, dove nel fondo si alzava, nuda a solenne, la Collina del Calvario.

Pareva che la natura previdente avesse voluto erigere uno scenario da leggenda intorno ai sacri misteri della fede cristiana. E là poteva una gente senza numero trovare spazio per le sue genuflessioni; tutto era costrutto con il senso dell'immensità, quanto era travaglio dei secoli od opera prodigiosa della fatica umana. Vedevo dall'estremo angolo della vallata scendere il fiume balenante, che pareva urtasse in un rogo di sole contro il macigno della rupe di Massabielle. Lontana, quasi cancellata nell'azzurrità, immersa in un vapore di sole, brillava di guglie d'oro la catena dei Pirenei.

....…………………………………….

«Signore mio Lord Pepe, non posso che darvi ragione. Lourdes è una triste fiera dei miracoli, dove si vende Cristo e si esorcizzano le piaghe dei cristiani; una bottega di atroce medievalità, ove governano senza pudore il fanatismo e la superstizione. Questa insolente impresa di alberghi e di monasteri, di ceramica sacra e di candele istoriate, ha per sua fondatrice involontaria la figlia d'un povero mugnaio, che disturbò notevolmente, con il rumore dei suoi miracoli, gli ozî parigini del terzo Napoleone.

Signore mio Lord Pepe, voi siete - come io ben conosco - l'ultimo rampollo di una vecchia gente cristianissima, e siete un gagliardo possessore di femmine disoneste, un fino artefice del lieto vivere, un amabile fanatico della religione di Vatel: - questa buia Lourdes, invasa di storpi e di catecúmeni, certo non è il teatro che si conviene ad un giovine hidalgo pari vostro. Sebbene imbevuto di ortodossia fin dentro le midolle degli ossi, pur, nel cattolico epicureismo del vostro felice ubi consistam, non è luogo per l'umano dolore. Il senso del mondo per voi si compendia - unica teologia - nel perfetto piacere.

Signore mio Lord Pepe, voi siete un vero credente. Nel passare davanti ai tabernacoli non dimenticate il segno della croce; per strada lasciate il passo al maestoso clero cattolico; fors'anche recitate il Pater e l'Ave, ogni sera, prima di coricarvi con Litzine. Gesù Cristo vi serve inoltre a formulare qualche sonora e pittoresca bestemmia; la vostra fede, altrettanto superficiale quanto inestirpabile, vi aprirà la via del Paradiso, allorché , al termine di tutte le gioie della vita, voi pure dovrete comporre la vostra spoglia elegante in un freddo cimitero.

I pellegrinaggi, la follia mistica, il traffico delle mercanzie religiose, la Fontana dei Miracoli: - ecco, signore mio Lord Pepe, un certo numero di cattoliche seccature, alle quali, voi credente, preferite i miracoli dello scomunicato baccarà. Per avere il capriccio di strofinarsi a que' mille contaminati, bisognava esser pazzi come la folle Madlen, od essere - voi dicevate Lord Pepe - «un extraño caballero como Usted.»

Orbene, in questo gran disordine della fiera umana, quali dovremo noi scegliere, per disciplina dello spirito nostro, fra i sacri ed i profani mercanti di paradisi? Chi è nel giusto? chi è più presso alla vena d'oro, fra questi cercatori di felicità? Gli uni e gli altri méntono; questi e quelli méntono. La vita è una volgare sciocchezza. Mente il dolore, mente il piacere.

Lasciate gemere le campane, cantare le orchestre: tutto questo non è in fondo che un po' di rumore...

...........…………………………………..

Or io vedevo, nel celestiale dirupo, quella che un tempo chiamavasi la caverna dei caprifogli e degli spini.

Quando scese al guado Bernadette, la Gave de Pau scorreva sotto la rupe di Massabielle, rasente il greto selvaggio. Ma ora la sagacia idraulica dell'ingegneria canonicale aveva respinto il fiume nel mezzo della vallata e spaziose murature circondavano l'accesso alla Grotta del Miracolo. Questa non era paurosa né profonda; nulla in sé aveva dell'antro o della spelonca, nulla dei sinistri abitácoli di uomini primordiali o di fiere scomparse; ma solo appariva per due fenditure nella roccia, che ne formavano l'entrata e l'uscita; odore rancio di candele consunte appestava l'aria sotto la volta affumicata; le labbra dei fedeli avevano intaccato e reso liscio il sasso delle pareti; nel fondo era una specie di strozzatura, dalla quale pullulava un filo d'acqua, scarso, debole, che ogni tratto s'interrompeva.

Questo era il sublime rivolo, che dissuggellò dal macigno la mano lieve della pascolatrice.

Davanti alla fiacca sorgente vacillava un triste tabernacolo ed infinite migliaia di lettere si ammucchiavano dietro un cancelletto, in una specie di naturale paniere. Là in fondo erano appese ancora le grucce e gli ordigni ortopedici dei primi che furono tocchi dal miracolo, e tutta la rupe, intorno all'accesso della Grotta, se ne vestiva come d'una tragica e squallida reliquia di martirio.

I fedeli si stipavano all'ingresso, ove era, contro il palco del predicatore, un rozzo ed enorme simulacro della Signora di Lourdes. I cristiani entravano come sonnambuli, dopo avere compresse follemente le labbra su la pietra luccicante; compivano il giro dell'angusto presepe, che doveva sanarli da ogni patimento: alcuni stramazzavano al suolo, tramortiti, nel vedere l'acqua celestiale. Venivano tolti su di peso; il lezzo era insostenibile; il cancello impediva di attingere alla divina Sorgente; le fisionomie, tra quel barlume di ceri e quella nebbia di sacra fuliggine, assumevano un non so che di orribilmente spettrale; un silenzio, non interrotto che dallo strisciar dei piedi, lasciava udire il gorgoglio che l'acqua scarsa mandava nella sua fatica di gemere; e la folla continua, pazza, pesante, muta, costringeva, dopo qualche attimo, a procedere fra le pareti anguste, fino all'uscita.

Là, pareva che l'aria del mondo ancora fosse dolce a respirarsi, come per chi esce d'improvviso da una galera sotterranea. Ma quivi era la più turpe adunazione di carne moritura che mai si accolse davanti allo stupore dei miei occhi, e questa orribile fiera di atroci difformità circondava la Grotta del Miracolo. Come i sacri lebbrosi dell'Oriente, questi erano fatti segno all'adorazione della folla ed erano lasciati stare innanzi a tutti, proprio sul limitare della Grotta, come una larga platea di contraffazioni umane sotto il pergamo del predicatore, in attesa del miracolo.

Chi poteva reggersi era in piedi su le grucce, oppure a ginocchi; gli altri erano deposti su lettighe, barelle, sedie scorrevoli, od erano quasi murati vivi entro macchine d'ortopedìa. Quasi fossero gli attori spaventosi d'un liturgico dramma da Gran Guignol, erano lasciati soli e campeggiavano in mezzo alla folla, sinistramente percossi dal chiarore delle torce, neri di tabe, monchi delle membra, con piaghe senza nome, con viluppi di fasce onde gemeva la nera putredine, meno simili a creature che a cadaveri dissepolti.

Era scesa la rapida oscurità che fa breve in autunno il crepuscolo tra i monti; un po' di luna, fra nuvole, batteva sopra un angolo del Gave. L'odore dei timi, l'odore dei boschi pieni di ciclamini, aleggiava su la immensa folla che si andava perdendo nell'oscurità.

E torneranno alle Fontane del Miracolo i greggi degli eterni miserabili, a dimenticare nel sogno d'un'umile pascolatrice il sogghigno freddo e sarcastico dell'uomo che si chiamò Voltaire.

Hai una treccia che ti veste, Madlen, come il fiocco abbrunito dal sole veste la pannocchia del grano...

Eppure le rose nascoste ancora fioriscono dai fragranti rosai; nostra è ancora la gioia del mondo; in noi sale scintillante la spuma del vino biondo, ridono, tremano, cantano gli archi dei pazzi violini... Domani - forse domani - ridiverrai la peccatrice di Mágdala, quella che ha smarrito un fiore nella polvere del mio cuore di viandante.

E le rondini - pensavo - della bianca terra di Guipuzcoa si levano tutte a stormo, e trillano, questa mattina, per andare...

Álzati ancora ignuda, com'eri sul drappo d'oro nel mezzo della Basilica scintillante, mentre saliva, tra il dolore della umana gente, la voce del grande organo avvolto in una musica di fiamme, e l'alta chiesa bruciava come un padiglione di sole – di fuoco e di sole – ove erano tutti i peccati, le gioie della carne, tutto il rossore della umana voluttà, il riso ebbro della perdizione che vuota il calice, spezza il bicchiere... più su, più su, in un vortice di sole - di fuoco e di sole - ubriaca, nei paradisi terrestri, l'infernalità dionisiaca della vita...

Álzati ancora e danza, ignuda, sul cuore del mondo, peccatrice di Magdala!... Nell'alba lontana - io pensavo - una vela è partita sul mare. Álzati ancora e danza, ignuda, sul cuore del mondo, e sii la cortigiana di Mágdala, splendente in amore fra tutte le donne perdute, bella come la rosa che nasce nei fragranti giardini del Libano, l'intrisa di tutti i peccati, l'amica dei centurioni prepotenti, quella che disse una sera al pallido Uomo di Galil: - «Préndimi! baciami!... la strada è bella; e tu scioglierai la mia treccia per farne il tuo guanciale profumato...».

Forse, talvolta, la sera, quando i treni si addormentano, quando la strada passa traverso l'anima di chi va via - tu per me, io per te, Madlen - chissà dove, chissà quando, riudiremo sottovoce cantare la musica dei pazzi violini; e dell'amore che ci portò e del dolore che ci strinse non rimarrà che una striscia di fumo, nulla, un po' di sogno, l'azzurra ombra d'una sera d'estate, su la bella Concha, davanti al sole che moriva nel divino Atlantico... e sarà una striscia di fumo, nulla, un poco d'anima dispersa nel rumore della strada, qualcosa di troppo lieve, di troppo azzurro, la memoria d'una sera d'estate, una striscia di fumo, nulla...

F I N E D E L R O M A N Z O

BUONA LETTURA!

 

 
 
 

SCIOGLI LA TRECCIA MARIA MADDALENA dello scrittore: Guido da Verona

Post n°199 pubblicato il 26 Ottobre 2012 da ciapessoni.sandro
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SCIOGLI LA TRECCIA MARIA MADDALENA – dello scrittore: Guido da Verona.

 

 

Immagine. Gerusalemme.

Gesù scaccia i mercanti dal Tempio

 

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Seguito XXIIma parte del romanzo. (Seguito post 198)

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E il pallido Galileo era entrato nel Tempio della dissoluta Gerusalemme, ed aveva gridato: - Fuori i mercanti! Fuori i simoníaci! Siano distrutti i banchi dei venditori di Dio!

E con la sua mano scarna, e con la sua forza debole, aveva egli stesso rovesciate le tavole, disperse le mercanzie, vuotate sul pavimento le borse degli attoniti Farisei.

Nel cerchio delle infinite sue mura Gerusalemme la pazza, Gerusalemme l'ingorda, Gerusalemme la dipinta come una cortigiana, chiudeva tra i suoi palazzi di cedro e di marmo il secolo di tutti i piaceri, la foia di tutte le colpe, la dorata e venale decadenza della sua voluttuosa civiltà.

E lungo le sue mura, il Battista, l'Iscariota e gli altri suoi fedeli discepoli andavano ripetendo:

- È venuto il Battezzatore che sciacquerà le colpe d'Israele; è venuto il Messia vestito di bianco, il Redentore dalla mano trasparente, l'Annunziato nelle visioni dei profeti, Quegli che parla coi doganieri ed amano le belle cortigiane, il Salvatore nostro, l'Uomo di tutte le penitenze, la Carne di Dio.

«Levatevi su dai tugurî e portate a Lui tutto quanto è dolore.

Sul labbro del Nazareno è avverata la predizione di Elia. Quelli che tutti frustano, Egli chiama suoi fratelli prediletti; chi manca di un denaro, Egli dice possieda la sublime ricchezza; chi non ode, in Lui ode; chi più è stremato, Egli fortifica; dalla sua mano è medicata la piaga insanabile; i ciechi hanno per Lui veggenza; i muti per Lui dissuggellano la voce spenta, dov'è lacrima Egli fa nascere allegrezza; la donna sterile per Lui concepisce; anche i morti, anche i morti, per Lui, se dice: - «Lévati! - risorgono.» .

E Gerusalemme la turpe, Gerusalemme l'ignava, Gerusalemme la carica d'oro mal guadagnato, Gerusalemme offertasi mancipia dei centurioni prepotenti, applauditrice di retori, innamorata dei mimi e degli efebi imbellettati, coi suoi magazzini che straripavano di mercanzie asiatiche, le sue mense che ingaudiavano di vini attici e del Metaponto, le sue cortigiane maestre di lussurie crudeli, le sue case piene d'adulterio, le sue caserme piene di viltà, la sua gente tutta venduta all'amore dell'ozio e del lucro, Gerusalemme sapiente, paurosa, lasciva, da un capo all'altro piena di splendori e di miseria, da un capo all'altro rumorosa di urli e di canzoni, Gerusalemme che possedeva l'Arca Intangibile, ascoltò con una specie di millenaria paura la voce del pallido Viandante, ch'era venuto al suo tempio di marmo dal selvatico paese di Galil, ed ora entrava nei cortili dei mercanti, e rovesciava le tavole del mercimonio davanti agli occhi degli attoniti Farisei.

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Erano passati duemila anni, e tutto ciò rinasceva; e questo era di nuovo un sobborgo dell'antica, empia Gerusalemme; una turba immensa di flagellati camminava per le sue strade anguste; una superba dinastia sacerdotale raccoglieva oboli opimi; l'Arca Intangibile faceva scorrere una Fontana Miracolosa; e là fuori, a centinaia di leghe, impazziva la Capitale scintillante, brillava il secolo di tutte le perdizioni: Babilonia e Tebe, Roma e Bisanzio; l'eterna caducità degli uomini e la più eterna speranza in Dio.

Nelle botteghe dei rigattieri di religione, ora come allora, si vendeva Cristo. Dagli ospedali rigurgitanti, dalle chiese gremite, dalle sentine, dalle cloache, dai penitenziari della umana carne, ora come allora, la speranza dei miserabili affluiva con tutte le sue piaghe verso il mito intramontabile, cercava di medicare in un rivolo d'acqua le maledizioni della vita.

Questa vergine che s'era inginocchiata presso il deserto guado, raccogliendo nello scialle di lana fulva i suoi capelli pieni di vento, era forse un'ultima sorella del pallido Galileo: da entrambi erano nate basiliche, sogni e preghiere, persecuzioni e miracoli, scherni e paradisi.

Vergine di Bartrès, tu hai veduta la Madonna del Rosario; e così pure il Divino Folle udiva la voce dei Profeti nominarlo Figliuolo di Dio; vedeva sul popolo d'Israele, sui popoli di tutte le frontiere, la sua regalità coronata di spine; vedeva sé stesso vivere per sempre nella immensa forza del dolore umano. Ed Egli parlò per uccidere ciò che nel mondo è gioia terrestre, fuoco di amore che passa, urlo di voluttà che si consuma.

Tu eri, Vergine di Bartrès, la sorella del più divino e del più dolce uomo che mai abbia traversate le vie della terra; in entrambi voi era l'innocenza dei grandi sollevatori d'uomini, quella forza di fedeltà nel sogno che le razze attendono per secoli e per millenni; era la semplicità universale di que' pensieri che riescono a divenir eterni, la bellezza del dolore che s'inginocchia e sente in sé discendere l'invisibile Dio.

Lévati, Vergine di Bartrès!... Dal monastero dove ti hanno sepolta, lévati ancora una volta, coi tuoi capelli pieni di vento; vieni alle rupe di Massabielle e guarda l'opera che hai compiuta.

Fuori dalla vallata selvaggia urlano le città sataniche; il fragore dell'oro maledetto piove sugli asfalti lampeggianti; la forza crudele degli uomini curva metalli e pietre; il secolo è pieno di miscredenti; si adora la nudità, si vende la gioia; si fornica senza pudore, si ruba senza vergogna; i talami son pieni d'adulterio; i preti mentono, i tribunali mentono, i governatori mentono...

Lévati, Vergine di Bartrès!

Non c'è nel mondo più luogo per il dolore; la sofferenza diviene ira, diviene speranza di vendetta; quasi nessuno ha tempo di soffrire. Vivere vogliono! urtarsi, calpestarsi vogliono! Le chiese brillano come teatri; anch'esse divengono esibizioni di fasto e di potenza; non si prega nelle chiese; nelle chiese prega soltanto chi ha tempo da perdere. L'umanità sente il bisogno che venga innanzi un nuovo Dio. Forse il medesimo d'una volta, ma che abbia sembianza e spirito d'un Dio del ventesimo secolo. Gli uomini han troppo orgoglio; la potenza del loro ingegno, dei loro eroismi e dei loro delitti, giustifica un tale orgoglio. Si aspetta la nuova Incarnazione, che forse uscirà dal campo, dall'officina o dalla catapecchia. Non senti, vergine di Bartrès, come urlano le città infernali? Non vedi come tutte ardono d'incandescenti fornelli e di bianca elettricità? Non odi come splendendo cantano i loro terribili supplizi? Non vedi che una immensa marea di rivoltosi già viene da tutte le strade, bestemmia da tutte le glebe, ha sete anch'ella dei rossi vini che ubriacano i pazzi conviti? È la infinita miseria che torna dal fuoco e dalla vanga, dal dolore antico ed inestirpabile verso il miraggio della eterna rinnovazione... Lévati, vergine di Bartrès!

Esce la plebe cristiana dalle nere catacombe. Dio cammina. La forza delle moltitudini è immensa come la forza del mare. Hanno vessilli che bruciano come fiamme. Sono i piccoli uomini di tutte le età, che emigrano da un errore verso un altro errore. L'urlo è immenso. L'urto è immenso. Finirà con creare nuove potenze, nuove miserie; forse, per la speranza dei miserabili, un nuovo Dio.

Ma si troveranno ancora davanti a due strade: una che va incontro alla gioia, l'altra verso il dolore. Sono l'uniche due strade che siano tracciate chiaramente nella polvere della vita: la via pagana, dionisiaca, soleggiata, ilare, invereconda; - la via della rinunzia, del pentimento, dell'attesa, del gelo, dell'estinzione.

Due strade, sempre due strade, che dividono gli uomini fra loro, e nell'anima loro. Quella che dice: «Io debbo godere nel tormento;» - quella che dice: «Io debbo umiliarmi nel piacere.»

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………………………………………………………….

Erano gli ultimi giorni dei grandi pellegrinaggi che invadono la sacra città nel mezzo dell'estate. Una folla immensa, forse di quaranta o cinquantamila pellegrini, occupava ogni luogo abitabile, si accalcava negli alberghi, negli ospedali, negli ospizi, nelle baracche provvisorie, ne' corridoi dei conventi, nei dormitori delle Confraternite: spesso accampava, di notte, per le strade.

Venivano a cercare il miracolo da ogni lontananza della terra cristiana; camminavano in lunghi reggimenti, con abiti scuri, con facce devote, a passi lenti, seguendo le insegne dell'Ordine al quale appartenevano. I malati erano stesi nelle barelle, seduti nelle portantine, che a forza d'omeri sorreggevano i penitenti lettighieri; ogni gruppo li custodiva con gelosia, come preziose reliquie, nel compatto nucleo del pellegrinaggio. Queste fanatiche schiere di credenti avevano con sé talvolta il loro Vescovo, talvolta un umile parroco; poi tutto uno stuolo di preti minori, dame della Misericordia, medici, suore di carità, ed ubbidivano a comandanti laici. Solo per mantenere l'ordine tra queste folle promiscue, albergarle, nutrirle, disciplinare la forza dei validi e mitigare le pene degli infermi, occorreva un reale genio di condottiero, sebbene Lourdes fosse tutta preparata a ricevere questi immensi pellegrinaggi.

Confraternite possenti, ricche a milioni, vere dinastie sacerdotali che tenevano il potere della sacra città, onnipresenti ma invisibili, attente ma silenziose, governavano tutto quel mare di cristianità, quelle turbe di mistici emigranti, quelle fiumane d'oro e di miseria, stando fuori da esse, dietro le muraglie dei freddi claustri, ove erano incastellate.

Dalla universale povertà, l'avarizia degli Ordini traeva rapine incalcolábili; un pazzo furore di lucro assillava gli abitatori della nuova Gerusalemme; tutte le strade riboccavano di negozi religiosi; i dintorni della grande spianata, ch'è di fronte alla collina del Calvario, davano l'impressione di una terribile fiera.

Ciò che si vendeva era la grazia e la misericordia di Cristo; ad ognuno che passava di là dovevasi, per forza o per amore, togliere qualcosa dal borsellino. Lungo tutta la strada si ergevano baracche di legno e di tela, banchi, edicole, cantine, ristori, capannette, friggitoi, tutte le specie di mense adatte a sfamare o dissetare la moltitudine, tutte le specie di malizie adatte a far denaro mungendo la pietà dei credenti. E il rumore dell'argento, il nome delle varie monete, il prezzo dei mille oggetti che si vendevano per onore della Madre di Dio, era ciò che più si udiva, che unicamente si udiva, in quella immensa marea di cristiani scendenti verso la Grotta del Miracolo. Nulla poteva scampare dal nugolo dei venditori e delle venditrici ambulanti, che v'imprigionavano nel loro numero, vi tiravano per l'abito, vi mettevano in braccio per forza la loro mercanzia: ceri dipinti, medagliette, statuette, scapolari, libercoli, fasci di fiori, ex-voti, sacre immagini, bottigliette ripiene dell'acqua miracolosa di Lourdes... Mi pareva di ritrovarmi nei vicoli tortuosi dei bazars coloniali, tra la folla degli Arabi, insolente e variopinta, che vi copre di sorridenti ingiurie e di viscide carezze quando passate in mezzo a loro con le tasche ripiene di buoni scellini, e bisogna farsi largo alzando il bastone, se incominciano quelle accanite zuffe, quelle eterne contrattazioni, che altrimenti non finirebbero mai più. E socchiudendo gli occhi sopra una immensa fuga di secoli, mi pareva d'essere, col mio presente spirito, nella vera, nell'antica Gerusalemme, frammezzo alla turba dei mercanti che travolse lo sdegno di Gesù, negli spaziosi cortili del Tempio indistruttibile, un giorno di sagra, sotto l'imperio delle aquile di Roma splendente, quando nella reggia di Erode stava prigioniero il Battista e il turpe amore del Tetrarca perseguiva la figlia di Erodiade...

No: ero in una valle religiosa della pagana Repubblica di Francia, e venivo dalle città infernali, ove splendono le vetrine del diavolo, sorgono le case della vita perduta, e la musica dei pazzi violini esalta la nuda voluttà, il folle sperpero, l'eterno piacere... Venivo dai roghi ove arde la torbida fiamma dell'amor profano, ed ero io stesso pieno d'infernalità, sazio d'ogni colpa, uso ad ubriacare tutto me stesso nei fumi e nelle musiche dei falsi paradisi.

 

Fine della XXIIma parte del romanzo

Buona lettura.

 

 
 
 

SCIOGLI LA TRECCIA MARIA MADDALENA - dello Scrittore : Guido da Verona

Post n°198 pubblicato il 20 Ottobre 2012 da ciapessoni.sandro
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SCIOGLI LA TRECCIA MARIA MADDALENA – dello scrittore: Guido da Verona

 

 

Immagine: Antica grotta

dell’apparizione.

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***

XXI° Parte del romanzo.

 

- Hombre! Usted no conoce mas los amigos!... Ero fermo con Madlen davanti alla vetrina d'un mercante di paternostri, sul Boulevard de la Grotte, quando mi sentii battere con vivacità un colpo su la spalla ed intesi una voce nota prorompere in quell'allegra esclamazione: «¡Hombre! Usted no conoce mas los amigos!...».

Rivolsi gli occhi dalla vetrina, e mi trovai di fronte il giovine hidalgo Lord Pepe. Appunto egli era venuto su la soglia di quel medesimo negozio e teneva infilato sul braccio un gran mazzo di scapolari.

La mia confusione fu così grande, che guardai Madlen, e per un attimo non seppi cosa rispondere. Ma il delizioso Lord Pepe, tutto vestito quel giorno di uno smorto colore kaki, non concesse gran tempo alla mia confusione.

- Deo gratias, caballero! Usted parece en excelente sanidad!

Yo llego expresamente de Biarritz para encontrarme con Ustedes! «Con noi?... veniva egli appositamente da Biarritz per incontrarsi con noi?...» Gli strinsi forte la mano, sebbene cadessi di sorpresa in sorpresa.

Ma Lord Pepe, sempre col suo mazzo di paternostri sul braccio, scese dal gradino del negozio, fece un profondo inchino, e sollevata per l'ápice delle dita la mano destra di Madlen vi depose con impeccabilità il più perfetto bacio che si fosse mai veduto nella cavalleria di tutta la Spagna.

Madlen, ch'era tuttavia rimasta più ferma ed impassibile delle Madonne di cera esposte nella vetrina, gli domandò con molta calma:

- Well? Are you already back, dear Lord Pepe?

E nulla potrebbe mai esprimere la sottile ironia di quella voce tranquilla, con cui gli aveva detto senza turbarsi: «Dunque, siete già di ritorno, caro Lord Pepe?»

- Ma certo! ma certo!... - rispose questi con precipitazione. E poiché la fibbia d'una delle sue ghette si permetteva di lasciar saltare in su il lacciolo che la stringeva, Lord Pepe si chinò leggermente e rimise in ordine quella fibbia che osava prendersi tanta libertà. Poi disse:

- Cari amici... - anzi aggiunse: - miei cari ed eccellenti amici, - come vedete, sto scegliendo un paio di corone del Rosario. Però mi secca moltissimo di non trovarne almeno due che non sembrino incise dentro gusci di castagne secche. Il gusto francese, in materia di religione, è peggiore del gusto americano in fatto di cappelli a cilindro. Ma questo non è l'essenziale. Tanto più che i rosari di Lourdes saranno certo il monopolio di qualche industria ebraica «Made in Germany». La cosa per me importante è una sola, ed è questa: che finalmente vi ho ritrovati. Pativo la nostalgia di voi. Sì, perdonatemi, cari amici... veramente pativo la nostalgia di voi!

E Lord Pepe, così parlando, esaminava i rosari ad uno ad uno. Li palleggiava tra le sue dita scure, tastandoli e pesandoli, con quel gesto particolare che hanno gli esperti sceglitori di sigari Avana.

Ed egli era più bello che mai, accurato, ben pettinato, fresco di rasatura, senza cappello in testa, come usar deve nel ventesimo secolo un elegante giovine signore, il quale abbia due dita di saper vivere, due granelli di buon senso e di fina educazione.

- L'interno del negozio è tanto scuro, - continuò Lord Pepe, - che non vi si può conoscere la madreperla dalla noce di cocco.

Vorreste aiutarmi nella scelta, lady Madlen?...

E disse «lady Madlen» con quel tono protocollare e declamatorio che userebbe, ne' suoi complimenti ufficiali, a Buckingham Palace, il Gran Maestro cerimoniere.

Lady Madlen scelse nel mazzo un degli scapolari più grossolani, e disse ridendo:

- Questo va per voi.

- Grazie, - rispose Lord Pepe; - voi siete sempre stata una donna piena di buon gusto. Però me ne occorrono due.

- Due?

- Perché no? Vi sembra forse che la spesa ecceda il buon senso? Dovete sapere, lady Madlen, che i miei peccati sono molti, e maggiori sono quelli della mia nuova compagna.

- Dunque avete una compagna?... Che fortuna per lei, caro Lord Pepe!

- Non ne dubito.

- E sarà probabilmente quella famosa attrice del Vaudeville...

- Neanche per sogno, lady Madlen. Purtroppo, quando io giunsi a Biarritz, l'attrice del Vaudeville stava già recitando la commedia dell'Europa Innamorata con un certo Commodoro Americano, il quale aveva la pretesa di entrare nelle sale del baccarà conducendovi seco il suo giovine leopardo. Era questo un mezzo radicale per difendersi dai banchieri troppo fortunati. Ma l'Amministrazione del Casino, pedante all'eccesso, lo ha pregato di lasciare il leopardo in guardaroba. «Déposez vos léopards au vestiaire!» - dovrebbe avvertire un cartello affisso nell'anticamera.

- Oh, mio caro Lord Pepe, come diventano insopportabili quei signori di Biarritz!

- È quello ch'io dicevo appunto al Commodoro Americano.

Pagare una «cagnotte» disastrosa e non poter nemmeno condor seco il proprio leopardo: ecco una restrizione che deve sembrare davvero insopportabile ad un cittadino della libera America!

- Ma dunque, se non è l'attrice del Vaudeville, diteci chi è mai la vostra nuova compagna, - domandammo a Lord Pepe.

- Un misterio, caballero! el mas grande misterio!

E, mentre così diceva, Lord Pepe ci sospinse ad entrare nella bottega del mercante di paternostri. Quale non fu la nostra sorpresa, allorché, rincantucciata nel fondo, nascosta dietro la siepe de' numerosi avventori, appunto riconoscemmo la bionda Litzine.

Ecco finalmente un matrimonio che poteva dirsi ben combinato!

Le facemmo un'accoglienza festosa e Madlen cominciò ad abbracciarla con effusione. Quel nostro parlar così forte, que' baci, e l'incompostezza delle nostre maniere, disturbavano la pace del religioso negozio; il suo proprietario ci squadrava di sopra gli occhiali a stanghetta, brontolando non so quali parole, tra la barba irsuta e malvagia come quella d'un Fariseo.

Io pensavo intensamente al neo biondo ch'era sul braccio destro di Litzine... Fra quelle medagliette, quelle Madonnine di cera, di stucco, di legno, di bronzo, fra que' rosari variopinti, d'ogni foggia e d'ogni dimensione, fra i ceri grandi e piccini, che davano a quel rinchiuso un puzzo di sego religioso, tra quelle devote in velo nero, tra que' vecchi baciapile dai borsellini enormi e semivuoti, io pensavo intensamente al neo biondo ch'era sul braccio destro di Litzine.

E mi ricordavo l'alba senza stelle, davanti al lampione ad arco del Teatro Eugenia Vittoria, che faceva dondolare, con un lento ronzio di corde elettriche, il suo globo spento. Frattanto Lord Pepe, in un pessimo francese, tutto cosparso di vocaboli spagnoli, discuteva da uomo competente sul prezzo dei rosari. Aveva deciso di comperarne almeno quattro; e li scelse con infinita cura, e li fece ravvolgere in carta velina, trattandoli, adesso ch'erano suoi, con particolare devozione.

Chissà?... Forse egli li destinava ad essere una pia testimonianza della sua devozione presso la zia paralitica e milionaria che governava il feudo di Zaraùz, inchiodata nella vecchia poltrona, con un rosario per braccio, la Bibbia sott'occhi, e il testamento olografo sigillato nel libro dell'amministrazione.

Che malinconia, povero Lord Pepe!... Essere stato elegante come un baronetto inglese, per finire con sposarsi Adelaida, la cugina provinciale, che certo portava con severa cattolicità le opache mutande di cotone! Aver dormito a fianco di Madlen ed immersa la bocca ne' biondi riccioli di Litzine, per slacciare poi, la sera delle nozze, in una camera fredda, presso un fuoco semispento, le dure balene di un busto quasi verticale... Avere quaranta soprabiti, trecento cravatte così bene assortite, saper ballare il tango argentino con le ragazze della Pampa, nella sala del Rat Mort, per seppellire sé stesso all'ombra d'una buia moglie romantica, sul labbro della quale, col volgere dell'età, comincerebbero a spuntare i baffi!... Che malinconia, povero Lord Pepe, que' profumati giardini di Zaraùz!...

Nondimeno, questo figlio d'un banchiere della City, dal quale i Circoli di Regent Street e le sartorie di Piccadilly, gli alberghi del continente ed i balli di Montmartre, le case da giuoco internazionali ed i boudoirs delle cortigiane di Francia andavano man mano cancellando ogni traccia della dura provincia, questo meticoloso buongustaio ed intrepido guidatore di macchine da lunga strada, aveva indelebilmente in sè qualcosa di quella sua razza cattolica ed avara, superba e superstiziosa, che stava ormai tramontando nella poltrona di doña Isabel.

Questo era ben visibile, quand'egli palleggiava come un esperto intenditore i piccoli rosari di Lourdes, o comperava le cartoline illustrate della Grotta Miracolosa, e quando, involontariamente, nelle botteghe di oggetti religiosi, per le vie della sacra Lourdes, non poteva trattenersi dal riverire gli alti prelati ed inchinarsi alle insegne del potere ecclesiastico.

L'amabile ironia con la quale parlava di cose della religione, anziché nascondere, illuminava in lui, ne' suoi occhi di schernitore, l'anima del credente.

Ed un giorno egli sarebbe divenuto senz'alcuna fatica l'onesto marito della buia cugina Adelaida, il duro padrone del feudo di Zaraùz, quegli che avrebbe raccolto dalle mani tremolanti e gialle della zia cattolicissima l'eredità secolare degli Higuera. E il confessore della sepolta doña Isabel, un macilento Gesuita impenetrabile, sarebbe divenuto il braccio destro del giovine vizcomde don Josè; con questo freddo monaco, nella scura biblioteca, d'inverno, sotto il fumo d'una lampada a petrolio, avrebbe riveduti i contratti d'affittanza, i redditi già esosi, quelli da imporre con nuova usura, poi gli sfratti ch'era opportuno dare agli antichi inquilini delle case di Madrid, e gli impieghi da scegliere in titoli esteri, secondo il fluttuare della malcerta peseta...

E la buia cugina Adelaida, or divenuta con severa magnificenza la viscontessa Fernandez de Higuera, lo avrebbe lentamente attratto nella viscosità della sua carne romantica e provinciale, lo avrebbe avvezzo a preferire, fra tutte le ciprie, quella che odora di naturale gelsomino, fra tutte le pettinature quella che manca di ferro e di complicazione, fra tutte le gioie dell'amore quelle che approdano alla eterna e sacra maternità... Dunque sbizzarrítevi ancora un poco, giovine Lord Pepe! Ha ragione vostro padre, banchiere a Londra: per far bene tutto ciò che da voi si richiede, bisogna prima aver dormito nelle braccia folli di questa bionda Litzine!...

Fine XXI parte del romanzo

Buona lettura...


 
 
 

SCIOGLI LA TRECCIA MARIA MADDALENA - dello Scrittore : Guido da Verona

Post n°197 pubblicato il 16 Ottobre 2012 da ciapessoni.sandro
Foto di ciapessoni.sandro

SCIOGLI LA TRECCIA MARIA MADDALENA – dello scrittore: Guido da Verona.

 

 

Immagine: Fiume Gave du Pau

Scesero. Le Gave de Pau traversava con impetuose onde la dura vallata. Si udiva il rumore del fiume cantare fino al cielo, gonfiarsi, perdersi nell'inverno scintillante. La bianca erba si accendeva di arcobaleni sotto il gelo della brina. I sentieri lungo il fiume, di là, nei boschi, erano deserti.

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***

Parte XX° del Romanzo (seguito del post 196)

Guardavo quel forte castello, pensavo ai signori che lo tennero, secoli fa, custodi acerrimi di otto vallate, e su cavalli armati salirono la ripida erta, e furono assediati, e di fame patirono, e di buon sangue tinsero l'onda sonnolenta del fiume di Pau, al quale un giorno discese, nel rigore dell'inverno, e camminò solitaria la Vergine Bernadette. Camminò; ed era una fanciulla di quattordici anni, pallida, un poco emaciata, con grandi occhi scuri, troppo fissi, ove la giovinezza era già spenta; gli occhi terribilmente lascivi e dolorosi delle pazze in Cristo, gli occhi senza umanità ch'ebbero tutte le allucinate, le portatrici di stigmate, le recluse nei monasteri pieni di supplizi, Maria di Magdala e Santa Teresa, Lutgarde e Juana Rodriguez, Maria Villani e Jeanne Boisseau, Bertine Bouquillon e Bernadette Soubirous...

Questa era una pascolatrice d'agnelli, nata nella casa di poverissima gente; nulla sapeva, tranne che recitare il Rosario. Camminando per l'alta erba davanti alla sua mandria bianca, faceva passare i granelli della Corona fra le sue dita scure come ghiande. A quel tempo Lourdes era una borgata selvaggia, un angolo di superstizioso e devoto Medio Evo, sepolto in una dura valle dei Bassi Pirenei, col suo Castello in rovina e la sua chiesa decrepita, con tetre case di sasso in fondo a vicoli bui. Da queste case non si usciva, se non la Domenica, in processione, per cantare a Dio. Le fanciulle andavano spose a chi le guardava per primo. Erano alte, un po' rozze di lineamenti, con lisci capelli neri, e si vestivano di percalli variopinti. La più desiderata era quella che meglio cantava nei cori, quella che a dottrina il parroco designava come la più zelante nel fervore di Dio.

Nessuna bellezza del mondo, nessun rumore del secolo entrava in quella pia solitudine; nulla fuorché il vasto cantare del vento, che scendeva dalle azzurre cime dei Pirenei; le Gave de Pau, che faceva un gomito burrascoso a piè della collina, ove più tardi sorgerebbero le tre Basiliche; e boschi e silenzio; una religiosa povertà; i prati e le stelle.

Qualche mercante girovago, al passo di vecchie mule grevi di sonagliere, vi giungeva da lontani mercati. Sotto i lunghi portici, nei giorni di festa, l'arcidiacono passava benedicendo le donne inginocchiate. Ogni tre porte una nicchia: su qualche finestra un fiore. Null'altro. Ecco i luoghi dove nascono i perpetui miti, le atroci e meravigliose follie dello spirito umano, ciò che per sempre è vero e per sempre è inammissibile: - Nazareth e Lourdes.

Un miglio più su nella vallata è Bartrès, il villaggio di quaranta catapecchie, ove Bernadette visse i primi anni dell'infanzia, raccolta in una cuna deserta dalla povera donna Lagûes, per alleviare la miseria del mugnaio Soubirous. Là, divenuta grandicella, Bernadette pascolava gli agnelli della povera donna di Bartrès e recitava la corona del Rosario camminando per oscure pinete. D'inverno, d'estate, mai udiva rumore alcuno, fuorché il rumore delle foglie, la musica primitiva della foresta e del fiume; nulla sapeva della vita; non c'era strada.

Verso la fine d'Aprile tutto si profumava di mughetti; nel Settembre la foresta diventava un prato di ciclamini. Poi, verso i dodici anni, Bernadette fece ritorno alla sua casa. Dormì sovra un pagliericcio umido, nell'unica stanza del mugnaio Soubirous. I vicini di casa, là, nella contrada buia des Petits Fossés, poco amavano quell'uomo scontroso e miserabile, rintanato nel fosco tugurio, con la sua donna ossuta, con le sue quattro creature mal nutrite, cui ora s'aggiungeva la fame della sua primogenita, la taciturna Bernadette.

Questa oramai era nel suo tredicesimo anno; diveniva sempre più alta, più pallida; i bei capelli neri le scendevano fin sotto gli omeri. Spesso era scalza; la succinta gonnella rossa, di un vecchio percalle stinto, sfilacciato, con macchie d'erba e di ruggine, le scopriva i nodelli asciutti, esili, delle ginocchia scure. Sui duri ciottoli della contrada camminava con un passo di gatta, lungo il muro, trasognata, senza guardare alcuno. Se una voce la chiamava, ella si fermava di scatto, senza rispondere. Se un uomo la fissava, se una voce d'uomo cadeva su lei, se un riso d'uomo passava nella strada silenziosa, le sue magre spalle trasalivano impercettibilmente, si piegavano quasi con dolore, sotto quella forza temibile. Poi andava, per lungo il porticato, con gli occhi fissi ed il Rosario fra le mani, sperduta.

Di sera, quando tutto il borgo era nella chiesa, ella pure vi entrava, per l'ultima, non tra le fanciulle, non tra gli uomini, sola, in disparte; s'inginocchiava.

Era fredda; i suoi lisci capelli neri le cadevano su gli occhi luminosi; usciva di sé un colore di paradiso entrava nell'anima di questa pascolatrice.

Qualche volta Marie Soubirous, la sorella minore, veniva presso lei per dirle: - «Ora levati Bernadette; hai molto pregato; vieni con noi.» Ma ella non si muoveva. Era curva sotto la voce del lettore di parabole, sperduta in Cristo, già presa nella febbre del suo divino amore.

Il cantore del Vangelo, il giovine diacono Ader, aveva notato quella sua devozione; spesso, nel predicare, guardava le sue lunghe braccia nude, allacciate ai polsi dalla Corona del Rosario. Ed anzi, una sera, il diacono Ader disse davanti a tutto il borgo: - «Bernadette Soubirous è nella grazia del Signore.» E tutti si volsero, e tutti guardarono la vergine dai lisci capelli neri, che sorrise, umile, nella sua bianchezza di fanciulla malata.

Sì, era malata in Cristo, e negli uomini, e nel dolore della sua fredda verginità; malata nella sua adolescenza bella e fragile, malata nel suo respiro, nelle sue dita scarne, tutta pallore, tutta amore, silenzio ed allucinazione.

Ora, quando cadde l'inverno, Bernadette Soubirous, la figlia del mugnaio, la pascolatrice di Bartrès, quella che dormiva sul pagliericcio umido nel vicolo des Petits Fossés, la perduta in Cristo, compiva i quattordici anni. Il mugnaio era così povero che non poté farle alcun dono. Però sua madre le pose intorno al collo un suo logoro scialle di lana fulva, - «perché - disse - il vento del Pic du Midi soffia con troppa forza nella cenere del nostro focolare.».

Fin dentro il tugurio saliva il rumore d'acqua e di ciottoli che dal basso della vallata mandava le Gave de Pau; nessun'altra voce di cose vive; il borgo era sepolto nell'inverno; la dura vallata sbarrava ogni accesso alla vita. Ed allora, su l'umido pagliericcio, nel tugurio del mugnaio Soubirous, ogni notte Bernadette cominciò a sognare. Vedeva nel suo delirio le bellezze del regno di Dio, vedeva paradisi ed altari, fumi d'incensi ed apparizioni di creature celesti; poi sempre udiva quella voce calda e calma del giovine diacono Ader ripetere davanti a tutto il borgo: - «Bernadette Soubirous è nella grazia del Signore.»

E la innamorata in Cristo cominciò ad uscire dal mondo.

L'anima sua, pura da ogni contaminazione, scorreva nel suo corpo inguaribile come il fiume tra i dirupi della montagna inaccessibile. In lei era Dio; nella sua pallida carne malata era la sorgente inestinguibile del divino amore. Pativa il sogno come una fiamma carnale; si perdeva nel miracolo come tra le braccia di un divino amante. Da lei doveva nascere una grande leggenda; forse la più meravigliosa e terribile dopo il delirio di Cristo; quella che a lei trascinerebbe una emigrazione infinita di sciagure umane, tutto il dolore, tutte le piaghe, tutta l'ignoranza, tutta l'umiltà del secolo che portò nella sua dura effigie il sogghigno sarcastico di Voltaire.

Da lei, da questa pascolatrice di mandrie nelle praterie selvagge di Bartrès, dall'allucinata che mal respirava in fondo al vicolo des Petits Fossés, da lei, povera come un giglio, profumata come la preghiera, semplice come la demenza, innocente come la felicità, da lei che dormiva con sei altri miserabili nel tugurio del mugnaio Soubirous, doveva nascere il sogno più spaventoso che mai abbia fatto splendere i secoli di Cristo; e i disperati di tutta la terra, e i maledetti di tutta la terra, vennero ad intingere le loro piaghe nella fontana della Vergine di Bartrès.

Già una volta questo era accaduto, là sul Giordano.

Già una volta l'Allucinato sorse, e disse ai piagati di tutte le infermità: «Venite a guarire in questo fiume, per il quale sarà cancellata ogni colpa nel lavacro del battesimo.» E disse ai dolenti, e disse agli inguaribili: - «Io vengo a voi, per voi, da quello che non può essere nella vita.» E disse ai laceri, e disse ai diseredati: - «Il mio regno non è di questo mondo; la mia speranza non è di questa vita».

Già una volta il Battezzatore medicò di acqua innocente la piaga insanabile, e veggenti fece gli orbi di Dio, e sollevò i tramortiti, e camminare fece i contorti, e vivere nella speranza i percossi da ogni miserabilità.

Allora quel Divino Folle usciva dalle vigne di Galilea, saliva contro la terra di Roma, contro il giogo di Roma, ed entrava, bianco di rusticità, nella insolente Gerusalemme, nei cortili del Tempio, dissoluti e sfarzosi come anfiteatri, e diceva d'esser venuto agli uomini per benedire gli umili di spirito, i soli che vedrebbero in Dio.

Oggi era una vergine inquieta, che scendeva dai pascoli di Bartrès, laggiù, sul limitare della terra di Francia, dove cantava il secolo di tutte le eresie, dove i miracoli della potenza umana brillavano sui vértici della vita. E nella valle onde era sgorgata, quasi dalla sua verginità, una leggera fontana, battezzava nella speranza e nel miracolo quelli che il potere degli uomini aveva ormai abbandonati alle ombre sotterranee, squallido pasto per la fame delle cancrene, putredine da raccogliere ne' cimiteri.

Così, dalle buie catapecchie, nascono le eterne religioni; così la sapienza degli uomini cade a ginocchi e tace davanti al sogno d'un'adolescente.

Ora, quel giorno, il fuoco stava per morire nel tugurio del mugnaio Soubirous. Era inverno; inverno freddo e squallido, nel borgo esposto alle bufere dei selvaggi Pirenei. Louise Soubirous, la madre di Bernadette, portò sotto il camino la pentola ove usava ogni giorno cuocere il riso della cena. Ma guardò il focolare, e viste mancar le fascine, disse a Maria, la sua figlia minore: - «Esci, Maria; va giù per lungo il fiume, passa il ponte, portami un grembiule ripieno di legna da ardere.»

Ed anche Bernadette allora si alzò, per scendere con la sua minore al fiume. Però la madre disse: - «Rimani con noi, Bernadette. Non senti come il vento fischia dal Pic du Midi?»

La udiva sempre tossire; vedeva i suoi larghi occhi divenir sempre più immobili nel viso emaciato. Poi si era nel mezzo del Febbraio; l'11 Febbraio dell'anno 1858.

Ma Bernadette si avvolse le spalle nel suo logoro scialle di lana fulva e silenziosa camminò dietro la sorella. Fuor del borgo s'incontrarono con Jeanne Abadie, la figlia d'un vicino, che andò con loro.

Scesero. Le Gave de Pau traversava con impetuose onde la dura vallata. Si udiva il rumore del fiume cantare fino al cielo, gonfiarsi, perdersi nell'inverno scintillante. La bianca erba si accendeva di arcobaleni sotto il gelo della brina. I sentieri lungo il fiume, di là, nei boschi, erano deserti. Non un rumore d'animali o d'uomini; dappertutto, a perdita d'occhio, lo squallore silenzioso e fertile dell'inverno. Le tre fanciulle camminavano; giunsero al guado; le prime due passarono; Bernadette restò. Restò presso il fiume, paurosa di mettersi nel guado, e coi suoi grandi occhi d'allucinata guardava la rupe di Massabielle.

Un senso di freddo sgomento l'assalse; non vedeva nemmeno più la sorella, né Jeanne Abadie, che si erano allontanate per la boscaglia dell'altra riva.

Ella sola, con i suoi capelli pieni di vento, con le sue spalle intirizzite sotto lo scialle di lana fulva, era in mezzo a quel grande inverno; il fiume pareva l'assalisse con il suo fragore di ciottoli e di spuma; lontano brillava le Pic du Midi.

E Bernadette guardava la rupe di Massabielle. Rossastra, tutta macigno e ruggine, con ciuffi di rovi, essa entrava nel cuore della vallata, costringendo le Gave de Pau a formare un gomito. A piè della rupe, tra le sue forre, quasi dirimpetto al guado, era una vecchia spelonca, una semplice fenditura nel macigno, non profonda, ma obliqua e buia. I caprifogli selvatici l'ostruivano, e gli spini. V'entravano d'inverno le bestie selvatiche; d'estate, qualche volta, i pastori.

E Bernadette guardava i nudi spini, fioriti per il gelo dell'inverno, simili ad un cespuglio di trina. Forse, nell'anima sua di pascolatrice, tra quel fragore immenso della solitudine, ripensava le praterie di Bartrès, quando, in sul finire d'Aprile, tutto si profumava di mughetti, quando, nel dolce Settembre, la foresta diventava un prato di ciclamini.

Ed anche allora quel fiume leggero correva sotto la catapecchia della povera donna di Bartrès; talvolta pareva l'assalisse con il suo fragore di ciottoli e di spuma. Lontano brillava le Pic du Midi.

E mentre guardava, e mentre quella bianca velocità passava, non fuori di lei, ma in lei, dentro il suo cuore di pascolatrice, le pareva d'esser presa nel guado, sollevata nella forza dell'ondata, percossa dai ciottoli, travolta, come i rami neri che scendevano dalle pinete di Bartrès. Voleva chiamare la sorella, chiamare Jeanne Labadie; ma erano lontane, andate su per il monte a raccogliere fuscelli secchi e sterpi di buona scintilla, per far bollire l'acqua della cena, lassù, nel tugurio del mugnaio Soubirous.

E le pareva ora d'esser lontana da tutti gli uomini, di sentirsi a poco a poco sollevare come da un raggio di sole nell'inverno infinito, e che una voce distante, simile forse a quella del diacono Ader, simile forse alla musica del fiume, andasse cantando per tutta la montagna le parole pronunziate nella basilica dal cantore del Vangelo: - «Bernadette Soubirous è nella grazia del Signore.».

Cadde a ginocchi sul greto selvaggio; in lei passava uno straordinario soffio di amor divino. Era la benedetta, la iniziata, la prescelta; era la sposa del Sublime Possessore; vedeva in Dio, sentiva nel perfetto Bene, aveva il raggio del miracolo ne' suoi capelli pieni di vento. E questo raggio, davanti ai suoi ginocchi, formava una macchia di sole; e questo sole, traverso il guado, brillava come una spada miracolosa; e questa folgore assaliva la spelonca dei caprifogli, dei nudi spini, bruciava tutta la rupe di Massabielle, era un fiocco luminoso, un alone biondo, la fiamma terrestre del Divino amore, la presenza di Dio...

Lontano brillava le Pic du Midi.

Tornarono le due fanciulle, con i grembiuli ricolmi di fuscelli secchi e sterpi di buona scintilla. Mentre ancor stavano su l'altra sponda e s'appressavano al guado, videro Bernadette inginocchiata, con i due polsi in croce su lo scialle di lana fulva, e le gridarono: - «Bernadette, che fai? Lévati! lévati! ora veniamo.»

Posero il piede ignudo sul primo sasso del guado. Ma la Santa di Bartrès non si muoveva.

E passarono su l'acqua, tra le frange di spuma, nel pericolo della bianca velocità, con i grembiuli riversi e gonfi, attente ove mettere il piede. Ora vennero, e le posero la mano su la spalla, e toccarono i suoi capelli pieni di vento, e dissero: - «Lévati! lévati, Bernadette!»

Fine della XX° parte del romanzo.

Buona lettura.


 
 
 

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