CONTROSCENAIl teatro visto da Enrico Fiore |
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In un giorno di luglio del '94 Carlo Croccolo mi raccontò che nell'immediato dopoguerra, studente di medicina, andò a chiedere un posto di lavoro come infermiere agli americani di stanza a Capodichino. E avuta l'assicurazione che glielo davano, lui, tutto contento, corse a procurarsi un camice bianco e si mise in fila con gli altri. Ma, giunto il suo turno, si sentì comunicare che il posto l'aveva preso, sì, ma come radiotelegrafista. Insomma, s'era messo nella fila sbagliata.
Commentò Croccolo, tra il paradosso e l'iperbole surreale: «Ecco come ho scoperto il gusto del travestimento, e quindi la capacità di essere attore. Altro che la proverbiale vocazione, allora: a spingermi a fare questo mestiere fu semplicemente la fame». Ma - nello spettacolo «150 e l'Italia canta», che ha visto l'ottantaseienne Carlo mattatore al Sannazaro - dell'episodio e del commento citati c'era solo l'episodio. E non si tratta di una mancanza casuale.
Il testo - scritto a quattro mani da Carmine Borrino e da Daniela Cenciotti, che è la moglie di Croccolo e firmava pure la regia - pretende inopinatamente di trasformare il protagonista, autentico monumento vivente dello spettacolo italiano scolpito, insieme, nella bravura tecnica e nella simpatia che fa rima con autoironia, in un narratore e, addirittura, in un giudice inflessibile delle vicende capitali (dal fascismo alla Dolce Vita, dal boom economico agli anni di piombo, dall'assassinio di Moro alle stragi del '92) occorse al «Belpaese».
Infatti, qui si finge un battibecco continuo (ma che, per la verità, risulta piuttosto meccanico) fra Croccolo e un'Italia rappresentata da una ragazza belloccia vestita solo del Tricolore: come in una partita di tennis, lui le lancia le accuse relative alle sue tante colpe e carenze («Se non sai chi sono Yves Montand e Arthur Miller, allora te lo meriti tutto, Gigi D'Alessio!») e lei gli rimanda la palla rinfacciandogli, in sintesi, di aver pensato unicamente alla carriera, ai soldi e alle donne.
Allo stesso modo, e non meno meccanicamente, il racconto delle vicende private e professionali del mattatore viene scandito dall'irrompere, nel solco delle affinità tematiche, di alcune delle più note canzoni d'epoca: vedi, tanto per fare un esempio, il ricordo delle vacanze estive a Bagnara Calabra che s'accoppia con «Lu pisci spada» di Modugno. E si chiudeva, al Sannazaro, con Massimo Masiello che al termine arrivava dalla platea per interpretare, naturalmente, «La storia siamo noi» di De Gregori.
Ma il risultato, com'era sin troppo facile prevedere, è che latitavano sia l'analisi storico-politica (che, ovviamente, nessuno si aspettava) sia il divertimento (che, altrettanto ovviamente, tutti noi ci aspettavamo). E non restava che l'assoluta sproporzione fra la carica umana di Croccolo (basterebbe a dimostrarla la sortita: «A questo punto, dobbiamo andare avanti… e io non mi ricordo che cosa mi tocca dire») e il pistolotto finale («Io sono l'espressione della vostra volontà») rivolto al pubblico dall'Italia.
Enrico Fiore
(«Il Mattino», 22 maggio 2013)
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