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La consapevolezza non ci rende diversi se non riusciamo ad accettare la parte umbratile di noi stessi

Post n°13 pubblicato il 15 Settembre 2014 da dagbog
 
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Ci sono persone, contemporanee e non, che si ritengono Maestri di vita. Dalle quali si attinge per trovare conforto e sostegno, comprensione, e quella lucidità necessaria ad interpretare gli eventi, le emozioni che ci turbano, creandoci un disagio esistenziale costante, un "male di vivere" che ci fa sentire spesso infelici, inadeguati.
Per la mia storia personale due, tra i tanti, che accompagnano da molto tempo la mia vita sono il monaco buddista Thích Nhất Hạnh ed il filosofo Umberto Galimberti.
Quest'ultimo tiene settimanalmente una rubrica sul supplemento del sabato de "la Repubblica".
Le considerazioni da lui fatte la settimana appena trascorsa, traggono spunto da una lettera di una giovane ragazza che affronta il problema della solitudine che scaturisce da chiedere troppo a se stessi.
La riporto integralmente.
"Ho ventidue anni. Non riesco a sentirmi in pace con me stessa. In ogni cosa mi trovo divisa tra il reale e l'ideale. Perché il mondo che vedo come nemico e che cerco di negare è anche parte di me. Mi permette di vivere nell'agio e nel piacere. Mi permette di andare all'università, di leggere, di andare al cinema, di mangiare bene. E mentre mi chiedo che cosa ci sia di così sbagliato in tutto questo, dentro di me grida la voce dell'indignazione. La consapevolezza non mi rende diversa. La triste realtà è che sogno quello che mi viene detto di sognare. Mi diverto come mi viene detto di divertirmi. Sto zitta come mi viene detto di fare.
Vorrei essere magra e bella. Vorrei essere sempre al massimo. Vorrei non avere debolezze.
Ho idee precise, che non metto in atto. Credo nella lotta, ma non la applico. Credo nella conoscenza, ma la tengo per me. Credo nell'amore, ma non amo. Credo nella forza del poter essere se stessi, ma provo vergogna.
Rincorro con affanno un senso di appartenenza vero, di cui sento la mancanza, cercando allo stesso tempo di non conformarmi, ma fallendo ogni volta, ricadendo nel desiderio di essere come "loro". Mi sento codarda e incoerente. Omologata e manipolata. In ogni situazione due forze combattono con uguale intensità, senza vincitori. Così me ne sto in disparte, perdendo occasioni e non mettendomi in gioco. Rassegnata già prima di partire. Senza far sentire la mia voce. Ben attenta a non sbagliare mai. Convinta di non poter cambiare le cose, di non poter essere mai felice, di dover continuare a vivere nel compromesso. Alla fine quello che mi resta è solo amarezza. Sono io stessa una parte di quel mondo che disprezzo."

Risponde Umberto Galimberti: "
Un giorno Freud prese a raccontarci una storia interessante, quando scrisse che, oltre al nostro io, esiste anche un ideale dell'io che pone l'io in uno stato di mortificazione rispetto agli ideali che vorrebbe realizzare senza riuscirci. Tutto ciò genera inquietudine, insoddisfazione e in certi casi sensi di colpa.
Ora, avere un ideale in sé è molto utile soprattutto nell'adolescenza e nella giovinezza, per non accontentarsi di quello che si è e cercare di realizzare quell'immagine di noi che ci attrae e che, se la raggiungessimo, ci farebbe sentire realizzati. Quando però l'ideale dell'io fa sentire l'io in uno stato di perenne inferiorità e insufficienza, allora l'ideale dell'io diventa persecutorio e la vita un tormento, se non addirittura una malattia, la malattia di un'identità mancata, per avere posto l'ideale dell'io troppo in alto rispetto alle nostre capacità di realizzarlo. A lavorare, sotto sotto, c'è un'istanza narcisistica che non ci consente di accettarci per ciò che siamo, se non raggiungiamo l'ideale che l'io si è prefissato.
Da questa guerra tutta interna a noi stessi, che ci divora e non ci fa mai sentire soddisfatti dell'esistenza, si esce rinunciando alla perfezione che ci si è autoimposta. Accettando la parte umbratile della nostra personalità, quella di cui non andiamo fieri, quella che vorremmo che nessuno scoprisse, quella che ci fa sentire "punti nel vivo" quando qualcuno ce lo svela.
I rapporti di solidarietà, di amicizia, e direi anche e soprattutto di amore non nascono dalla contemplazione della perfezione, perché la perfezione ci fa apparire inespressivi e al limite inaccettabili, come pietre preziose dietro il vetro trasparente e blindato di una gioielleria. La perfezione non facilita la relazione, e siccome degli altri abbiamo bisogno perché siamo animali sociali, rendiamoci accessibili mostrando il lato umbratile della nostra personalità, come nei quadri, dove nessuna immagine potrebbe configurarsi senza i contorni dell'ombra.
Nella disperata ricerca di una nostra identità collocata là dove i nostri ideali, tiranneggiandoci, vorrebbero che fossimo e ancora non siamo, dimentichiamo infatti che la nostra identità non possiamo costruirla da soli, perché a formarla è solo il riconoscimento che ci perviene dagli altri, esattamente come i lineamenti del nostro volto che lo specchio non ci restituisce, mentre ce li restituisce lo sguardo indifferente di un narcisista, quello feroce di un nemico, quello intenso e incantato di un innamorato. E se è vero che non noi, ma gli altri costruiscono la nostra identità, esponiamoci al mondo per quello che siamo, lasciandoci modificare da tutti gli incontri, evitando di cercare noi stessi in quella guerra inutile tra l'io e il suo ideale che ci isola dagli altri, e non ci fa approdare se non in quella terra desolata e solitaria, dove a farci compagnia è solo la nostra insoddisfazione."

Nota a margine. Oggi è il ventunesimo anniversario dell'omicidio di Don Pino Puglisi. In una città come Palermo, che celebra l'anniversario domandandosi come sia stato possibile che un tale sacrificio sia avvenuto invano, nulla essendo cambiato da allora, queste parole sono uno strumento per aiutare a comprendere lo spirito di molti palermitani che hanno vissuto e vivono in questa città disgraziata.

 
 
 
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