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Post n°1596 pubblicato il 12 Maggio 2012 da giacomoalpini
 

 

 

L' incontro tra il Gigante Morgante ed il Mezzo Gigante Margutte. Vale la pena leggerlo.

 



Giunto Morgante un dì in su 'n un crocicchio,
uscito d'una valle in un gran bosco,
vide venir di lungi, per ispicchio,
un uom che in volto parea tutto fosco.
Dètte del capo del battaglio un picchio
in terra, e disse: «Costui non conosco»;
e posesi a sedere in su 'n un sasso,
tanto che questo capitòe al passo.

Morgante guata le sue membra tutte
più e più volte dal capo alle piante,
che gli pareano strane, orride e brutte:
- Dimmi il tuo nome, - dicea - vïandante. -
Colui rispose: - Il mio nome è Margutte;
ed ebbi voglia anco io d'esser gigante,
poi mi penti' quando al mezzo fu' giunto:
vedi che sette braccia sono appunto. -

Disse Morgante: - Tu sia il ben venuto:
ecco ch'io arò pure un fiaschetto allato,
che da due giorni in qua non ho beuto;
e se con meco sarai accompagnato,
io ti farò a camin quel che è dovuto.
Dimmi più oltre: io non t'ho domandato
se se' cristiano o se se' saracino,
o se tu credi in Cristo o in Apollino. -

Rispose allor Margutte: - A dirtel tosto,
io non credo più al nero ch'a l'azzurro,
ma nel cappone, o lesso o vuogli arrosto;
e credo alcuna volta anco nel burro,
nella cervogia, e quando io n'ho, nel mosto,
e molto più nell'aspro che il mangurro;
ma sopra tutto nel buon vino ho fede,
e credo che sia salvo chi gli crede;

e credo nella torta e nel tortello:
l'uno è la madre e l'altro è il suo figliuolo;
e 'l vero paternostro è il fegatello,
e posson esser tre, due ed un solo,
e diriva dal fegato almen quello.
E perch'io vorrei ber con un ghiacciuolo,
se Macometto il mosto vieta e biasima,
credo che sia il sogno o la fantasima;

ed Apollin debbe essere il farnetico,
e Trivigante forse la tregenda.
La fede è fatta come fa il solletico:
per discrezion mi credo che tu intenda.
Or tu potresti dir ch'io fussi eretico:
acciò che invan parola non ci spenda,
vedrai che la mia schiatta non traligna
e ch'io non son terren da porvi vigna.

Questa fede è come l'uom se l'arreca.
Vuoi tu veder che fede sia la mia?,
che nato son d'una monaca greca
e d'un papasso in Bursia, là in Turchia.
E nel principio sonar la ribeca
mi dilettai, perch'avea fantasia
cantar di Troia e d'Ettore e d'Achille,
non una volta già, ma mille e mille.

Poi che m'increbbe il sonar la chitarra,
io cominciai a portar l'arco e 'l turcasso.
Un dì ch'io fe' nella moschea poi sciarra,
e ch'io v'uccisi il mio vecchio papasso,
mi posi allato questa scimitarra
e cominciai pel mondo andare a spasso;
e per compagni ne menai con meco
tutti i peccati o di turco o di greco;

anzi quanti ne son giù nello inferno:
io n'ho settanta e sette de' mortali,
che non mi lascian mai lo state o 'l verno;
pensa quanti io n'ho poi de' venïali!
Non credo, se durassi il mondo etterno,
si potessi commetter tanti mali
quanti ho commessi io solo alla mia vita;
ed ho per alfabeto ogni partita.

Non ti rincresca l'ascoltarmi un poco:
tu udirai per ordine la trama.
Mentre ch'io ho danar, s'io sono a giuoco,
rispondo come amico a chiunque chiama;
e giuoco d'ogni tempo e in ogni loco,
tanto che al tutto e la roba e la fama
io m'ho giucato, e' pel già della barba:
guarda se questo pel primo ti garba.

Non domandar quel ch'io so far d'un dado,
o fiamma o traversin, testa o gattuccia,
e lo spuntone, e va' per parentado,
ché tutti siàn d'un pelo e d'una buccia.
E forse al camuffar ne incaco o bado
o non so far la berta o la bertuccia,
o in furba o in calca o in bestrica mi lodo?
Io so di questo ogni malizia e frodo.

La gola ne vien poi drieto a questa arte.
Qui si conviene aver gran discrezione,
saper tutti i segreti, a quante carte,
del fagian, della stama e del cappone,
di tutte le vivande a parte a parte
dove si truovi morvido il boccone;
e non ti fallirei di ciò parola,
come tener si debba unta la gola.

S'io ti dicessi in che modo io pillotto,
o tu vedessi com'io fo col braccio,
tu mi diresti certo ch'io sia ghiotto;
o quante parte aver vuole un migliaccio,
che non vuole essere arso, ma ben cotto,
non molto caldo e non anco di ghiaccio,
anzi in quel mezzo, ed unto ma non grasso
(pàrti ch'i' 'l sappi?), e non troppo alto o basso.

Del fegatello non ti dico niente:
vuol cinque parte, fa' ch'a la man tenga:
vuole esser tondo, nota sanamente,
acciò che 'l fuoco equal per tutto venga,
e perché non ne caggia, tieni a mente,
la gocciola che morvido il mantenga:
dunque in due parte dividiàn la prima,
ché l'una e l'altra si vuol farne stima.

Piccolo sia, questo è proverbio antico,
e fa' che non sia povero di panni,
però che questo importa ch'io ti dico;
non molto cotto, guarda non t'inganni!
ché così verdemezzo, come un fico
par che si strugga quando tu l'assanni;
fa' che sia caldo; e puoi sonar le nacchere,
poi spezie e melarance e l'altre zacchere.

Io ti darei qui cento colpi netti;
ma le cose sottil, vo' che tu creda,
consiston nelle torte e ne' tocchetti:
e' ti fare' paura una lampreda,
in quanti modi si fanno i guazzetti;
e pur chi l'ode poi convien che ceda:
perché la gola ha settantadue punti,
sanza molti altri poi ch'io ve n'ho aggiunti.

Un che ne manchi, è guasta la cucina:
non vi potrebbe il Ciel poi rimediare.
Quanti segreti insino a domattina
ti potrei di questa arte rivelare!
Io fui ostiere alcun tempo in Egina,
e volli queste cose disputare.
Or lasciàn questo, e d'udir non t'incresca
un'altra mia virtù cardinalesca.

Ciò ch'io ti dico non va insino all'effe:
pensa quand'io sarò condotto al rue!
Sappi ch'io aro, e non dico da beffe,
col cammello e coll'asino e col bue;
e mille capannucci e mille gueffe
ho meritato già per questo o piùe;
dove il capo non va, metto la coda,
e quel che più mi piace è ch'ognun l'oda.

Mettimi in ballo, mettimi in convito,
ch'io fo il dover co' piedi e colle mani;
io son prosuntüoso, impronto, ardito,
non guardo più i parenti che gli strani:
della vergogna, io n'ho preso partito,
e torno, chi mi caccia, come i cani;
e dico ciò ch'io fo per ognun sette,
e poi v'aggiungo mille novellette.

S'io ho tenute dell'oche in pastura
non domandar, ch'io non te lo direi:
s'io ti dicessi mille alla ventura,
di poche credo ch'io ti fallirei;
s'io uso a munister per isciagura,
s'elle son cinque, io ne traggo fuor sei:
ch'io le fo in modo diventar galante
che non vi campa servigial né fante.

Or queste son tre virtù cardinale,
la gola e 'l culo e 'l dado, ch'io t'ho detto;
odi la quarta, ch'è la principale,
acciò che ben si sgoccioli il barletto:
non vi bisogna uncin né porre scale
dove con mano aggiungo, ti prometto;
e mitere da papi ho già portate,
col segno in testa, e drieto le granate.

E trapani e paletti e lime sorde
e succhi d'ogni fatta e grimaldelli
e scale o vuoi di legno o vuoi di corde,
e levane e calcetti di feltrelli
che fanno, quand'io vo, ch'ognuno assorde,
lavoro di mia man puliti e belli;
e fuoco che per sé lume non rende,
ma con lo sputo a mia posta s'accende.

S' tu mi vedessi in una chiesa solo,
io son più vago di spogliar gli altari
che 'l messo di contado del paiuolo;
poi corro alla cassetta de' danari;
ma sempre in sagrestia fo il primo volo,
e se v'è croce o calici, io gli ho cari,
e' crucifissi scuopro tutti quanti,
poi vo spogliando le Nunziate e' santi.

Io ho scopato già forse un pollaio;
s' tu mi vedessi stendere un bucato,
diresti che non è donna o massaio
che l'abbi così presto rassettato:
s'io dovessi spiccar, Morgante, il maio,
io rubo sempre dove io sono usato;
ch'io non istò a guardar più tuo che mio,
perch'ogni cosa al principio è di Dio.

Ma innanzi ch'io rubassi di nascoso,
io fui prima alle strade malandrino:
arei spogliato un santo il più famoso,
se santi son nel Ciel, per un quattrino;
ma per istarmi in pace e in più riposo,
non volli poi più essere assassino;
non che la voglia non vi fussi pronta,
ma perché il furto spesso vi si sconta.

Le virtù teologiche ci resta.
S'io so falsare un libro, Iddio tel dica:
d'uno iccase farotti un fio, ch'a sesta
non si farebbe più bello a fatica;
e traggone ogni carta, e poi con questa
raccordo l'alfabeto e la rubrica,
e scambiere'ti, e non vedresti come,
il titol, la coverta e 'l segno e 'l nome.

I sacramenti falsi e gli spergiuri
mi sdrucciolan giù proprio per la bocca
come i fichi sampier, que' ben maturi,
o le lasagne, o qualche cosa sciocca;
né vo' che tu credessi ch'io mi curi
contro a questo o colui: zara a chi tocca!
ed ho commesso già scompiglio e scandolo,
che mai non s'è poi ravvïato il bandolo.

Sempre le brighe compero a contanti.
Bestemmiator, non vi fo ignun divario
di bestemmiar più uomini che santi,
e tutti appunto gli ho in sul calendario.
Delle bugie nessun non se ne vanti,
ché ciò ch'io dico fia sempre il contrario.
Vorrei veder più fuoco ch'acqua o terra,
e 'l mondo e 'l cielo in peste e 'n fame e 'n guerra.

E carità, limosina o digiuno,
orazïon non creder ch'io ne faccia.
Per non parer provàno, chieggo a ognuno,
e sempre dico cosa che dispiaccia;
superbo, invidïoso ed importuno:
questo si scrisse nella prima faccia;
ché i peccati mortal meco eran tutti
e gli altri vizi scelerati e brutti.

Tanto è ch'io posso andar per tutto 'l mondo
col cappello in su gli occhi, com'io voglio;
com'una schianceria son netto e mondo;
dovunque i' vo, lasciarvi il segno soglio
come fa la lumaca, e nol nascondo;
e muto fede e legge, amici e scoglio
di terra in terra, com'io veggo o truovo,
però ch'io fu' cattivo insin nell'uovo.

Io t'ho lasciato indrieto un gran capitolo
di mille altri peccati in guazzabuglio;
ché s'i' volessi leggerti ogni titolo,
e' ti parrebbe troppo gran mescuglio;
e cominciando a sciòrre ora il gomitolo,
ci sarebbe faccenda insino a luglio;
salvo che questo alla fine udirai:
che tradimento ignun non feci mai. -

Luigi Pulci, Morgante, Cantare Decimottavo, 112-142.

 

 

 

 
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