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« TraduzioneSU PADRE PIO »

LA SCELTA (4)

Post n°67 pubblicato il 02 Dicembre 2015 da giulio.stilla

 

LA SCELTA E LA FILOSOFIA DI SOREN KIERKEGAARD  (4)

 

Nasce così la scelta religiosa, il terzo stadio esistenziale; nasce il dono della fede e l'abbandono alla preghiera, in virtù delle quali l'uomo religioso combatte e supera

 l'angoscia e la disperazione, che sono due delle molteplici situazioni d'animo  tipiche dell'esistenza umana: causata, la prima,  dalla coscienza della propria limitatezza, esposta alle possibilità più negative e indeterminate; la seconda, originata dall'assenza di ogni speranza e caratterizzata da uno stato di forte inquietudine.

L'angoscia, argomenta Kierkegaard nella sua opera, "Il concetto dell'angoscia", è strettamente legata al sentimento del possibile, che nella sua assoluta indeterminatezza ed onnipotenza getta l'uomo in uno stato di ansia e di paura non per quello che già è accaduto, ma per quello che potrebbe accadere.

La categoria della possibilità riguarda il futuro e non il passato o il presente, perché quello che è già accaduto non suscita angoscia. Può provocare pentimento. rammarico, sofferenza, ma non angoscia, che insorge nell'animo umano in maniera irrazionale e imprevedibile. Anche quando abbiamo fatto con "accortezza" tutti i calcoli, abbiamo preso tutte le cautele, irrompe l'angoscia, perché essa appartiene alla dimensione 'uomo'. Soltanto gli animali non hanno angoscia, perché il loro grado di consapevolezza di esistere è così inesistente che non fanno progetti e non vivono l'attesa di ciò che si potrebbe verificare.

L'angoscia appartiene all'Umanità. Appartiene alla Umanità di Gesù Cristo, che non ha angoscia nel momento della crocifissione, quando geme e "grida a gran voce: Elì. Elì, lemà sabactàni ?, che significa: Dio mio,  Dio mio, perché mi hai abbandonato?" (Matteo, 27, 45-46).

In questi momenti, ha soltanto sofferenza, che è diversa dall'angoscia che occupa l'animo di Cristo, quando, nell'orto di Getsemani, ossia nell'Orto degli Ulivi, così come spiega Kierkegaard sempre nel Concetto dell'angoscia, si rivolge a Giuda, dicendogli: "Ciò che tu fai, affrettalo!".

L'angoscia regna sovrana e incontrastata nel regno delle possibilità che sono infinite, ma basta pensare a una sola possibilità negativa, perché tutte le altre, per quanto positive e favorevolmente promettenti, vengano angosciosamente vanificate ed annientate. Nello stesso regno delle possibilità alligna come un'erba tossica e mortale la disperazione, la quale, a differenza dall'angoscia, generata dal rapporto che l'uomo stabilisce tra sé e il mondo, si origina dal rapporto che l'Io instaura con se stesso.  

La disperazione è una situazione spirituale che riguarda la struttura interiore dell'uomo. Viene analizzata dal filosofo in due aspetti diversi, ma sempre radicati nel modo di essere dell'io. Esiste la disperazione che scaturisce dalla deficienza di necessità, come quando il proprio "io" vola libero nelle zone della fantasia e dell'immaginazione, senza alcun legame con la realtà. Oserei dire che è l'evasione tipica di che resta vittima della droga. Nel tentativo impossibile di essere autosufficiente, ci si consegna alla fuga verso il miraggio, nell'evanescenza del proprio io, che smarrisce se stesso nel dominio della non speranza.

Esiste poi la disperazione che si origina dalla deficienza di libertà. Cioè, nel tentativo di voler essere quello che non si è, si urta contro se stesso, contro quello che si è. E' la tipica situazione psicologica di chi non si accetta finito e non autosufficiente e, nel desiderio irrefrenabile di voler essere altro da sé, si dispera nell'impossibilità.

La disperazione è la malattia mortale di cui parla Kierkegaard nella sua opera fondamentale che porta, per l'appunto, il titolo programmatico "La Malattia Mortale", che nasce e si sviluppa, in particolare, quando non è contrastata dalla Fede, perché per il filosofo la fede è l'unico antidoto efficace per superare l'angoscia e la disperazione, due facce della stessa medaglia, due componenti della struttura spirituale dell'uomo.

Ci piaccia o non ci piaccia, credenti o non credenti, tutti dobbiamo misurarci con la nostra interiorità. Si assiste spesso all'atteggiamento dell'uomo che coltiva l'ironia, ironia graffiante, in virtù della quale finisce per non considerare tutti gli enti finiti, ma infinitizza il proprio "io". Una operazione assolutamente sbagliata per il Cristiano, perché è il tipico convincimento di chi tenta di essere autosufficiente ed assoluto e precipita poi, come si è detto, nella impossibilità di esserlo e, quindi, nella disperazione.

L'uomo di fede, invece, considerando le cose finite sempre come mezzi e mai come fini, non eleva nemmeno se stesso, il proprio io, a soggetto assoluto ed infinito e, riconoscendo la propria insufficienza, si fa dipendere da Colui al Quale tutto è possibile. E' l'atteggiamento tipico di chi dispone di un grande senso di humor, in virtù del quale svuota di significato ultimo tutti gli enti finiti, sorride di essi e di se stesso si consegna all'unico Ente Assoluto, perché capisce con ragione e crede con fede, sincera e determinata, che con Lui soltanto e per mezzo di Lui può salvare la sua esistenza.

Non è questa, però, la posizione autentica di Kierkegaard, che, come Biagio Pascal, non affida alla ragione, sia pure "umoristica", la sede della fede che "è un dono di dio e non di un ragionamento" (Pascal, Pensieri, 279).

Per il filosofo di Copenhagen la fede è un mistero, che come tale spesso si presenta come assurdità, scandalo, contraddizione e paradosso e fa dire al credente, nonostante tutto : "Credo" e non già "Scio" (Pascal. Pensieri, 248).  Tertulliano.

La figura più plastica e rappresentativa del carattere scandaloso e paradossale della fede è quella di Abramo, che ubbidisce al comando divino di salire sul monte e di sacrificare a Dio il figlio Isacco, il suo unico figlio, in netto contrasto con le leggi di natura e le leggi morali. Ma interviene per tempo l'Angelo di Dio che gli ingiunge: "Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male. Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato il tuo unico figlio". (Genesi, 22, 12).$$$$$$$$$$$$$$$$$

A dire il vero, tutti gli articoli di fede, le sue categorie fondamentali, non sono pensabili sul piano della logica, del puro ragionamento. E' assurdo e scandaloso che il figlio di Dio si faccia uccidere sulla Croce. E' assurdo e contraddittorio sul piano logico che il Dio dell'Amore possa permettere l'esistenza del Male nel mondo. E' assurdo, impensabile e contraddittorio che il Dio della Misericordia possa consentire il ripetersi scandaloso delle stragi degli innocenti. Ma nonostante tutto questo, l'uomo di fede crede e si rifugia nel seno di Dio, perché la fede è, si, mistero, ma è anche consolazione, conforto, redenzione, libertà dal male, dall'angoscia e dalla disperazione.

Il Cristianesimo - riflette ancora Kierkegaard -  insegna il senso dell'esistenza, perché come la fede anche l'esistenza è "assurdità", "contraddizione" e "scandalo". Quanto più ci si rifugia nella fede, tanto più s'impara a vivere l'esistenza. Quanto più si ricorre alla preghiera, tanto più abbiamo la inserzione di Dio nel Mondo, nel Tempo, nella Storia, nell'Umano. Sembra proprio che Dio ami talmente il mondo e le sue creature da riporre nel rispetto illimitato per la libertà dell'uomo, creato a sua immagine, il rischio della non scelta della fede ossia la libera iniziativa di non pregare per vincere ed abbattere la presenza del Male fra gli uomini. In altri termini, Dio per il filosofo danese non sarebbe soltanto una grande Epifania di Amore, ma si manifesterebbe altresì tramite la scelta libera dell'uomo, connessa alla sua ragione e alla sua responsabilità, e tramite la preghiera connessa al dono della fede.

 Se Dio non avesse voluto correre questo rischio, il rischio cioè della libertà dell'uomo, non Gli sarebbe mancata la capacità di predeterminare la sua condotta attraverso un sistema di regole, che avrebbero sacrificato non solo la sua libertà, ma anche la sua moralità e la sua responsabilità nel saper discernere il bene dal male. Se Dio non ci avesse creato assolutamente liberi, non ci sarebbero stati né i credenti né i non credenti, né la scelta del bene né la scelta del male, né la ragione né il fanatismo assassino del nostro tempo.

Pe compensare, però, questo rischio della libertà, ci ha dato il cuore che è l'organo della preghiera e della fede, anche se, molto spesso, capita di assistere al sopravvento dell'odio sull'amore, della morte sulla vita, della follia demoniaca sullo spirito del Mondo. " Ora il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo e gli uomini hanno amato le tenebre piú che la luce, perché le loro opere erano malvagie" (Giov. III, 19).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 
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