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Origin Realism [ corrente di pensiero in fase evolutiva ] by A. Mazzuoli in arte Ghiberti

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A Venezia nasce l’edificio del futuro

Post n°115 pubblicato il 28 Aprile 2011 da katarealismo
 

A Venezia nasce l’edificio del futuro, completamente autonomo nella funzionalità ed autosufficiente per gli approvvigionamenti
News

Fonte: Sorgenia http://www.sorgenia.it/
È “off-grid” Laguna di Venezia, isola La Certosa: qui nasce un progetto per rivoluzionare gli edifici in cui viviamo e il modo in cui si alimentano.
Come? Staccandoli dalla rete, rendendoli off-grid. Il progetto è mirato alla riqualificazione di alcune costruzioni già esistenti, in modo da portarle alla massima compatibilità ambientale, anche grazie all’impiego esclusivo di materiali naturali.
Il restauro prevede la costruzione di una parete a due livelli, con quello più interno realizzato a partire dai resti dell’edificio pre-esistente. La struttura garantirà elevato isolamento termico e acustico, e sarà in tutto e per tutto autosufficiente, non collegata ad alcuna rete ma ugualmente in grado di gestire i normali fabbisogni di energia, gas, acqua, reflui, connettività e così via.
In pratica, l’edificio scambia con l’ecosistema che lo circonda soltanto sole, vento e pioggia, senza consumare altre risorse né, ovviamente, inquinare. Un prototipo di casa del futuro, dal nucleo multifunzionale che sfrutta l’elettrolisi per la produzione dell’idrogeno e i bacini sotterranei per la raccolta delle acque piovane, è munito di dispositivi di solar cooling, ha un sistema chiuso di recupero e depurazione delle acque reflue e una connessione in banda larga tramite ponte radio.
L’approvvigionamento energetico è garantito da dispositivi fotovoltaici e solari termici integrati sulla superficie e dislocati in alcune aree dell’isola, così come microturbine eoliche e impianti geotermici. Un progetto che rappresenta un vero e proprio sistema, domani applicabile anche a una città o a un intero territorio.

 
 
 

Post N° 114

Post n°114 pubblicato il 28 Aprile 2011 da katarealismo
 
Foto di katarealismo

Dal sito: http://www.ariannaeditrice.it/

Un connubio di tecnologia ed innovazione architettonica rende il Nuovo Rifugio Monte Rosa, struttura turistica montana, campione di sostenibilità ambientale ed efficienza energetica. Materiali ecocompatibili, pannelli solari e termodinamici, controllo integrato, massima autonomia per acqua ed energia. Queste le principali caratteristiche dell'edificio montano.

Quest’anno le splendide vette del Monte Rosa offrono agli amanti della montagna un’opportunità di vacanza ecosostenibile. La scorsa primavera è stato infatti inaugurato il Neue Monte Rosa Hutte, un grande rifugio dall’architettura spettacolare che si distingue per risparmio energetico e ottimizzazione dell’uso delle risorse.

Dall’esterno si presenta come un cristallo di roccia multisfaccettato e brillante (per riflessione della luce). Costruito in sostituzione di un vecchio rifugio tradizionale, oltre ad essere ampio ed esteticamente bello, esso è soprattutto un concentrato di tecnologia avanguardistica, posta al servizio dell’ambiente.

Il progetto, concepito nel 2003, è stato sviluppato dall’EPFZ(École Polytechnique fédérale) di Zurigo in collaborazione con il Club Alpino Svizzero e l’Università di Lucerna.

Si tratta di un edificio di cinque piani, saldato alla roccia da profonde fondamenta in acciaio; la struttura poliedrica non regolare (che segue moderni dettami stilistici) è rivestita da un involucro metallico mentre all’interno è stato fatto largo uso di legno, soprattutto per ricreare l’atmosfera calda ed accoglientedi un rifugio montano.

Si tratta di un edificio di cinque piani, saldato alla roccia da profonde fondamenta in acciaio; la struttura poliedrica non regolare (che segue moderni dettami stilistici) è rivestita da un involucro metallico mentre all’interno è stato fatto largo uso di legno, soprattutto per ricreare l’atmosfera calda ed accoglientedi un rifugio montano.

Secondo i dati forniti dagli autori del progetto, il Nuovo Rifugio Monte Rosa emetterà tre volte meno gas serra per pernottamento rispetto a quello ivi collocato in precedenza e sarà quasi del tutto autonomo.

nuovo rifugio monte rosa
L'edificio emetterà tre volte meno gas serra per il pernottamento rispetto a quello ivi collocato in precedenza

Il 90% dell’energia richiesta è ricavata dal sole, infatti la facciata sud è completamente coperta da pannelli solari e fotovoltaici. L’energia in eccesso viene accumulata in batterie, così da poter essere impiegata durante la notte e nei giorni di cielo più coperto. Quella supplementare (o a cui ricorrere in caso di emergenza) sarà fornita da una centrale a cogenerazione.

Il tutto è controllato da centraline che, sulla base di dati relativi al periodo dell’anno, alle condizioni climatiche e al numero di turisti presenti nella struttura, gestiscono la regolazione della temperatura degli ambienti e dell’acqua, nonché il funzionamento dei dispositivi elettrici ed elettronici, al fine di garantire sempre lamassima efficienza e il minor spreco di risorse.

Il gas necessario per l’alimentazione delle cucine è invece rifornito periodicamente tramite elicottero. Anche riguardo a questo, però, in futuro potrebbero essere proposte soluzioni alternative.

L’approvvigionamento d’acqua è basato sull’uso della neve e dei ghiacciai circostanti. Una riserva viene raccolta nel periodo estivo e immagazzinata in cisterne (sotterranee), nelle quali è mantenuta a temperatura non troppo bassa, così da garantire la presenza di acqua corrente (cioè, quindi, allo stato liquido) anche nei periodi di maggior freddo.

Tutte le apparecchiature sono concepite in modo tale dalimitare l’uso di acqua e di energia e i liquidi reflui recuperabili sono impiegati per gli sciacquoni.

Da sottolineare è il fatto che la sostenibilità del progetto si estende anche al di là dei confini temporali dell’attività del rifugio. Infatti, prima di tutto, già in fase di costruzione il cantiere è stato realizzato in modo tale da ridurre l’impatto ambientale delle operazioni e dei trasporti. Per altro, per velocizzare le operazioni di messa in posa, la maggior parte delle strutture sono state prefabbricate (utilizzando moderni macchinari a controllo digitale) e poi installate sul luogo.

Non solo, i materiali impiegati sono in larga parte riciclabili o facilmente smaltibili e non emettono nell’atmosfera o nel suolo sostanze nocive.

Se l’attenzione all’ambiente è stata il motore del progetto e il fulcro intorno al quale l’edificio è stato sviluppato, il team di ingegneri e architetti che ha concepito il rifugio non ha trascuratol’estetica e la cura dei dettagli stilistici.

Al piano terra è collocata un’ampia sala da pranzo, divisa in varie aree raccolte e nicchie dalle quali, grazie ad enormi finestre collocate lungo tutta la facciata, è possibile ammirare lo spettacolare panorama alpino. L’edificio campeggia, infatti, su una spianata a 2883 metri d’altezza, tra i ghiacciai del Gren, del Gornez e del Monte Rosa, nel cuore di un paesaggio montano quiete e incontaminato.

scale rifugio monte rosa
Il rifugio ha le carte in regola per soddisfare esigenze tanto di comfort e piacere, quanto di sostenibilità ed ecologismo

Le finestre si arrampicano anche ai piani successivi intorno alle scale che, snodandosi come un serpente lungo la parte esterna dell’edificio, permettono agli avventori di godere di molteplici emeravigliosi punti di vista. Molto più sobri invece gli infissi delle stanze che punteggiano qua e là le pareti: piccoli e apribili, consentono di riprodurre il carattere da baita che ci si aspetta da un rifugio di montagna.

Con questo cocktail ben bilanciato di modernità e tradizione, il rifugio ha le carte in regola per soddisfare esigenze tanto di comfort e piacere, quanto di sostenibilità ed ecologismo. Per tali meriti, nel 2009 il progetto ha vinto l’Holcim Award (Bronze Europe), premio internazionale volto a riconoscere il valore di edifici di nuova concezione che siano in grado di conciliare attenzione all’ambiente, innovazione e valore economico.

Il costo dell’edificio è stato di 5,7 milioni di franchi svizzeri (ossia circa 4,6 milioni di euro) per una capienza massima di 120 ospiti. Numerosi sponsor svizzeri hanno sostenuto economicamente il progetto. L’edificio, ormai consegnato al suo destino di struttura turistica, resta comunque base per studi universitari su domotica, efficienza energetica ed autonomia. Del resto la ricerca in tal campo è nel pieno del suo sviluppo e le aspettative sono alte.

Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

 
 
 

COLTIVAZIONI IN CONDIZIONI DI SCARSITÀ D’ACQUA

Post n°113 pubblicato il 08 Aprile 2011 da katarealismo
 
Foto di katarealismo

Dal sito: http://www.h2omilano.org/blog/2008/06/

Varietà di mais che per crescere necessitano di un minimo apporto di acqua. Oppure pomodori o riso in grado di assorbire l’acqua con molta più parsimonia della media: è uno dei settori in cui sono più impegnati gli scienziati nel mondo e di questo, e in generale dell’industria dell’agricoltura come possibile motore per la crescita e la ricchezza dell’Africa, si è parlato nel corso dell’Agroforum 2008 promosso dalla EMRC (Expanding business linkages worldwide) e dalla Fao, in cui 25 Paesi si sono dati appuntamento dal 18 al 20 giugno per discutere dell’aumento della domanda di cibo (e del consequenziale aumento dei prezzi a livello globale), della necessità di un’agricoltura che utilizzi paradigmi differenti e di scarsità dell’acqua. Nel mondo, infatti, il 70 per cento dell’utilizzo idrico è destinato al settore agricolo. E se in Europa c’è una disponibilità media per ogni cittadino di 150 litri d’acqua al giorno, in Africa si fa fatica ad arrivare ai 10 litri giornalieri. Sempre nel Continente Nero le famiglie spendono circa il 10 per cento del proprio introito complessivo nell’acqua, laddove in occidente il consumo è quasi gratuito.

COLTIVAZIONI IN CONDIZIONI DI SCARSITÀ D’ACQUA – In questo contesto la ricerca è da tempo impegnata nello sviluppo di piante tolleranti alla malattie e bisognose di meno acqua. Durante la conferenza dell’EMRC Jennifer Thompson in rappresentanza del direttore dell’African Agriculture Technology Foundation, Mpoko Bokanga, ha presentato una nuova varietà di mais che, diversamente dalle specie note che hanno un fabbisogno idrico altissimo, necessita di pochissima acqua. E considerato che in Africa l’80 per cento del consumo di mais è destinato all’alimentazione umana, la scoperta potrebbe avere un impatto molto significativo.

ARABIDOPSIS THALIANA – Ma su questo fronte di ricerca – piante poco assetate – è attiva anche l’Italia. I ricercatori del Dipartimento di Scienze Biomolecolari e Biotecnologie dell’Università degli Studi di Milano, coordinati da Chiara Tonelli, si occupano infatti dello studio di geni che regolano la risposta delle piante alla siccità e all’alta salinità nel terreno, con lo scopo di migliorare la tolleranza a questi stress. «Le sperimentazioni sono iniziate sulla pianta Arabidopsis thaliana (di cui è stato sequenziato il Dna), che possiede una serie di vantaggi ideali: piccole dimensioni, ciclo vitale breve (circa sei settimane), elevata produttività di semi (fino a 10mila semi per pianta), ridotte dimensioni del genoma. Successivamente sono stati isolati alcuni geni deputati alla gestione di una serie di processi e tra questi ne sono stati scelti due in particolare che, se espressi, diventano cruciali nella risposta alla carenza idrica», spiega l’esperta. Un gene permette alla pianta di crescere in terreni ricchi di sale, l’altro gene consente di assorbire il 30 per cento in meno d’acqua durante la crescita. I primi risultati del trasferimento alla coltivazione della tecnologia messa a punto sul modello sono promettenti: l’obiettivo è trasferire in piante come riso e pomodoro le conoscenze acquisite sulla Arabidopsis thaliana.

IL FUTURO DELLA SCIENZA – Di questo tema si tornerà a parlare a Venezia, dal 24 al 27 settembre, nel corso del Convegno The Future of Science. dedicato all’acqua e al cibo (Food and water for Life) durante il quale verranno divulgati importanti dati sul tema e verranno raccontate recenti scoperte che vanno proprio nella direzione dello sviluppo di piante resistenti alla siccità.

Da “Corriere della sera”

 
 
 

Albero di Acacia nel deserto roccioso

Post n°112 pubblicato il 08 Aprile 2011 da katarealismo
 
Foto di katarealismo

Albero di Acacia nel deserto roccioso

Super Safari - Albero di Acacia, unico così grande in tutto il deserto roccioso. Detto anche "Albero del Diavolo" perchè vive da solo nel deserto e perchè si tratta di un albero completamente spinoso, anche nella parte verde, infatti con tali rami è stata costruita la corona di Gesù. Sotto di esso si nasconde poi la "Vipera cornuta", serpente più velenoso al mondo e di cui non esiste ancora una cura per la salvezza, a parte l'amputazione della parte in questione
 
 
 

Gli alberi salveranno l’Africa dal deserto

Post n°111 pubblicato il 08 Aprile 2011 da katarealismo
 
Tag: natura
Foto di katarealismo

Gli alberi salveranno l’Africa dal deserto?

384mila alberi per fermare il mare e fissare le dune di sabbia che stanno avanzando verso Nouakchott. E’ questa “l’idea audace” che le autorità della Mauritania intendono attuare nei prossimi anni allo scopo di salvare la capitale, stretta tra l’oceano da un lato e il deserto dall’altro, come spiega oggi il sito di ‘Radio France Internationale’ (Rfi). In base al piano, ben 726 ettari di terreno saranno destinati esclusivamente all’impiantazione di nuovi alberi, 200mila entro la fine dell’anno, per rafforzare la cintura verde di Nouakchott.

Secondo il coordinatore del Programma speciale di protezione della città di Nouakchott, Diakité Bamoudi, si tratta di un vero e proprio imperativo. “La città è minacciata. Abbiamo l’avanzata delle dune e il rischio di inondazioni dal mare“, ha spiegato Bamoudi, ricordando che il Paese ha già attuato con successo diversi programmi di questo genere, realizzati con la collaborazione di “molti ricercatori e con il patrocinio della Fao”. Sono ben 25 le ong al lavoro in Mauritania allo scopo di fermare l’avanzata del deserto. Dal canto suo lo Stato ha ingaggiato oltre mille guardiani per vigilare sull’andamento dei lavori.

Il programma per la salvaguardia della capitale si inscrive nel quadro del più ampio progetto della ‘Grande Muraglia Verde’, inaugurato nel 2005 dall’Unione africana e il cui scopo è quello di creare una barriera arborea lunga 7000 chilometri e larga 15, che si estenderà dal Senegal a Gibuti.

 
 
 

Fotovoltaico per seminare nel deserto

Post n°110 pubblicato il 07 Aprile 2011 da katarealismo
 
Foto di katarealismo

La popolazione Saharawi vive di soli aiuti umanitari, anche se una piccola economia informale ha negli ultimi anni preso piede con enormi difficoltà. In occasione dell’VIII edizione della Sahara Marathon, evento sportivo di solidarietà internazionale, ISES ITALIA e CIRPS-Università “La Sapienza” di Roma, hanno collaborato, nel deserto dei Campi Profughi Saharawi in Algeria, per realizzare alcuni progetti e presentare uno studio tecnico e sociale per la realizzazione di orti solari a conduzione familiare, finalizzata alla sussistenza e all’autodeterminazione alimentare delle famiglie che vivono presso questi stessi campi.
Il primo progetto ha visto l’applicazione, in una delle zone più soleggiate del pianeta, di moduli fotovoltaici per la produzione di energia elettrica e l’estrazione dell’acqua. La sostenibilità economica e tecnologica degli impianti garantisce agli orti l’approvvigionamento idrico senza costi di alimentazione, altrimenti molto onerosi, vista l’assenza di una rete elettrica, la scarsissima viabilità nel deserto e la fragilità della microeconomia locale.

I moduli fotovoltaici potranno dare effetti successivi, data l’abitudine della popolazione di Dakhla a utilizzare moduli fotovoltaici per piccolissimi impianti domestici (un punto luce o una radio-tv).
La realizzazione di impianti fotovoltaici sostenibili, anche in zone remote e svantaggiate, con la partecipazione dei ragazzi Saharawi con disabilità intellettiva, è potuta avvenire grazie a un forte coinvolgimento del Governatore di Dakhla, del locale Centro per la Disabilità e della Giunta Spagnola di Estremadura.

Il Sahara Occidentale si affaccia sull’Atlantico e confina con il Marocco, l’Algeria e la Mauritania oggi è un territorio conteso tra Marocco e Repubblica Saharawi: la fine del dominio coloniale spagnolo nel 1975 ha visto, da un lato, il tentativo di ammissione dei territori da parte del Marocco e della Mauritania, dall’altro quello di autodeterminazione del Popolo Saharawi, condotto dal movimento indipendente Fronte Polisario.

Per dare maggiore visibilità alla causa Saharawi, obiettivo che rimane principale nel sostegno a questa popolazione, visto il loro stato di isolamento, è stato realizzato anche il progetto “Medaglie dei giovani Saharawi per eventi Ambientali, Culturali e Sportivi”, in cui ISES ITALIA e CIRPS hanno scelto di realizzare proprie medaglie e manufatti di riciclo presso i giovani Saharawi, per dare un contributo all’economia locale e veicolare una più ampia azione di sensibilizzazione alle tematiche ambientali. Queste stesse medaglie, con il logo della Sahara Marathon 2008, sono state indossate dai maratoneti accorsi da tutto il mondo, per condividere allo stesso tempo la durezza ambientale, l’unicità e le capacità di cambiamento e cooperazione di questo popolo.
Domenica 8 e lunedì 9 giugnosarà la volta della Ecomaratona delle Madonie e la presentazione dei progetti e delle medaglie di riciclo anche alla Università di palermo.

Il Dipartimento della Sapienza CIRPS (Centro Interuniversitario di Ricerca per lo Sviluppo Sostenibile), diretto dal Prof. Vincenzo Naso, ha sempre svolto anche attività di cooperazione, in particolare quelle riguardanti tecnologie energetiche rinnovabili (PV, Solare Termico, MicroHydro), costruzione di impianti di potabilizzazione innovativi, autonomia di persone con disabilità e progettazione nella cooperazione allo sviluppo.
Oltre i progetti presso i Campi Profughi Saharawi (Algeria) di cui trattiamo in questo articolo, le iniziative più rilevanti di cooperazione ed interscambio universitario riguardano Angola, Kossovo, Etiopia, Cina, negli anni 2000- 2004 in Iraq, dal 1997 in Chiapas (Messico).

Il Popolo Saharawi è in esilio da 31 anni e sta affrontando una dura lotta per la propria indipendenza nelle più avverse condizioni ambientali e materiali. Ad oggi il territorio del Sahara Occidentale risulta diviso diagonalmente da nord-est a sud-ovest da muri di terra e sabbia, costruiti dal Marocco (in sei fasi successive tra il 1980 e il 1987), che controlla i 2/3 occidentali del paese, assai ricchi di risorse naturali. La restante parte è controllata dal Fronte Polisario.
Nonostante questa difficile situazione geo-politica, grazie alla forza di volontà, alla solidarietà e alla cooperazione internazionale, la popolazione è riuscita a creare uno stato regolato in tutte le sue istituzioni.

Da due anni il CIRPS ha avviato Progetti di Cooperazione in Corso con il Popolo e la RASD ovvero il Governo Sahrawi, essi sottendono una strategia che mira a realizzare progetti a forte valenza ambientale, tenendo in primo piano l’obietivo della popolazione Sahrawi a tornare sulla propria terra, attualmente occupata dal Marocco. Per esempio “Huertos solares de inclusividad” (Orti Solari) prevede uno studio tecnico-economico con la realizzazione di orti a conduzione familiare, scelti su indicazione del locale Centro per la Disabilità e con l’approvazione del Governatore di Dakhla. L’intento è favorire l’inserimento dei disabili nel sostegno alimentare delle proprie famiglie. Al fine di garantire l’irrigazione, gli orti prevedono l’utilizzo di pompe e pannelli a energia fotovoltaica.
La Controparte locale è il Ministero Ambiente e Acqua della RASD, ed il Centro de Discapacidad di Dakhla. In Italia stanno collaborando ISES ITALIA, per pozzi e pannelli;CIRPS per progettazione e coordinamento in loco e da Roma, Reseda, Cooperativa Sociale per il supporto tecnico;
Obiettivo è l’ aumento dell’autosufficienza alimentare all’interno dei campi profughi Saharawi e miglioramento della dieta alimentare delle famiglie con disabili a carico.
Le Attività realizzate sono state rivolte allo studio idrogeologico, visite alle famiglie proprietarie degli orti, contatto e accordi con Regione Spagnola Extremadura, la realizzazione di pozzi e mura di cinta per gli orti, formazione delle famiglie, consegna di pompe e pannelli fotovoltaici, distribuzione di materiale per la semina e l’irrigazione, inaugurazione del primo orto.

L’altro progetto cui si accennava per il collegamento con alcune Eco maratone Italiane è il Taller Impacto Cero (Laboratorio a Impatto Zero). L’idea centrale del progetto è garantire un’attività produttiva sostenibile, in grado di veicolare un’ampia sensibilizzazione verso la causa Sahrawi e le tematiche ambientali. L’attività produttiva consiste nella lavorazione di materiale di scarto per la produzione di manufatti. La nascita del laboratorio è legata alla produzione di medaglie utilizzate in occasione della Sahara Marathon 2007 e realizzate attraverso la lavorazione di alluminio di scarto, con tecniche tipiche dell’artigianato locale; nel corso del 2007 la produzione di medaglie si è allargata a eventi sportivi e culturali diversi, sia in Italia che all’estero. Insieme alle medaglie, vengono prodotti anche altri manufatti artigianali, venduti principalmente in occasione di eventi eco-solidali, che contribuiscono all’aumento di visibilità della causa Sahrawi.
In questo caso il soggetto co-finanziatore è stata la Regione Emilia Romagna. E l’Obiettivo il potenziamento delle risorse locali attraverso l’impiego giovanile e sensibilizzazione della popolazione locale verso le problematiche connesse alla gestione dei rifiuti.
Attività realizzate: allestimento del laboratorio, produzione di oltre 2000 medaglie per 13 eventi differenti tra cui la SaharaMarathon 2008, produzione di diverse decine di portapenne, coinvolgimento di alcuni disabili nella produzione e attuale ristrutturazione del laboratorio, produzione di almeno 2.500 medaglie per il 2008, creazione di nuovi prototipi di medaglie, sensibilizzazione nelle scuole sul tema dei rifiuti e sul corretto uso dei materiali di scarto e riciclo.
Un altro progetto importante per la gestione dell’acqua in pieno Deserto del’Sahara è il Potenziamento Social y Recursos Hidricos de Victimas de Mina, (Sviluppo Umano e Risorse Idriche del Centro Vittime di Mina). Questo progetto prevede la realizzazione di un sistema idrico per trasportare l’acqua da un pozzo al serbatoio, posizionato su una lieve altura nelle immediate vicinanze della struttura, a una quota tale da permettere un’adeguata distribuzione dell’acqua verso il Centro stesso, sfruttando il dislivello altimetrico. Oltre al soddisfacimento del bisogno primario dell’acqua, il progetto mira alla formazione di una Disable People Organization Saharawi, rappresentativa delle necessità delle persone con disabilità presso i campi e i territori del Sahara Occidentale.
I suoi obiettivi sono il coinvolgimento di persone con disabilità in programmi di assistenza e sviluppo, per contribuire in tal modo all’applicazione della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità e l’indipendenza idrica all’interno del Centro Victimas de Mina di Njaila, attraverso la creazione di un impianto idrico. Sono state realizzate attività come l’avvio della collaborazione con il Taller Impacto Cero, incontri con i responsabili delle Commissioni Salute, Finanza e Alimentazione, progettazione dell’impianto idrico, raccolta preventivi locali per materiali e lavori, costruzione di un deposito d’acqua, realizzazione dell’acquedotto di 1km per il trasporto dell’acqua, avvio di una associazione di disabili Saharawi inserita nel contesto internazionale.
Infine, molto importante anche dal punto di vista di salvaguardia ambientale è il progetto di turismo responsabile presso i campi e i territori Saharawi liberati, per gestire in modo autonomo il ricevimento di viaggi di consocenza e solidarietà.
Il progetto si propone lo sviluppo della capacità ricettiva del popolo Saharawi perchè possa gestire in modo autonomo il ricevimento dei viaggi di conoscenza e solidarietà e migliorare la pratica e la sostenibilità della ricezione turistica, presso i territori liberati e i campi profughi. Il primo obbiettivo di un tale progetto sta nella sensibilizzazione dell’opinione pubblica internazionale, e in particolare di quella europea, alla causa Saharawi. In secondo luogo, si focalizza sulla creazione di impiego per i giovani e la dinamizzazione dell’economia locale. Il terzo obiettivo è quello della preservazione e della diffusione del patrimonio culturale e archeologico Saharawi.

Circa 200.000 rifugiati Saharawi vivono da più di venti anni nella zona di Tindouf, a sud-ovest dell’Algeria, in campi profughi strutturati in province e distretti, in cui le donne svolgono un ruolo estremamente attivo.
La guerra per il controllo del territorio ha portato alla dislocazione di oltre un milione di mine anti-uomo che continuano a incrementare il numero delle vittime, per le quali assistenza e cure mediche sono indispensabili.
I progetti ambientali dagli orti alle medaglie, dall’acquedotto al turismo, sono alcune delle risposte che si possono dare per rendere concreti anche nella solidarietà i vantaggi di una progettazione rispettosa e rivolta all’ambiente.

Per questo i Saharawi ed i progetti che con loro si possono realizzare sono un esempio importante di Islam aperto al dialogo e impegnato in una via preferenziale di soluzione politica nel quadro delle risoluzioni ONU, mostrando una forte determinazione a non rimandare ulteriormente uno sblocco del referendum di autodeterminazione

Contatti: andrea.micangeli@uniroma1.it

 
 
 

Rinverdire il deserto

Post n°109 pubblicato il 07 Aprile 2011 da katarealismo
 
Foto di katarealismo

Rinverdire il deserto

 

                        L’applicazione delle tecniche di agricoltura naturale in Africa.

 

                        Un’intervista con Masanobu Fukuoka, di Robert e Diane Gilman.

 

Articolo tratto da “Sustainable Habitat” (IC#14) Autunno 1986, pag. 37

 

Copyright 1986, 1997 di Context Institute

 

 

Masanobu Fukuoka è un altro dei maggiori pionieri dell’agricoltura sostenibile che ha partecipato alla Seconda Conferenza Internazionale sulla Permacoltura. Abbiamo discusso con lui qualche giorno prima della conferenza durante la sua visita all’Abundant Life Seed Foundation di Port Townsend, Washington, Usa.

 

Di se stesso ama dire che non sa nulla, ma i suoi libri, come “La rivoluzione del filo di paglia” e “La fattoria biologica” dimostrano che almeno possiede della saggezza. Il suo metodo di coltivazione non comprende aratura, fertilizzanti, pesticidi, diserbanti, potature e davvero poco lavoro! Riesce a portare a termine tutto questo (con alte rese) attraverso un attento tempismo nelle semine e un’accurata combinazione di piante (policultura). In breve, ha portato l’arte pratica del lavoro assieme alla natura ad un alto grado di raffinatezza.

 

In quest’intervista descrive come i suoi metodi di coltivazione naturale possano essere applicati ai deserti del pianeta, basandosi sulle sue esperienze in Africa nel 1985. L’assistenza alla traduzione di quest’intervista è stata fornita da Katsuyuki Shibata e da Hizuru Aoyama. La traduzione italiana è di Syd Migx.

 

 

Robert: Che cosa ha imparato da 50 anni di lavoro sull’agricoltura?

 

Masanobu: Sono un uomo piccolo, come vede, ma sono venuto negli Stati uniti con una grandissima intenzione. Quest’uomo piccolo diventa sempre più piccolo e non durerà a lungo; vorrei quindi condividere con voi la mia idea di 50 anni fa. Il mio sogno è come una bolla di sapone. Potrebbe diventare sempre più piccolo oppure via via più grande. Se lo potessi dire in breve, direi la parola “nulla”. In una maniera più ampia, potrebbe avvolgere l’intero pianeta.

 

Vivo su di una piccola montagna facendo agricoltura. Non possiedo alcuna conoscenza, non faccio nulla. La mia maniera di portare avanti l’agricoltura non comprende lavorazioni, fertilizzanti, prodotti chimici. Dieci anni fa, il mio libro “La rivoluzione del filo di paglia”, fu pubblicato da Rodale Press negli Stati uniti. Da quel momento in poi, non potevo solo dormirci, in montagna. Sette anni fa presi un aereo per la prima volta in vita mia e andai in California, a Boston, a New York City. Rimasi sorpreso perché pensavo che gli Stati uniti fossero verdi dappertutto, mentre guardandola la terra mi pareva morta.

 

Allora parlai con il capo del dipartimento deserti delle Nazioni unite dei miei metodi di agricoltura naturale. Mi chiese se potessero cambiare il deserto irakeno. Mi disse di sviluppare una maniera per rinverdire il deserto. A quel punto pensavo d’essere un povero contadino, di non avere alcun potere o conoscenza, così gli risposi che non potevo. Ma da allora in poi ho iniziato a pensare che il mio compito fosse lavorare sul deserto.

 

Diversi anni fa, viaggiai in giro per l’Europa. Mi parve che l’Europa fosse molto bella, meravigliosa, con tanta natura conservata. Ma un metro sotto la sua superficie, sentivo il deserto avanzare lentamente. Continuavo a domandarmene la ragione. Capii che si trattava dell’errore commesso in agricoltura. L’inizio dell’errore sta nell’allevare carne per il re e vino per la chiesa. Tutto attorno, mucche, mucche, mucche, viti, viti, viti. L’agricoltura europea e americana è iniziata con le mucche al pascolo e le vigne coltivate per il re e la chiesa. Così facendo, hanno cambiato la natura, specialmente sulle pendici delle colline. Allora abbiamo l’erosione dei suoli. Solo il 20% dei terreni nelle valli resta sano, e il rimanente 80% è impoverito. Giacché la terra è impoverita, sorge la necessità di fertilizzanti e pesticidi chimici. Stati uniti, Europa, anche in Giappone, la loro agricoltura iniziò con l’aratura della terra. La coltivazione è legata anche alla civiltà e quello è l’inizio dell’errore. La vera agricoltura naturale non adopera coltivazione, né aratro. Usare trattori e attrezzi distrugge la vera natura. I più acerrimi nemici degli alberi sono l’ascia e la sega. I peggiori nemici del terreno sono la coltivazione e l’aratura. Se la gente non avesse questi attrezzi, sarebbe una vita migliore per tutti.

 

Dato che la mia fattoria non adopera coltivazione, fertilizzanti prodotti chimici, molti insetti e animali ci vivono dentro. Usano i pesticidi per uccidere un determinato tipo di parassita e ciò distrugge l’equilibrio della natura. Se le permettiamo di vivere completamente libera, avremo il ritorno di una natura perfetta.

 

 

Robert: Come ha applicato il suo metodo al deserto?

 

Masanobu: L’agricoltura basata sulla chimica non può cambiare il deserto. Anche se ha un trattore e un grosso sistema d’irrigazione, non è in grado di farlo. Sono arrivato a credere che per rendere verde il deserto ci voglia un’agricoltura naturale. Il metodo è semplicissimo. Basta seminare nel deserto. Ecco il quadro di una sperimentazione in Etiopia. 90 anni fa quest’area era meravigliosa; adesso pare il deserto del Colorado. Ho dato semi di 100 varietà di piante alla gente in Etiopia e in Somalia. I bambini piantavano semi, li annaffiavano per tre giorni. A causa delle alte temperature e della mancanza d’acqua, le radici si abbassano rapidamente verso l’interno del suolo. Adesso ci crescono i grossi ravanelli Daikon. La gente pensa che non ci sia acqua, nel deserto, ma anche in Somalia e in Etiopia hanno un grande fiume. Non è che non hanno acqua; l’acqua rimane semplicemente sotto il livello del suolo. La trovano tra i 180 cm. e i 360 cm.

 

Diane: Usa l’acqua solo per far germinare i semi, e poi le piante fanno da sole?

 

Masanobu: Hanno ancora necessità d’acqua, tipo dopo dieci giorni e dopo un mese, ma non bisogna dargliene troppa, di modo che le radici crescano profonde. Adesso la gente in Somalia ha l’orto.

 

Il progetto iniziò con l’UNESCO e una grossa quantità di denaro, ma ci sono solo un paio di persone a portare avanti l’esperimento, adesso. Questi giovani vengono da Tokio, non sanno granché d’agricoltura. Penso sia meglio mandare semi alla gente in Somalia ed Etiopia invece di spedire loro latte e farina, ma non c’è maniera di spedirglieli. La gente laggiù può seminare, anche i bambini lo fanno. Ma i governi africani, quello americano, italiano, francese, quelli non mandano semi, inviano solo vestiario e cibo per l’immediato. Il governo africano scoraggia gli orti e l’agricoltura su piccola scala. Nell’ultimo secolo, i semi da orto sono divenuti scarsi.

 

Diane: Perché i governi fanno questo?

 

Masanobu: I governi africani e quello americano vogliono che la gente coltivi caffé, tè, cotone, arachidi, zucchero – solo cinque o sei varietà da esportazione, per fare soldi. La verdura è solo cibo, non porta denaro. Dicono che forniranno granturco e cereali, così che la gente non debba coltivare la propria verdura.

 

Robert: Negli Stati uniti abbiamo i tipi di semi che crescerebbero bene in quella parte dell’Africa?

 

Masanobu: A dire il vero, proprio stamattina in questa città (Port Townsend) ho visto diverse piante, compresi ortaggi, ornamentali e cereali che crescerebbero nel deserto. Una varietà come il ravanello Daikon cresce addirittura meglio là che nei miei campi, così come le succulente e l’amaranta.

 

Robert: Quindi se la gente negli Stati uniti, in Giappone e in Europa volesse aiutare le persone in Africa a ridurre il deserto, suggerirebbe loro di mandare i semi?

 

Masanobu: Quando ero in Somalia, pensavo: ‘Se ci fossero dieci contadini, un camion e semi, sarebbe così semplice aiutare questa gente.’ Non hanno nessuna verdura per sei mesi all’anno, non hanno vitamine e quindi ovviamente si ammalano. Hanno addirittura dimenticato come mangiare la verdura. Consumano solo le foglie, non la parte radicale commestibile.

 

Ieri sono andato all’Olympic national park. Sono rimasto veramente impressionato, ho quasi pianto. Laggiù, il terreno è vivo! La montagna sembrava il letto di dio. La foresta sembrava viva, una cosa che non riscontri neppure in Europa. Le grandi foreste della California e i prati francesi sono meravigliosi, ma questo è davvero il massimo! La gente che ci abita ha acqua, legna da ardere e alberi. E’ come il giardino dell’Eden. Se la gente è davvero felice, allora questo posto è una vera Utopia.

 

Chi abita nei deserti possiede solo una tazza, una forchetta e una pentola. Certe famiglie non hanno neppure un coltello, quindi devono lanciare rocce per tagliare la legna e poi devono portarla per chilometri. Sono rimasto davvero impressionato dalla vista di quest’area bellissima, ma al contempo il mio cuore soffre pensando alla gente nel deserto. La differenza che passa è quella tra paradiso e inferno. Penso che il mondo stia raggiungendo un punto molto pericoloso. Gli Stati uniti hanno il potere di distruggere il mondo, ma anche di aiutarlo. Mi chiedo se la gente in questo paese capisca che gli Stati uniti aiutano la popolazione somala, ma la stanno anche uccidendo. Facendoli coltivare caffé, zucchero e dando loro cibo. Il governo giapponese fa la stessa cosa. Da’ loro abiti e quello italiano i maccheroni. Gli Stati uniti stanno cercando di trasformarli in mangiatori di pane. La gente in Etiopia cucina riso, orzo e verdure. Sono felici di essere piccoli agricoltori. Il governo degli Stati uniti dice loro di lavorare, lavorare, come schiavi su un grosso appezzamento, a coltivare caffé. Gli Stati uniti dicono loro che possono guadagnare denaro ed essere felici a quel modo.

 

Un professore universitario giapponese che è stato in Etiopia e in Somalia mi ha detto che quello è l’inferno del pianeta. Ho detto: “No, è l’ingresso in paradiso.” Questa gente non ha soldi, non ha cibo, ma è felicissima. La ragione per cui sono così felici è che non hanno scuole o insegnanti. Sono felici di portare l’acqua, felici di tagliare legna. Per loro non è una cosa dura o difficile; se la godono veramente a farlo. Tra mezzogiorno e le tre del pomeriggio fa caldissimo, ma a parte quel periodo, c’è brezza, non ci sono zanzare o mosche.

 

Una cosa che la gente degli Stati uniti può fare, invece di viaggiare nello spazio, è seminare sui deserti dallo Shuttle. Ci sono molte aziende di semi legate alle multinazionali. Potrebbero seminare dagli aerei.

 

Diane: Se i semi venissero gettati così, basterebbe la pioggia per germinarli?

 

Masanobu: No, non basta; getterei semi ricoperti, di modo che non si secchino o vengano mangiati dagli animali. Probabilmente esistono diverse maniere per ricoprire i semi. Si può usare l’argilla del terreno, ma è necessario farla aderire al seme, oppure si può usare il calcio.

 

La mia fattoria ha tutto: alberi da frutto, verdura, acacie. Come nei miei campi, è necessario à mescolare tutte le varietà e seminarle allo stesso momento. Ho portato anche un centinaio di varietà di alberi innestati, laggiù, due per tipo, e quasi tutti, l’80%, stanno crescendo adesso. Il motivo per cui parlo di usare un aereo è che in caso di prova si usa una piccola area, ma stiamo parlando di rinverdire rapidamente una grande area. Bisogna farlo immediatamente! Bisogna mischiare verdure e alberi: quella è la maniera più veloce per avere successo.

 

Un’altra ragione per cui parlo di usare aerei deriva dalla necessità di far crescere velocemente le piante, perché se perdiamo un altro 3% delle aree verdi del pianeta, morirà tutto. A causa della carenza d’ossigeno, le persone non si sentiranno felici. In primavera ci si sente felici per l’ossigeno che scaturisce dalle piante. Espiriamo anidride carbonica e inspiriamo ossigeno, mentre le piante fanno l’opposto. Gli esseri umani e le piante non hanno solo un rapporto di consumo, condividono anche l’aria. Perciò la mancanza d’ossigeno in Somalia non costituisce un problema solo laggiù: lo è anche qui. A causa del rapido decadimento del suolo in queste zone dell’Africa, tutti ne sentiranno gli effetti. Sta accadendo tutto molto rapidamente. Non c’è tempo da perdere. Dobbiamo fare qualcosa adesso.

 

La gente in Etiopia è felice del vento e della luce, del fuoco e dell’acqua. Perché la gente dovrebbe aver bisogno di altro? Nostro compito è la pratica dell’agricoltura come la conduce dio. Potrebbe essere la maniera per iniziare a salvare questo mondo.

 
 
 

Un Hotel Resort nel deserto

Post n°108 pubblicato il 07 Aprile 2011 da katarealismo
 
Foto di katarealismo

Negli Emirati Arabi Uniti, Hunter da tempo ha un ruolo fondamentale nella creazione e manutenzione
di lussureggianti parchi e giardini in condizioni climatiche e del terreno che rappresentano una vera
sfida. L’esempio più recente è la stupenda area circostante l’Hotel Resort Park Hyatt, una nuova
struttura sul mare inserita nel prestigioso Dubai Creek Golf e Yacht Club.
“Per i progetti svolti negli Emirati Arabi Uniti, ogni prodotto
deve essere concepito in modo assolutamente efficiente per sfruttare al massimo le
preziose risorse idriche dell’area e garantire allo stesso tempo prestazioni
affidabili” ha affermato Hanna Zaidan, responsabile locale della Hunter.
“Le condizioni ambientali qui richiedono il meglio in assoluto”.
Desert Landscape Co. di Dubai, che collabora con MEAC (distributore
Hunter negli Emirati Arabi Uniti), è stata scelta come l’azienda incaricata
dell’installazione di impianti che servono a trasformare i terreni
circostanti alberghi e strutture in vere oasi in mezzo al deserto.

prosegue sul sito: http://www.irrigazione.com/Risorse/PDFs/Newsletters/211531w.pdf

 
 
 

Piante nel deserto grazie ad un ormone della crescita biotech

Post n°107 pubblicato il 07 Aprile 2011 da katarealismo
 
Foto di katarealismo

Piante nel deserto grazie ad un ormone della crescita biotech

dal sito: http://www.e-gazette.it/

Palo Alto (California), 15 maggio – Grazie a un ormone della crescita sarà possibile avere piante capaci di crescere in ambienti ostili, come il deserto. Ottenere piante di questo tipo è l'obiettivo dello studio pubblicato su Nature e condotto negli Stati Uniti, presso lo Howard Hughes Medical Institute. I ricercatori hanno rilevato che alcune piante crescono e si sviluppano molto più velocemente rispetto ad altre grazie alla presenza, nel loro corredo genetico, di un brassinolide Bin2, un ormone vegetale in grado di catalizzare in tempi rapidissimi le sostanze nutritive diffuse nel terreno. “L'interesse per la scoperta dei meccanismi che regolano l'azione dei brassinolisteroidi risiede principalmente nella loro azione esplosiva quando le condizioni esterne consentono alla pianta di maturare, gemmare e riprodursi anche in una sola giornata”, ha rilevato la coordinatrice dello studio, Joanne Chory, citata dal notiziario Biotech.com. “La replicabilità biotecnologia dell'ormone - la aggiunto la ricercatrice - porterà alla disponibilità di sostanze tali da far crescere piante di utilità alimentare ben oltre le dimensioni abituali”. Basti pensare, si rileva nell'articolo, ad alcune varietà di graminacee che potrebbero prosperare in zone semidesertiche, consentendo così ad intere popolazioni di sfamarsi più facilmente.

 

 
 
 

Una nuova avventura per l'aereo solare

Post n°106 pubblicato il 06 Aprile 2011 da katarealismo
 
Foto di katarealismo

Una nuova avventura per l'aereo solarePrimo volo del 2011, grazie alle sue 12.000 cellule fotovoltaicheFonte: ANSA - 06 aprile, 13:10
 

GINEVRA - Il velivolo sperimentale 'Solar Impulse',  l'aereo che l'anno scorso ha vinto la scommessa di volare di notte grazie alla sola energia del sole, è partito per il primo volo del 2011 dalla base aerea di Payerne, in Svizzera. A bordo il pilota tedesco Markus Scherdel.

Ma il velivolo voluto dallo svizzero Bertrand Piccard non mira a trasportare passeggeri, bensi' un messaggio: dimostrare che con la tecnologia pulita si possono vincere sfide che si credevano impossibili e che questo e' possibile gia' adesso.

Il prototipo quest'anno viaggerà più spesso e più lontano nei cieli europei, in diverse capitali mentre parallelamente a terra proseguira' la costruzione del prossimo aereo, il velivolo dell'ultima sfida del progetto Solar Impulse: realizzare il giro del mondo in cinque tappe, nel 2013.

La prova del fuoco per Solar Impulse è stata la mattina dell'8 luglio 2010, quando l'aereo e' atterrato dopo aver volato per la prima volta giorno e notte per piu' di 26 ore a 8mila metri di altitudine grazie alla sola energia del sole. Il volo piu' lungo e alto della storia dell'aviazione solare. La notizia e le immagini hanno fatto il giro del mondo e 22 milioni di visitatori si sono collegati al sito web per seguire l'avventura. Ai comandi, l'ingegnere svizzero Andre' Borschberg.

Era il secondo grande successo di Solar Impulse, dopo il primo volo di un paio d'ore in aprile, sempre con il prototipo HB-SIA, frutto di una collaborazione che coinvolge un'ottantina di partner, tra cui numerose aziende private, che hanno preso parte ai lavori di concezione, costruzione, sperimentazione e volo.

L'aereo e' impressionante nelle sue dimensioni: ha l'apertura alare di un Airbus A340 (63,4 m) ed il peso di un'automobile (1.600 kg): la struttura e' in fibre di carbonio e la superficie delle ali e' coperta da celle solari sottilissime. Circa 12.000 cellule fotovoltaiche in grado di alimentare quattro motori elettrici. Sembra un'enorme libellula ed e' un concentrato di ingegno. Sembra fragilissimo, ma puo' raggiungere una velocita' media di 70 km orari.

''Il volo e' una avventura recente nella storia umana'', ma improvvisamente proprio la storia ha cominciato a correre e la stessa definizione della parola ''impossibile' e' cambiata'', secondo Bertrand Piccard, ''caduto nel pentolone'' dell'avventura da piccolo, con il nonno Auguste Piccard che su una mongolfiera nel 1932 stabili' il record del mondo e il padre Jacques che nel 1960 s'immerse invece nel punto piu' basso del mondo. Lo stesso Bertrand Piccard e' gia' entrato nei libri dei record. Nel 1999 ha effettuato il primo giro della Terra senza scali con un pallone aerostatico. Ed e' proprio da questa avventura che e' nata l'ambizione di Solar Impulse.

 

 
 
 

Vertical Farm nel deserto

Post n°105 pubblicato il 06 Aprile 2011 da katarealismo
 

Vertical Farm nel desertoE' tutta italiana la fattoria verticale più bella fra quelle in progettazione nel mondo

Nome: Seawater Vertical Farm
Progetto: Studiomobile, Antonio Girardi, Cristiana Favretto
Tipologia: Vertical Farm
Luogo: Dubai
Anno: 2009


Il Seawater Vertical Farm utilizza l’acqua del mare per raffreddare e umidificare le serre e riconvertire l’umidità in acqua dolce per irrigare le colture. Trasformare acqua salata in acqua dolce nella quantità e nel luogo giusti offre così il grande vantaggio di risolvere tutte le problematiche appena descritte.
Il Seawater Vertical Farm si trova a Dubai dove la mancanza di acqua dolce e di ortaggi di produzione locale sommata ai problemi legati al traffico e al trasporto e ad un altissimo valore del terreno induce a prendere in seria considerazione l’idea di utilizzare qualche lotto urbano per la coltura intensiva.
Il progetto del Seawater Vertical Farm è piuttosto semplice e si compone di cinque serre ovaliformi collegate ad altrettante braccia che trasportano e nebulizzano acqua salata creando un flusso fresco e umido ideale per le piante, simile all’habitat della foresta equatoriale.
Dopo aver lasciato l’ambiente di coltivazione, l’aria passa attraverso il secondo evaporatore sopra il quale scorre acqua salata: durante questa fase l’aria umida si mescola con quella calda e asciutta dell’intercapedine del soffitto e di conseguenza l’atmosfera si fa molto più calda e umida.
I ventilatori sono un vecchio ricordo: l’aria calda infatti è indotta dall’effetto camino a risalire il condotto centrale, dove il calore e l’aria umida, venendo a contatto con i tubi di plastica che trasportano la fredda acqua marina, si condensano. È così che sulla superficie dei condensatori compaiono goccioline di acqua dolce pronte per essere raccolte in un serbatoio e utilizzate per l’irrigazione delle serre o per altri scopi.
Le serre hanno una struttura in acciaio leggero e una copertura in polietilene. Quest’ultima viene trattata in modo da assumere caratteristiche capaci al contempo di riflettere i raggi ultravioletti e di assorbire quelli infrarossi; può essere inoltre interamente riciclata una volta giunta al termine della sua vita produttiva. Anche qui come nel caso del controsoffitto è stato impiegato l’etilene tetrafluoroetilene (EFTE), una resistente pellicola altamente trasparente, autopulente, riciclabile, più duratura, economica e leggera del vetro. Mentre questi polimeri permettono di massimizzare la penetrazione dei raggi solari, la composizione a strati della copertura, che forma diverse mura ventilate, riesce a fornire un buon grado di isolamento. Dato il carattere ambientale del progetto l’EFTE è riciclabile. Gli evaporatori invece sono costituiti da fogli di cartone, più convenienti e sorprendentemente efficienti, che cristallizzano il carbonato di calcio dell’acqua di mare rendendolo duro come conchiglie. I risultati di questo processo, che è possibile sottoporre a controllo e monitoraggio, rivelano come la vita degli evaporatori possa essere prolungata quasi all’infinito.
 

Fonte: Nemeton High Green Tech Magazine

hhttp://culturadelverde.imagelinenetwork.com/

 
 
 

PROGETTO A FAVORE DELLE DONNE TUAREG: TERRA MADRE E BAMBINI NEL DESERTO

Post n°104 pubblicato il 06 Aprile 2011 da katarealismo
 

PROGETTO A FAVORE DELLE DONNE TUAREG: TERRA MADRE E BAMBINI NEL DESERTO

 

Dal sito: http://www.terraemadre.com

Donne Tuareg che intrecciano stuoie, loro tipico lavoro artigianale. La foto è stata scattata nel 2006 a nord di Agadez, Niger per l'Ass. Bambini nel Deserto.

Donne Tuareg che intrecciano stuoie, loro tipico lavoro artigianale. Le foto sono state scattate nel 2006 a nord di Agadez, Niger, per l’Ass. Bambini nel Deserto.

E’ arrivato il momento che stavo aspettando da un pò, quello di festeggiare gli oltre mille fan di Facebook con una raccolta fondi. In precedenza vi ho regalato i giveaway, oggi regaliamo qualcosa agli altri!

Sapete che ho un debole per il popolo Tuareg, che amministro un gruppo su Fb: Save Touareg People! Salviamo i Tuareg! , che conta ad oggi oltre 2000 iscritti. Ho dedicato loro un’intera pagina del mio blog e ho già realizzato un piccolo progetto poco più di un anno fa con l’Associazione Bambini nel Deserto. In quell’occasione c’era stata un’inondazione in Niger e con la solidarietà del gruppo su Fb abbiamo raccolto 1.100 euro per ripristinare un pozzo reso inutilizzabile dal fango e dai detriti.

La cosa fantastica è che in un mese e mezzo c’erano già i fondi e il lavoro è stato realizzato, con tanto di foto dell’evento.

Oggi vi propongo un progetto che è stato creato apposta per me: significa che BnD si è mossa per organizzare un microprogetto che fosse a favore del popolo Tuareg, guarda caso, proprio nello stesso villaggio del pozzo! Un ottimo modo per dare continuità ad un’azione di solidarietà.

In particolare credo molto in progetti a favore delle donne! Se poi penso alle donne Tuareg, alla loro cultura e alla loro fierezza, credo ancora di più che andrebbero aiutate

Ed ecco qui il progetto. Vi invito a partecipare. Il rappresentante di BnD, Luca Iotti, ci darà informazioni scritte e fotografate, di come evolve:

http://www.terraemadre.com/?p=11511

 

http://www.terraemadre.com/?p=11511

 

 
 
 

La città che annega nel deserto

Post n°103 pubblicato il 06 Aprile 2011 da katarealismo
 
Foto di katarealismo

La città che annega nel deserto
 
Jodhpour è nota anche come la "città blu"
Da: La Stampa.it 
A Jodhpur le acque del sottosuolo sono ormai ad appena un metro dalla superficie
VALERIA FRASCHETTI
JODHPUR (INDIA)
Rischia di diventare l’Atlantide dell’India, Jodhpur. Un destino non improbabile in tempi di riscaldamento globale, in cui già numerose isole si sentono con l’acqua alla gola a causa dell’innalzamento degli oceani. Ma questo epilogo nel caso della città indiana avrebbe il sapore di un tragico paradosso. Perché non si trova a largo delle coste del subcontinente, ma nel pieno deserto del Thar. Eppure, tante e tanto vecchie sono le falle sotto il suo bacino idrico che il livello sotterraneo delle acque si è innalzato enormemente e la città, nel siccitoso Rajasthan, potrebbe essere inabissata da un momento all’altro. La meteorologia indiana, per ora, è dalla sua parte. Alla stagione dei monsoni mancano ancora mesi. Di questi tempi l’arrivo di piogge torrenziali, che peggiorerebbero la situazione, è improbabile quanto un sei al superenalotto vinto alla prima puntata. Non a caso, per il suo clima tutt’altro che londinese, Jodhpur è anche nota come «la città del Sole». Eppure, i suoi cittadini non riescono a dormire tranquilli.

Negli ultimi mesi la situazione è diventata allarmante: l’acqua è oramai a un metro dalla superficie terrestre e, secondo gli esperti, basterebbe anche un flebile movimento della terra per scatenare l’apocalisse. «Un tremore di limitata intensità potrebbe distruggere l’esistenza stessa della città», ha dichiarato sul quotidiano indiano Mail Today RP Mathur, direttore dell’ente per le acque sotterranee. E l’ipotesi di un terremoto, purtroppo, non è inverosimile da queste parti visto che il Rajasthan è zona sismica. Gli scantinati sommersi sono già numerosi. Di giorno in giorno le fondamenta dei palazzi si stanno trasformando in mollica, così molti cittadini sono stati costretti ad abbandonare le proprie case. Anche l’Alta Corte e il mercato principale sono stati fatti evacuare dopo che l’acqua si è fatta strada nei sotterranei. Come misura tampone, intanto, abitazioni e negozi di Jodhpur sono stati dotati di pompe per il drenaggio dell’acqua.

«L’acqua sta inondando gli scantinati nella zona del trafficato mercato, rovinando gli edifici e forzando i commercianti a lasciare i locali», ha avvertito il Centro di rilevamento sismico locale. Per ora l’unico a star tranquillo sembra essere il maestoso forte di Mehrangarh, che da sei secoli domina la città da un massiccio di 130 metri e attira turisti da ogni dove. Come ha spiegato il Times, le perdite provengono dal fondo del bacino di Kayalana-Takht Sagar, dove sono confluite altre riserve di acqua quando nel 1997, per far fronte ad una siccità, è stato deviato un canale. Di questo colabrodo sotterraneo gli esperti accusano le autorità. E anche se ufficialmente il governo non sembra aver fatto mea culpa, è certo che l’India non è famosa per la capillarità e la solidità delle sue infrastrutture. Basta dare uno sguardo alle strade: gruviere di asfalto (quando non di terra) su cui l’anno scorso hanno perso la vita 130 mila persone, il 60% in più della Cina, dove però ci sono quattro volte più auto.

Neanche il sistema fognario è degno di una «potenza globale», come l’India ama vedersi: solo il 13% degli scarichi prodotti dal suo miliardo e cento milioni di abitanti sono trattati. Parte della colpa sta nel mancato impiego di manodopera qualificata. Un’altra, è che il 4% per cento del Pil che Nuova Delhi investe per costruire strade, ferrovie, dighe e centrali elettriche viene in parte fagocitato dalla corruzione. Anche grazie alle sollecitazioni dagli enti competenti, ora il governo dice di stare valutando come intervenire per salvare Jodhpur dal rischio di un’inondazione. Quali saranno i tempi, però, i ministri non l’hanno detto, anche se conoscendo i neghittosi tempi indiani c’è poco da star tranquilli. Se la terra nel frattempo resterà ferma, forse, quando a giugno in India arriveranno i monsoni, per la prima volta a Jodhpur faranno quello che non hanno mai fatto: pregare affinché non piova.

 
 
 

Nel deserto nasce la Città del Sole un' oasi ultramoderna e 'verde'

Post n°102 pubblicato il 06 Aprile 2011 da katarealismo
 
Foto di katarealismo

Nel deserto nasce la Città del Sole un' oasi ultramoderna e 'verde'

LONDRA - Da lontano, forse qualcuno la scambierà per un miraggio. Una città avveniristica, nel mezzo del deserto del Golfo Persico. Una casbah del ventunesimo secolo, cinta da mura come al tempo dei cammelli, priva di automobili, alimentata esclusivamente da energia "pulita". L' oasi perfetta: creata dal nulla da un geniale architetto inglese, con i soldi dello staterello più ricco del mondo. La prima cittadella del nostro pianeta interamente sostenibile, ossia in grado di produrre zero emissioni di carbonio e di funzionare soltanto a energia ecologica. Disegnata dal grande Norman Foster, l' autore del Millennium Bridge, del grattacielo Gerkhin (Cetriolo) di Londra e di tanti altri progetti, sorgerà nei pressi di Abu Dhabi, capitale degli Emirati Arabi Uniti, cioè in uno dei luoghi più inospitali della terra, dove in estate la temperatura raggiunge i 50 gradi centigradi, non c' è acqua, né animali, né piante, tranne qualche palma isolata. Ma decine di miliardi di petrodollari verranno versati su sette chilometri di deserto per far nascere Masdar, come l' hanno battezzata: in arabo significa «La Fonte», ma avrebbero potuto chiamarla «La città del sole», considerato il clima e l' energia che la farà vivere. Masdar sarà cinta da mura come le antiche città carovaniere. Ospiterà una popolazione di 50 mila abitanti. Avrà case non più alte di quattro piani e strade non più larghe di tre metri per proteggere un micro-clima ad aria condizionata, necessario se si vuole garantire la modernità a simili temperature. Causerà zero emissioni di carbonio: il 100 per cento dell' energia sarà rinnovabile, usando principalmente energia solare e turbine a vento. Produrrà zero rifiuti: il 99 per cento saranno riciclati o distrutti. Consumerà il 50 per cento in meno della media di consumo d' acqua pro capite. L' acqua potabile sarà portata dal mare e desalinizzata con energia solare. L' acqua per uso civile o industriale sarà totalmente riciclata. Non ci saranno automobili. I trasporti saranno totalmente pubblici, sotto forma di una metropolitana superveloce e taxi su rotaie senza autista. Nessuno vivrà o lavorerà a più di duecento metri di distanza da un mezzo pubblico. Tre livelli di trasporto smisteranno il traffico: uno sopraelevato, uno all' altezza della strada protetto da portici, uno sotterraneo. Tutti gli edifici saranno costruiti con materiali riciclati e rinnovabili. E salari minimi, in nome dell' equo commercio, saranno garantiti alle migliaia di operai che dovranno erigere questa utopia. Il progetto è stato inaugurato ieri ad Abu Dhabi, alla presenza del principe Carlo d' Inghilterra: o meglio, dell' ologramma di Sua Altezza, che ha tenuto un discorso di cinque minuti e poi si è dissolto nell' aria, «in modo - ha spiegato - da non causare neanche la più piccola emissione di gas nocivo per arrivare fin qui». Lo spirito dell' iniziativa è lo stesso: dimostrare che è possibile costruire comunità che non inquinano, non sprecano, consumano meno e sfruttano solo energie rinnovabili. Non è un caso che il finanziamento venga da uno stato che affoga in un altro tipo di fonte energetica, il petrolio: destinato a finire, ma di cui Abu Dhabi ha ancora 100 miliardi di barili, abbastanza per farne la città più ricca del pianeta, avendo i suoi 423 mila abitanti un reddito medio di 12 milioni di euro a testa. Ma hanno anche il record mondiale di emissioni di gas nocivo per abitante. Perciò hanno deciso di creare la prima «città verde» del globo: per migliorare la propria immagine e per segnalare una svolta, far capire che gli Emirati Arabi avranno un futuro, anche quando sarà finito il petrolio. L' obiettivo, infatti, è fare dell' ecologica Masdar il centro dell' industria manifatturiera a energia solare di domani: i suoi abitanti saranno operai, impiegati, tecnici, ingegneri, programmatori, in una miriade di aziende impegnate in questo settore con sede nella «Fonte» del deserto. È l' unica cosa che si sa, sulla composizione sociale della città. Chi andrà a starci? Come sarà possibile ottenere di risiederci? Come sarà popolata? Le autorità, per ora, non rivelano niente. «È un progetto estremamente ambizioso», si limita a dichiarare Gerard Evenden, socio del rinomato studio di architettura di Lord Foster a Londra. «Ci hanno chiesto di disegnare un' intera città a emissioni zero di carbonio. Ci lavoriamo da nove mesi e ormai siamo pronti al via». Per creare una città del futuro, Foster ha guardato al passato, cercando di capire come gli accampamenti di nomadi del deserto si adattarono a un ambiente così ostile. Il risultato, predice il quotidiano Guardian di Londra, sarà più vicino alle città costruite nell' era delle carovane di cammelli che al nostro presente consumistico industriale. Una casbah del Duemila: raccolta, omogenea, a misura d' uomo, eppure con tutti i comfort a cui siamo abituati nell' Occidente sviluppato. «Masdar sarà la capitale globale della rivoluzione dell' energia rinnovabile», s' entusiasma Jean-Paul Jeanrenaud, direttore del progetto «One Planet Living» del Wwf: «Abu Dhabi è il primo paese produttore di petrolio a fare un passo così significativo verso la vita sostenibile». Non tutti, però, sono convinti: per Tony Juniper, direttore dell' organizzazione ecologista Friends of the Earth, la città sostenibile nel deserto è solo una foglia di fico sui danni causati al pianeta dal petrolio: «Gli Emirati Arabi spenderanno volentieri qualche miliardo di dollari per continuare a guadagnare tranquillamente trilioni di dollari grazie a risorse che provocano il cambiamento climatico». L' oasi del nostro futuro, o l' ennesimo miraggio? Ai posteri, o meglio ai nostri figli, l' ardua sentenza. - DAL NOSTRO CORRISPONDENTE ENRICO FRANCESCHINI

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pioggia nel deserto

Post n°101 pubblicato il 06 Aprile 2011 da katarealismo
 
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Emirati Arabi: un progetto top secret per avere la pioggia nel deserto?
Un progetto segreto per far piovere nel deserto: secondo il domenicale britannico Sunday Times scienziati al servizio degli Emirati Arabi Uniti hanno generato una serie di acquazzoni nel piccolo stato di Abu Dhabi usando nuove tecnologie pensate per dare all’uomo maggior controllo sul clima.
Il lavoro dei ‘maghi della pioggia’ sarebbe riuscito a produrre una cinquantina di violenti temporali nella regione orientale di Al Ain dello stato: per lo più gli acquazzoni si sono verificati all’apice dell’estate, in luglio e agosto, quando in quella regione non piove affatto. In alcuni casi la pioggia si sarebbe trasformata in grandine, in altri sarebbe stata accompagnata da tuoni, fulmini e forte vento. Il progetto, scrive il Sunday Times, sarebbe il primo in grado di produrre pioggia a ciel sereno: a renderlo possibile sarebbe stato l’uso di giganteschi ionizzatori per generarle campi di particelle cariche negativamente nell’aria sopra Al Ain. Questi campi hanno favorito la formazione di nuvole con la speranza che queste nuvole a loro volta producano pioggia.

 

bèh... 12.000 anni fa il deserto del sahara era una enorme e lussureggiante savana con boschi, laghi fiumi... tutto questo cambió cirrca 5300 anni fa.

www.supersapiens.it/Archeostoria/antico_egitto.html

quindi se 12.000 anni fa la terra sopportava tranqullamente un " deserto" lussureggiante, non vedo perchè non dovrebbe farlo anche ora.

Certo che i cambi politici potrebbero essere interessanti... vi immaginate noi europei, che andiamo a fare i "vu cumprá" nelle ricche città sahariane? hahaha! eppure la storia è piena di questi rovesci

ciao
MaX
 
 
 
 
 

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