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Verranno per conquistarlo, e lo conquisteranno popolandolo con i loro figli. E’ il ventre delle nostre donne che ci darà la vittoria”.

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IL CUCULO

... quando si schiude l’uovo del cuculo, il piccolo intruso sbatte fuori dal nido i suoi “fratellastri” caricandosene sul dorso le uova e gettandole fuori, o spingendo giù gli altri uccellini del nido se sono già nati...

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TUTTI I COSTI DELL'IMMIGRAZIONE (6° parte)

Post n°873 pubblicato il 20 Maggio 2012 da lecasame

TUTTI I COSTI DELL'IMMIGRAZIONE

(6° parte)

Effetti sul mercato del lavoro
Un altro punto essenziale è cercare di capire quali siano gli effetti dell’immigrazione sul mondo del lavoro e, in particolare, quanto la presenza di manodopera straniera a basso costo danneggi le fasce più deboli della nostra società, per la concorrenza al ribasso e comportamenti antisindacali, per la presenza di gente che si offre per qualsiasi lavoro a qualsiasi prezzo, a qualsiasi condizione. Come si possono quantificare i posti persi, i guadagni mancati di tanti lavoratori che si vedono sostituiti da gente che lavora tante ore in condizioni subumane? Quanto è il danno che crea il degrado nei rapporti di lavoro senza che i sindacati muovano un dito?

Finché le condizioni generali sono positive, l’economia tira e la ricchezza prodotta è in crescita, i danni dell’immigrazione possono essere assorbiti e in qualche modo tollerati dalla comunità. Il problema naturalmente si acuisce quando – come sta succedendo – l’economia è in crisi e il sistema occupazionale è al collasso, con licenziamenti, disoccupazione e grave disagio sociale. Si è già visto come la disoccupazione sia in rapida crescita e come colpisca sia i lavoratori italiani che gli stranieri: il 10,9% dei lavoratori italiani e il 23,8% di quelli stranieri ricevono nel 2010 un sussidio di disoccupazione, per un totale di circa 15 miliardi l’anno. Sembrerebbe giusto, in condizioni del genere, salvaguardare principalmente i cittadini italiani utilizzando la mano d’opera straniera nella sua reale funzione di serbatoio ausiliario di lavoro in positivo ma anche in negativo: integrare la mano d’opera italiana se questa davvero manca, e lasciare il posto agli italiani che lo cercano. La nostra comunità è tenuta a rispettare il patto sociale che lega al suo interno i suoi membri in forma privilegiata rispetto ai foresti. È perciò ragionevole pensare che in situazione di emergenza e di ristrettezze debbano essere gli stranieri i primi a subirne le conseguenza, essendo prioritario l’obiettivo di garantire un lavoro ai cittadini italiani. Secondo informazioni fornite dalla Caritas Ambrosiana, le persone che si sono rivolte nel 2010 ai Centri di Ascolto per richiedere aiuto sono aumentate del 10,7% rispetto al 2007, e ben del 59% rispetto al 2002. Essi sono ancora in larga parte stranieri ma gli italiani disagiati sono in rapido aumento e raggiungono il 26,4% del totale.

 

Il fenomeno induce a una doppia serie di riflessioni. La prima riguarda la costanza e l’entità del ricorso a strutture di sostegno da parte degli immigrati: se essi non sono in grado di sopravvivere adeguatamente alle condizioni in cui si trovano significa che non sono venuti per ricoprire un ruolo “normale” all’interno dei meccanismi sociali italiani, non sono qui cioè per fare lavori per cui non si è trovata offerta nazionale, e quindi non sono “utili” e meno che meno necessari alla nostra comunità. Sono cioè qui solo per trovare una forma di sussistenza e non certo per entrare a pieno titolo nei meccanismi sociali e produttivi. Questo spiega anche il numero di minori non accompagnati e di persone disabili al lavoro che sono entrati nella Repubblica italiana e per i quali in nessun modo può essere invocato lo status di lavoratore che integra la mano d’opera nazionale. La prima considerazione ci riporta direttamente alla falsità dei teoremi “stranieri = lavoratori”, “stranieri = risorsa per la comunità”.

La seconda considerazione riguarda il peggioramento delle condizioni generali e il danno che gli stranieri producono non solo all’economia in generale, ma proprio alle classi più deboli della nostra società, sottraendo loro il lavoro e costringendole a una immorale e dolorosa gara di dumping del valore della mano d’opera, a una degradante corsa a chi si offre per meno. Risulta cioè piuttosto chiaro – e la crisi economica rivela il problema in tutta la sua gravità – che gli stranieri sottraggono risorse alla comunità e soprattutto che le tolgono alle sue classi più disagiate. Per affrontare l’emergenza economica, oggi si devono dare i posti di lavoro agli italiani a scapito degli stranieri: non ha alcun senso – morale prima ancora che economico – avere milioni di disoccupati italiani a fronte di milioni di stranieri occupati e disoccupati. L’immigrazione è un pessimo affare in termini economici ed è disastrosa in termini sociali. Essa porta effimeri vantaggi a datori di lavoro troppo disinvolti e attenti solo al loro immediato tornaconto di cui scaricano i costi sociali sulla comunità. Sono gli stessi che non esitano a delocalizzare la produzione quando anche la delocalizzazione della mano d’opera non è sufficiente a mantenerli sul mercato. Le difficoltà a restare competitivi sono in gran parte generate dai costi eccessivi dell’apparato pubblico e della conseguente esosa fiscalità, utilizzata in larga parte per il mantenimento di strutture parassitarie e non in investimenti in infrastrutture. Così, se gli imprenditori sono costretti a ricorrere a mano d’opera sottopagata è anche responsabilità dell’inefficienza e della rapacità dello Stato e della comunità che lo legittima e supporta. Così i cittadini sono costretti a pagare due volte: lo Stato parassitario e l’immigrazione che esso procura e permette proprio con le sue inadempienze.

Oltre a ciò, l’immigrazione è sostenuta anche da chi è interessato, in nome dell’ideologia o della conservazione di privilegi settoriali a disgregare le nostre comunità indebolendone la capacità di reazione e di coesione politica. In particolare l’immigrazione è favorita da chi – a sinistra – non trova più sufficienti ragioni di scontro sociale nella lotta di classe e di chi – a destra – spera di ricompattare un senso di nazionalità messo in pericolo dalle istanze localiste creando un nuovo nemico comune: uno più diverso delle diversità interne. Essa è incoscientemente sostenuta da chi confonde – anche in buona fede – l’accoglienza indiscriminata con la solidarietà, la resa con il buonismo, di chi non si rende conto che favorendo il prossimo meno prossimo danneggia quello più prossimo, toglie di fatto ai più poveri e deboli dei nostri ogni occasione di emancipazione. Spesso sono proprio le anime pie dell’accoglienza i peggiori nemici degli ultimi dei nostri.

Tabella 6 - Alcuni numeri significativi

Immigrati regolari

4.570.000

Immigrati in attesa di regolarizzazione

400.000

Immigrati clandestini

700.000 – 1.200.000

Immigrati naturalizzati italiani

500.000

Immigrati iscritti all’Inps

2.000.000

Immigrati disoccupati

560.000

Immigrati imprenditori

628.000

Immigrati di seconda generazione

650.000

Studenti stranieri

710.000

Zingari

160.000

Immigrati in prigione

30.000

Prostitute straniere

25.000

Stranieri rimpatriati

16.000

Musulmani

1.500.000 – 2.000.000

Immigrati pensionati

294.000

Immigrati lavoratori dipendenti

520.000

Conclusioni
Oggi l’Italia è appesantita da alcuni grandi ordini di problemi, da enormi palle al piede che ne impediscono lo sviluppo e una esistenza civile, e che – nell’attuale disastrosa congiuntura economica – rischiano di causarne la bancarotta e la catastrofe sociale. Sono voragini di spesa, enormi falle che stanno facendo affondare la nave su cui tutti i cittadini italiani sono imbarcati. C’è una struttura statuale centralista, burocratizzata, inefficiente, elefantiaca e corrotta; le spese correnti dello Stato nel 2010 sono state superiori ai 460 miliardi, di cui 91 per stipendi al personale, non sempre necessario, spesso inutile, a volte addirittura dannoso per la vita comunitaria. Il pubblico impiego è stato utilizzato storicamente in Italia come ammortizzatore sociale e serbatoio di consenso elettorale: ci sono più pubblici dipendenti della maggior parte dei paesi occidentali, anche di quelli che hanno una popolazione assai più numerosa e che assicurano servizi sociali di livello molto più elevato. Pur restando in termini percentuali sotto agli altri paesi europei, l’Italia– ad esempio – nel 2010 spende 23,5 miliardi di Euro solo in spese militari. Secondo Cisl e Uil l’evasione fiscale ha raggiunto nel 2010 i 150 miliardi anche senza l’elusione; ci sono regioni settentrionali dove l’evasione ha tassi fisiologici simili o addirittura inferiori a quelli degli altri paesi avanzati d’Europa, ma ci sono parti della penisola dove essa raggiunge livelli del tutto inaccettabili. L’evasione è combattuta solo a parole o con iniziative vessatorie che colpiscono solo le regioni più virtuose e le classi produttive già tartassate.

Una debordante malavita organizzata si sta espandendo in ogni angolo della penisola e ha costi sociali ed economici enormi: nel 2009 il suo “fatturato” è arrivato, secondo il rapporto “Sos Impresa” della Confesercenti a 135 miliardi, con un utile di 70 miliardi di Euro. A essa si affiancano attività ai limiti della legalità – come gioco e scommesse – che sfuggono quasi totalmente alla contribuzione fiscale. L’arretratezza cronica del Mezzogiorno assistito e mal governato costa alle regioni padane prezzi elevatissimi che impediscono loro di competere sul mercato globale ai livelli di eccellenza che hanno sempre conosciuto: nel 2007 esse hanno trasferito verso Sud 56 miliardi di Euro. In realtà il trasferimento è molto superiore ma difficilmente quantificabile proprio per l’estrema frammentazione delle voci e per l’impegno dello Stato a minimizzare la percezione e la conoscenza del fenomeno, per ragioni analoghe a quelle per cui si cercano di occultare i dati relativi all’immigrazione.

Secondo la Confcommercio, nel 2010 la “casta” è costata 9 miliardi; secondo la Uil ci sono circa 1,3 milioni di persone che vivono direttamente o indirettamente di politica con un costo di 24,7 miliardi nel 2010. É una delle voci di spesa più odiose e immorali perché riguarda i privilegi di chi dovrebbe vegliare sulla correttezza dell’utilizzo delle risorse comuni. Ci sono i danni della corruzione, del clientelismo (pensioni fasulle, tangenti, appalti truccati) e quelli delle opere pubbliche inutili: altri miliardi. L’Indice di propensione alla corruzione del 2011 mette l’Italia in coda a tutti i paesi occidentali. É molto difficile quantificare queste spese, che servono per costruire e mantenere il consenso politico ed elettorale di chi detiene il potere. Il Saet (Servizio anticorruzione e trasparenza) della Presidenza del Consiglio ha calcolato nel 2009 un costo fra 50 e 60 miliardi di Euro.

A tutte queste sciagure se ne aggiunge oggi un’altra che rischia di dare un colpo mortale a un paese già in grave affanno: alcune decine di miliardi di costi rappresentati dall’immigrazione. C’era proprio bisogno di inventarsi un altro problema? Non bastavano i guai più antichi e “cronicizzati”? É urgente e vitale risolverlo, anche con decisioni drastiche e coraggiose. Occorre prendere atto che permettere l’ingresso a tanti milioni di foresti è stato un grande errore, che ora rischia di trasformarsi in incubo. Occorre cominciare a predisporre un serio piano di rientro di tutti gli immigrati che non abbiano una loro stabile collocazione all’interno delle strutture produttive reali. Il rimpatrio di milioni di persone deve essere scaglionato e strutturato su esigenze funzionali ma anche umanitarie. Ai prezzi attuali l’estromissione in blocco di tutti gli stranieri costerebbe sui 60 miliardi e potrebbe essere ammortizzata in meno di un paio di anni di costi dell’immigrazione, ma non può essere questa la strada da percorrere.

Il progetto di “uscita” va ripartito in fasi diverse: i primi a rientrare devono essere i clandestini, poi i regolari che commettono reati, poi i regolari disoccupati, poi quelli che perdono il lavoro, poi quelli che vengono sostituiti gradualmente dai disoccupati italiani. Ciascun gruppo va accompagnato, quando non addirittura preceduto, dai famigliari ricongiunti. Tutte le proprietà e i diritti acquisiti vanno rispettati e per i regolari che hanno sempre tenuto un comportamento ineccepibile si possono anche studiare forme di incentivazione al rimpatrio o particolari generi di collaborazione economica nei loro paesi con le imprese italiane che intendono stabilire rapporti economici con l’estero. Potrebbero infatti trasformarsi in “terminali” delle attività economiche e commerciali italiane nei loro paesi di origine. Si deve poi mandare a regime un diverso sistema di utilizzo di mano d’opera straniera, ove questa fosse ancora necessaria, basato su contratti a tempo, forniture di prestazioni sociali sicure (alloggio, sanità eccetera) e sull’impossibilità di soggiorni definitivi. In questi tipi di rapporti lavorativi andranno privilegiati i lavoratori che hanno già soggiornato in Italia, che ne parlano la lingua e che non hanno mai avuto problemi con la legge. É, in quest’ottica, essenziale che gli stranieri che entrano: 1) abbiano un contratto di lavoro a termine, 2) abbiano un alloggio procurato dal datore di lavoro, 3) siano coperti da una assicurazione o da un garante responsabile, 4) soddisfino tutta una serie di requisiti minimi (conoscenza della lingua, controllo sanitario, fedina penale in ordine), 5) dispongano di documenti di riconoscimento e di ritorno. Solo così si riuscirebbe a costruire una rete di rapporti economici vantaggiosi per tutti, senza creare problemi sociali in Italia o nei paesi di origine dei lavoratori. L’intera operazione deve poter funzionare su basi volontarie e di mutuo rispetto: ove non fosse possibile, si deve creare per i clandestini e i riluttanti un meccanismo di pressione e dissuasione alla clandestinità basata sul lavoro coatto a vantaggio della comunità. Chi non vorrà rimpatriare sarà ospitato in strutture di lavoro per periodi di tempo adeguati a ripagare la comunità delle spese di mantenimento e di rimpatrio: al termine dell’impegno saranno loro consegnati un documento di viaggio e una somma di reinserimento in patria tratta da quanto da loro prodotto.

Un altro tipo di azione per contenere e diminuire la presenza negativa degli stranieri sul mercato e nella nostra vita comunitaria potrebbe essere rappresentata da disincentivi fiscali nei confronti di cittadini italiani e degli stessi stranieri. Si potrebbe ad esempio introdurre una tassa a carico dei datori di lavoro che impiegano mano d’opera straniera almeno fin tanto che ci sono italiani disoccupati o in cerca di lavoro; si potrebbe anche introdurre una tassa aggiuntiva anche sugli affitti di alloggi locati a cittadini stranieri. Gli stessi stranieri dovrebbero poi essere sistematicamente sottoposti a controlli fiscali allo scopo di accertare con severità ogni tipo di evasione e di verificare le fonti di sussistenza di tutti gli immigrati. In un sistema del genere non ci sarebbe più spazio per la necessità di assistenza a stranieri disagiati proprio per l’impossibilità della formazione di situazioni di disagio. Di sicuro, le nostre comunità non sono più in grado di sostenere l’attuale sistema di immigrazione, che è un incubo sociale e che costa ogni anno come parecchie finanziarie. L’attuale difficile congiuntura economica non fa che rendere più evidente un errore che si protrae da troppi anni e che si abbatte su un paese già oberato da altre grandi difficoltà. Così come è stata impostata, l’immigrazione non è una ricchezza ma un terribile costo sociale ed economico: é certo che, senza gli immigrati, l’economia del paese non si fermerebbe affatto. Anzi. In queste condizione, quella dell’immigrazione rischia di trasformarsi nella più grande sciagura toccata alla penisola in millenni di storia.

Una ultimissima considerazione, ma non per questo meno determinante, va fatta a proposito di chi ha inventato, favorito e coperto il fenomeno, e di chi ancora oggi tenta di farlo passare come un evento dalle valenze positive. Le cause vanno ricercate lontano, nelle radici stesse dell’economia moderna apolide e globalizzata, nell’indifferenza che la grande finanza mostra nei confronti della gente, delle sue esigenze, della cultura e del principio stesso di umanità. Gli uomini sono considerati pedine, forza lavoro o numeri che possono essere spostati a piacimento. In questo contesto amorale si sono collocati con facilità anche interessi più specifici di ordine politico o di egoismo economico: ideologie rivoluzionarie che si aggrappano a qualsiasi contrasto sociale per raggiungere i loro obiettivi (e che in mancanza di contrapposizioni ne creano di nuove); Stati che utilizzano l’immigrazione per giochi di potenza, di destabilizzazione o di ricatti internazionali; trusoni che realizzano facili guadagni giocando sui bisogni dei più deboli e scaricando i costi sulla società; avventurieri della più bassa politica che speculano su reazioni e sentimenti per trasformarli in consenso elettorale; associazioni criminali che sfruttano la miseria degli uni e le debolezze morali degli altri. Sembra quasi che l’immigrazione sia una sorta di catalizzatore delle peggiori pulsioni della nostra società. Una attenzione speciale meritano infine quelli che a tutti i costi vogliono trasformarla in un fatto positivo, quelli che cercano di nasconderne tutti gli aspetti più deleteri, che la descrivono come una sorta di meraviglia o benedizione della natura, quelli che truccano i dati, i numeri e le informazioni per evitare reazioni. Sono i maestri delle cure palliative, quelli che vogliono convincere gli ammalati gravi di essere sani e far credere loro che i sintomi che percepiscono siano gioiose manifestazioni di vitalità. É un compito ingrato ed eroico per chi lo fa a fin di bene, ma un’infamia se le motivazioni sono altre.

Nel bel mezzo della drammatica crisi economica e politica, fra una pensosa consultazione e l’altra per tentare di formare un governo di emergenza, il presidente Napolitano ha trovato nell’autunno 2011 il tempo per ricevere una delegazione di giovani stranieri aspiranti alla posizione di “nuovi italiani” e ha sentenziato che gli immigrati: 1) «rappresentano una grande fonte di speranza», 2) «sono la linfa vitale per il Paese», 3) «servono anche loro a sostenere il fardello del debito pubblico». Forse voleva dire “creare”, più che “sostenere”. Ma non c’è da stupirsi: il Quirinale costa ai contribuenti italiani circa 235 milioni di Euro l’anno. É il decimo di quanto versano in Irpef tutti gli immigrati messi assieme. Ma è anche quello che pagano in tasse città come Pinerolo, Treviglio o Spoleto: è come se ciascuna di queste comunità lavorasse solo per mantenere la Corte. Uno straordinario modello per i “nuovi italiani” offerto da certi “vecchi italiani”, così affezionati alla Patria e allo Stato, in cui vedono – secondo Frédéric Bastiat «la finzione secondo la quale tutti credono di poter vivere alle spalle di tutti gli altri». L’Italia lo è in modo speciale e gli immigrati lo hanno capito perfettamente.

di GILBERTO ONETO

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