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QUASIMODO e la Seconda Guerra Mondiale, Tre Poesie

Post n°343 pubblicato il 17 Maggio 2016 da marialberta2004.1
 
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Maria Alberta Faggioli Saletti

Quasimodo e la Seconda Guerra Mondiale, Giorno dopo giorno (1947)--Tre poesie sulla seconda Guerra Mondiale

Analizziamo tre poesie, “Milano, agosto 1943”, Alle fronde dei salici”, “Uomo del mio tempo”, che ricordano gli spietati bombardamenti aerei su Milano, ormai la città in cui egli viveva. Anche oggi leggendole, si rimane colpiti dalle immagini drammatiche e limpide che risuonano nel profondo di ognuno.

Nella citata motivazione ufficiale per il Premio Nobel (Discorso di Anders Osterling dell’Accademia svedese), tra gli altri meriti di Quasimodo, si sottolinea come egli non sia il solo poeta italiano che abbia cantato il tragico destino del suo popolo, “ma la cupa, appassionata gravità del poeta siciliano possiede un particolare accento”. Inoltre, “il confronto sempre presente con la morte”, accompagnato alla “quotidiana emozione di ignoti lutti”, in poesie di “monumentale struttura”, lo rendono “l’interprete della vita morale” di tutti.

Milano, agosto 1943, Giorno dopo giorno (1947)

Milano, nodo viario di prim’ordine, centro delle industrie belliche e civili dell’Alta Italia, viene sottoposta, nell’estate del 1943, a massicci bombardamenti da parte dell’aviazione alleata (inglese e americana), con devastazioni non solo di stabilimenti militari, cantieri, scali ferroviari, ma anche di conventi, scuole, ospedali, abitazioni civili, e con l’uccisione di civili innocenti. La poesia di Quasimodo “dice” lo strazio della città sulla quale, nel centro storico (sul cuore del Naviglio,) è passato l’ultimo fragore(rombo) delle incursioni che ha fatto tacere anche la voce degli uccelli; “dice” lo sgomento e la disperazione dei sopravvissuti: qualcuno cerca tra le macerie della casa crollata, qualcuno scava pozzi nei cortili per procurarsi l’acqua che non esce più dalle tubazioni rotte, qualcun altro tenta pietosamente di dissotterrare i morti e comporli per l’ultima sepoltura. Insensati, dice il poeta, tutti quelli che si illudono sulla possibilità di ripresa della vita, perché i vivi non vogliono più vivere(i vivi non hanno più sete), il cimitero dei morti èin mezzo alle macerie delle case crollate. Il grido straziante la città è morta viene ripetuto quattro volte

Invano cerchi tra la polvere,/ povera mano, la città è morta./ E’morta: s’è udito l’ultimo rombo/ sul cuore del Naviglio. El’usignolo/ È caduto dall’antenna, alta sul convento,/dove cantava prima del tramonto./ Non scavate pozzi nei cortili:/ i vivi non hanno piùsete./ Non toccate i morti, così rossi, così gonfi:/ lasciateli nella terra delle loro case: / la città è morta, è morta. 


Alle fronde dei salici, Giorno dopo giorno (1947) 

In pochi versi, endecasillabi sciolti, nei quali manca ogni accento di odio, viene rappresentata la somma delle sofferenze e dello scempio patito dagli abitanti del centro e del nord d’Italia, negli anni più crudeli della guerra e dell’occupazione tedesca.

Quasimodo interroga in modo efficace su come potessero cantare i poeti degli italiani, quando il piede straniero era pesantemente appoggiato sopra il loro cuore (il verso contiene un motivo presente nella lirica patriottica dell’Ottocento), e le vittime delle rappresaglie tedesche impiccate nelle piazze, per ammonimento,giacevano senza sepoltura abbandonate sull’erba indurita dal gelo (sull'erba dura di ghiaccio), quando il lamento dei fanciulli era come il belato degli agnelli, e la madre con un urlo disperato (nero),correva incontro al figlio crocifisso sul palo del telegrafo, rinnovando lo strazio della madre di Cristo.

Nella conclusione della lirica, i supplizi degli italiani sono legati idealmente a quelli degli Ebrei vinti, e resi schiavi dai babilonesi, con un’immagine ricca di significati simbolici tratta dal Salmo biblico 136. Nel salmo, si racconta che i poeti del popolo ebraico, durante la servitù babilonese, si rifiutarono di cantare in terra straniera e, come giuramento (voto), appesero ai rami dei salici le cetre con cui erano soliti accompagnare i loro versi. Anche il salice biblico rappresenta il dolore dell’umanità, come l’abbandono dei morti,il pianto dei bambini, e l’urlo della madre.

E come potevamo noi cantare/ con il piede straniero sopra il cuore,/ fra i morti abbandonati nelle piazze / sull'erba dura di ghiaccio, al lamento/ d'agnello dei fanciulli, all'urlo nero/ della madre che andava incontro al figlio/ crocifisso sul palo del telegrafo ?/ Alle fronde del salici, per voto,/ anche le nostre cetre appese,/ oscillavano lievi al triste vento. 


Uomo del mio tempo, Giorno dopo giorno (1947)

La poesia è stata scritta nell’ultimo periodo della guerra, il più crudele, durante il quale la volontà omicida è talmente accanita da sembrare che provenga dai millenni precedenti. Per il poeta, l’uomo del suo tempo è lo stesso dell’età della pietra, quello che usava  come armi la clava e la fionda per lanciare i sassi. Ed egli se ne sta alla guida di un aereo (nella carlinga), tra le ali cattive, fisso alle lancette (meridiane di morte) che indicano l’esatto momento in cui sganciare le bombe, oppure dentro il carro armato, o vicino alle forche e alle ruote della tortura. E’ l’uomo che segue le scienze esatte, come la matematica e la fisica, con scopi di sterminio anziché di pace, senza Cristo, cioè senza la sua legge d’amore, quindi continua ad uccidere, come uccidevano i progenitori e gli animali viventi sulla terra in quei tempi. 

Questo uomo si comporta come Caino che, secondo il racconto biblico della Genesi, invitò il fratello Abele ad andare insieme ai campi, per poi scagliarsi contro di lui e ucciderlo. L’eco fredda, mai affievolita (tenace) delle parole “andiamo ai campi” ha percorso i secoli ed è penetrata nella vita di tutti i giorni.

Non c’è salvezza per l’uomo, se non dimentica il sangue che  inzuppa la terra tanto da produrre nuvole di sangue, se non rifiuta tutte le stragi, l’eredità dei padri. Le loro tombe, anziché essere venerate dai figli come altari, debbono affondare nella cenere degli incendi e delle rovine, se i figli vogliono salvarsi.

 Sei ancora quello della pietra e della fionda,/uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,/con le ali maligne, le meridiane di morte,/t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche,/alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,/con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,/senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,/come sempre, come uccisero i padri,come uccisero/gli animali che ti videro per la prima volta./E questo sangue odora come nel giorno/Quando il fratello disse all’altro fratello:/«Andiamo ai campi». E quell’eco fredda, tenace,/è giunta fino a te, dentro la tua giornata./Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue/Salite dalla terra,dimenticate i padri:/le loro tombe affondano nella cenere,/gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore. 

 
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