Creato da marina1811 il 04/01/2009

PAROLE ONDEGGIANTI

Tutto ciò che ho voglia di scrivere

 

Fiori. Natura e simbolo dal seicento a Van Gogh. Forlì 2010

Post n°53 pubblicato il 21 Giugno 2010 da marina1811


 

Considerata una delle più belle nature morte di tutti i tempi, la "Fiasca fiorita" di Forlì è un dipinto di cui non è stato ancora risolto il mistero. Non conosciamo il suo autore. I diversi nomi suggeriti (ad esempio Cagnacci) collocano il suo autore in un ambito artistico che ha come referente Caravaggio.

Probabilmente il quesito è destinato a rimanere irrisolto. Una cosa però è certa: si tratta di un quadro eseguito non da uno specialista di fiori, ma da un grande maestro appartenente alla categoria, allora considerata la più prestigiosa, quella dedita alla rappresentazione della figura umana, alla pittura sacra, a quella di storia e al ritratto.

Attorno e a partire da questo capolavoro, nelle sale del Museo San Domenico di Forlì, si sviluppa una grande mostra che ripropone, da un punto di vista e con un approccio metodologico del tutto nuovi, la storia della pittura di fiori, tra il naturalismo caravaggesco e l’affermazione della modernità con Van Gogh e il simbolismo, giungendo fino alle soglie del Novecento, prima della comparsa delle avanguardie storiche.

I capolavori di Van Dyck, Brueghel, Cagnacci, Guercino, Strozzi, Dolci, Cignani e di altri grandi pittori di storia che hanno eccezionalmente dipinto quadri di fiori, aiuteranno se non a risolvere, ad avvicinarsi al mistero, che è poi racchiuso nel segreto della sua straordinaria bellezza, della "Fiasca fiorita" di Forlì.

All’apice del Barocco, la fortuna del genere porterà alla nascita di una vera e propria specializzazione e alla frequente collaborazione tra pittori di figura e pittori di fiori.

I 100 capolavori esposti dimostrano come i quadri di fiori o i quadri di figura dove l’elemento floreale assume un rilievo simbolico e formale eguale se non superiore abbiano raggiunto un’intensità e un’originalità estetiche assai superiori alla convenzionalità che caratterizza la pittura dei cosiddetti "Fioranti".

Rispetto al Settecento, quando il tema sembra diventare prevalentemente decorativo, l’Ottocento conosce una straordinaria ripresa. Mentre gli specialisti riducono la pittura di fiori a una produzione esclusiva e di grande qualità, ma inevitabilmente commerciale, sono proprio i protagonisti dei grandi movimenti della pittura moderna, dal Romanticismo al Realismo, dall’Impressionismo al Simbolismo, a reinventare il genere dandogli un nuovo significato.

Hayez, Delacroix e Courbet, Fantin-Latour, Leighton, Moore, Alma Tadema, Gauguin e Monet, De Nittis, Boldini e Zandomeneghi, Böcklin, Van Gogh e Previati saranno rappresentati con quadri di fiori o di figure caratterizzati spesso proprio dalla ripresa di motivi seicenteschi, ma ispirati soprattutto dalla volontà, tutta moderna, di scardinare la gerarchia dei generi. Ai valori del contenuto si sostituiscono quelli della forma, unendo a nuove valenze simboliche (come accade anche in letteratura, se solo pensiamo ai Fleurs du Mal di Baudelaire) la magia della pura visione dell’occhio dell’artista che registra le impressioni della natura e crea una nuova realtà superiore, quella dell’arte.

Come la grande mostra canoviana del 2009, che ha riscoperto i fondamentali rapporti tra Canova e Forlì, anche questa volta la prima parte della rassegna intende approfondire gli interessi naturalistici nella società e nella cultura forlivese, mostrando il prestigio raggiunto a livello mondiale dal botanico Cesare Majoli (1746 – 1823). Le sue tavole illustrate di fiori saranno messe a confronto con i dipinti di alcuni dei maggiori "Fioranti" tra Seicento e Ottocento.

 
 
 

Caravaggio

Post n°52 pubblicato il 21 Giugno 2010 da marina1811

20 febbraio - 13 giugno 2010
Mostra ideata da Claudio Strinati. A cura di Rossella Vodret e Francesco Buranelli



Una mostra dedicata al celeberrimo, e celebratissimo, "genio lombardo" in un'ottica radicalmente innovativa e aggiornata.
In anni recenti, il gran numero di ricerche, studi, esposizioni e interventi sulle vicende biografiche e artistiche di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio ha confermato l'universale e crescente interesse intorno alle vicende artistiche del pittore e al suo ruolo cardine all'interno della storia dell'arte degli ultimi quattrocento anni. E' questo lo sfondo e il clima in cui è nata l'idea di una nuova e ambiziosa - pur nella sua "semplicità" - iniziativa espositiva. Una mostra lineare ed emozionante, immaginata secondo un criterio assolutamente rigoroso, presentata al pubblico in un percorso sintetico, non antologico, incentrato sulle sole opere "capitali", vale a dire sulle sole opere di Caravaggio storicamente accertate.
La scelta di privilegiare l'autografia sicura dei dipinti ha portato a escludere la produzione variamente riferita alla sua "bottega", così come sono state poste a margine, quasi lasciate momentaneamente in sospeso, le "ulteriori versioni" e tutte le questioni sulle quali la critica del Novecento si è più volte confrontata, e continua a farlo, con pareri non sempre concordi. Il risultato finale è un percorso coerente e rigoroso che getta una nuova luce sui diversi momenti del sofferto iter evolutivo del linguaggio di Caravaggio: un percorso emozionante e cristallino che depura ed esalta l'eccezionalità e unicità della sua opera.

In mostra opere tra le più rappresentative dell'artista lombardo come la Canestra di frutta (fiscella) dalla Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano, il Bacco dalla Galleria degli Uffizi di Firenze, Davide con la testa di Golia dalla Galleria Borghese di Roma, I musici dal Metropolitan Museum di New York, il Suonatore di liuto del Museo dell'Ermitage di San Pietroburgo, l'Amor vincit omnia dallo Staatliche Museum di Berlino e altri capolavori dai più importanti musei d'Italia e del mondo; una sorta di omaggio all'unicità dell'opera di Caravaggio proprio nell'anno dedicato alle celebrazioni per i quattrocento anni dalla morte del maestro lombardo.

La mostra delle Scuderie del Quirinale si pone, quindi, come un nuovo e appassionato momento di riflessione, un'occasione unica per penetrare l'essenza dell'arte del pittore "terribilmente naturale", il suo rivoluzionario e sbalorditivo criterio di naturalismo, la sua ostinata, seppure dialettica, deferenza al vero, irriducibile a schemi e a scuola, solitaria nella sua grandezza e poesia.

 
 
 

Uccelli di rovo

Post n°51 pubblicato il 21 Giugno 2010 da marina1811

La storia dei Cleary inizia ai primi del '900 e si conclude ai giorni nostri, nel grandioso scenario naturale dell'Australia. Gli anni consumano le vite in una vicenda di sentimenti e passioni, di fede e amore, sulla quale si stende grave e inesorabile il senso della giustizia divina. I personaggi soprattutto memorabili figure femminili, tenere e orgogliose - vanno incontro al destino come gli uccelli di rovo della leggenda australiana, che cercano le spine con cui si danno la morte.

Uccelli di rovo 

 
 
 

Il paese delle prugne verdi

Post n°50 pubblicato il 21 Giugno 2010 da marina1811

Nella Romania degli anni Ottanta, quasi sospesa nel tempo, quattro giovani si ritrovano uniti dal suicidio di una ragazza di nome Lola. Da quel dolore e dalla consapevolezza di vivere in un Paese sottomesso alla dittatura, scaturisce un comune anelito di libertà che si nutre di letture e pensieri proibiti. Ben presto però i quattro devono fare i conti con l'onnipresenza del terrore. Agli interrogatori sistematici della polizia segreta, ai pedinamenti e agli atteggiamenti intimidatori segue la perdita del lavoro e, quand'anche si riesca a espatriare, ecco che le minacce proseguono e la morte ritorna sotto forma di misteriosi suicidi. In tutta questa oscurità, l'amicizia e l'amore sopravvivono. Grazie a uno stile evocativo e immaginifico, Herta Müller - che come la protagonista del romanzo appartiene a una minoranza di lingua tedesca della Romania - riesce a trovare e far scaturire la poesia persino dal degrado materiale e spirituale di un'intera nazione.

 
 
 

Quei bravi ragazzi

Post n°49 pubblicato il 21 Giugno 2010 da marina1811

Cresciuto a Brooklyn, l'italo-irlandese Ray Hill (R. Liotta) ha una sola aspirazione: diventare un gangster. Ci riesce, ma finirà per denunciare i compagni, rassegnandosi a un'esistenza grigia e nascosta sotto una falsa identità. Un film sulla mafia gangsteristica italo-americana diverso dagli altri. Con l'occhio impassibile di un antropologo, su una sceneggiatura scritta con Nicholas Pileggi e tratta dal suo romanzo Wise Guys, Scorsese racconta la normalità del delitto al quale non concede nemmeno attenuanti psicologiche o sociali. La morte violenta v'incombe nei modi più efferati, ma in questa storia di piccoli operai del crimine conta la vita quotidiana dei goodfellas: comportamenti e riti familiari, differenze etniche, sottigliezze verbali, rapporti tra famiglia e Famiglia, come lavorano, si vestono, stanno in cucina, si divertono. Come “si fanno”. Non è un romanzo, ma una relazione clinica. Senza lieta fine né catarsi. 6 candidature agli Oscar, vinse J. Pesci, attore non protagonista. Locandina italiana Quei bravi ragazzi

 
 
 

Basilicata coast to coast

Post n°48 pubblicato il 11 Giugno 2010 da marina1811

 

Nicola Palmieri insegna storia dell'arte e coltiva il sogno della musica. Frontman entusiasta di un gruppo di amici col vizio degli strumenti, compone canzoni e vorrebbe esibirsi sul palcoscenico scanzonato di Scanzano. Salvatore, alla chitarra, è uno studente di medicina che ha dimenticato di laurearsi e di innamorarsi, Franco, al contrabbasso, è pescatore di pesca libera a cui l'amore ha tolto parole e intenzioni, Rocco, alle percussioni, è un villano di grande fascino ossessionato dalla celebrità. Decisi ad attraversare la Basilicata dal Tirreno allo Ionio, intraprenderanno un viaggio picaresco, ripreso da una televisione parrocchiale e accompagnato da una giornalista svogliata e annoiata. Tra una canzone alla luna e un bicchiere di Aglianico, Nicola e compagni accorderanno la loro vita e canteranno sotto pioggia la loro canzone più bella.
Finalmente lo spazio comico e lirico torna ad essere quello dell'Italia meridionale. Un'area geografica che il cinema italiano ha frequentato negli ultimi tempi solo per raccontare la criminalità organizzata e la globalizzazione del male, le periferie degradate e il disagio socio-economico. Ai personaggi privi di innocenza che muoiono alla luce di lampade solari si sostituiscono allora gli antieroi lucani di Rocco Papaleo, al suo debutto dietro la macchina da presa. L'attore mette in scena la progressiva conoscenza di una realtà antropologica e culturale troppo spesso ignorata, attraverso un viaggio e un'esperienza che indaga il cuore del Sud e lo comprende dentro una commedia di innegabile simpatia. Vuoi per il talento nella descrizione dei luoghi e nella costruzione di un'atmosfera, vuoi per la felicità di alcune caratterizzazioni, ma soprattutto per una profonda sincerità che deriva da premesse chiaramente autobiografiche.
I musicisti intonati di Papaleo si muovono a piedi sullo sfondo di una periferia mediterranea e solare e i loro sguardi si aprono su una natura "popolare". Alla luce piena di un sole che sta "di fronte" a loro e dentro alla vitalistica solarità di una cornice senza ombre, i quattro protagonisti escono da loro stessi e crescono nel viaggio, procedendo verso il finale e il mare Ionio, verso un ritmo altro e una musica altra, che pervade il film dall'inizio, risolvendosi in un concerto alla luna e in una gioiosa rinascita. Fermandosi ad Aliano per un brindisi a Carlo Levi e a Gian Maria Volonté (che lo ha interpretato sullo schermo per Francesco Rosi) e proseguendo in direzione ostinata e contraria, i vaghi musicisti lucani passano per la ricerca dell'altro e approdano alla consapevolezza di sé. A Papaleo non interessa tanto la ricerca e l'espressione di un malessere esistenziale, quanto la forma subliminale e distratta di quell'espressione.
La commedia picaresca, agita e suonata in una Basilicata che ha cortocircuitato briganti nazionali e guerriglieri argentini e ha "contaminato" tradizioni irrazionali con leggende tangibili, procede da una costa all'altra, seducendo il pubblico con la lentezza dell'andare e la pienezza dei colori, dei suoni ma soprattutto dei volti, impenetrabili e immobili come quello di Max Gazzé, bassista di tante note e nessuna parola. Basilicata coast to coast è un film aperto e appagato, un progetto a mano libera di una piena fantasia, in cui l'estremo senso e l'estremo nonsenso si toccano e si armonizzano.

 
 
 

Mondo senza fine di Ken Follet

Post n°47 pubblicato il 11 Giugno 2010 da marina1811

È il 1327. Il giorno dopo Halloween quattro bambini si allontanano da casa a Kingsbridge. Il gruppo, composto da un ladruncolo, un bulletto, un piccolo genio e una ragazzina dalle grandi ambizioni, assiste nella foresta all'omicidio di due uomini. Una volta adulti, le vite di questi ragazzi saranno legate tra loro da amore, avidità, ambizione e vendetta. Vivranno momenti di prosperità e carestia, malattia e guerra. Dovranno fronteggiare la più terribile epidemia di tutti i tempi: la peste. Ma su ciascuno di loro resterà l'ombra di quell'inspiegabile omicidio cui avevano assistito in quel fatidico giorno della loro infanzia. Seguito ideale de "I pilastri della terra" Follett ritorna al Medioevo ambientando "Mondo senza fine" due secoli dopo la costruzione della cattedrale gotica di Kingsbridge, sullo sfondo di un lento ma inesorabile mutamento - che rivoluzionerà le arti quanto le scienze in cui ci si lascia alle spalle il buio e si cominciano a intravedere i primi bagliori di una nuova epoca.

 
 
 

Ragionevoli dubbi

Post n°46 pubblicato il 17 Aprile 2010 da marina1811

"Oltre alle regole scritte, quelle del codice e delle sentenze che lo interpretano c'è una serie di regole non scritte. Queste ultime vengono rispettate con molta più attenzione e cautela. E fra queste ce n'è una che più o meno dice: un avvocato non difende un cliente buttando a mare un collega. Non si fa, e basta. Normalmente chi viola queste regole, in un modo o nell'altro, la paga. O perlomeno qualcuno cerca di fargliela pagare". L'avvocato Guido Guerrieri deve correre questo rischio. C'è un uomo in carcere che si dichiara innocente, condannato in primo grado per traffico di droga. Le circostanze sono schiaccianti e lui stesso, in un primo momento, aveva confessato. Ma c'è però la possibilità che sia finito in una trappola orchestrata dall'avvocato di primo grado. Un maledetto imbroglio, dunque, che Guerrieri è restio a caricarsi, e non solo perché tutte le apparenze sono contro. Il detenuto non è una faccia nuova: ai tempi del movimento studentesco lo chiamavano Fabio Raybàn, picchiatore fascista ossessione dell'adolescenza di Guido. C'è anche una situazione personale ambigua che coinvolge l'avvocato: la fine forse di un amore, l'inizio pericolosissimo di un altro, e in ciascuno di questi incroci sembra materializzarsi lui, il detenuto che si proclama disperatamente innocente.

 
 
 

Elizabeth - 1998

Post n°45 pubblicato il 17 Aprile 2010 da marina1811

I primi, difficili anni di regno di Elisabetta Tudor (1533-1603), figlia (ripudiata) di Enrico VIII e Anna Bolena, che nel 1558 succede sul trono alla sorellastra Maria, rifiuta di sposarsi e, scampata agli attentati, diventa la Regina Vergine, dopo aver eliminato nemici esterni e interni. Dopo una ventina di film muti e sonori (con Sarah Bernhardt, Florence Eldridge, Bette Davis, Jean Simmons, Glenda Jackson, ecc.) ecco un'Elisabetta interpretata da una giovane e brava attrice australiana, scritta dall'inglese Michael Hirst e diretta da un regista pakistano, classe 1945, ex attore. Prodotto dalla Polygram, è un fastoso polpettone in costume zeppo di assassinii, attentati, intrighi di palazzo, torture, tradimenti, balli e mimi di corte, in forma di romanzo di formazione (e mutazione) dove il privato prevale sul pubblico e si privilegia l'importanza di Sir Francis Walsingham (l'australiano G. Rush), machiavellico capo della polizia segreta, a scapito di Sir William Cecil (R. Attenborough).

 
 
 

Osteria Candalla

Post n°44 pubblicato il 03 Aprile 2010 da marina1811

L'osteria Candalla si trova a Camaiore, nella frazione di Lombrici e prende il nome dalla una zona pre-montana del paese in cui è ubicata. Circondata da ruscelli, cascatelle ed una fitta vegetazione, l'osteria è ricavata da un vecchio mulino ristrutturato ed ha sia coperti interni, che esterni, sistemati su delle terrazze lungofiume. Offre una cucina tipica dell'area versiliese e dintorni ed è principalmente costituita da portate di terra, come i crostini, i formaggi ed i salumi tipici come antipasto; primi costituiti da zuppe con verdure di stagione e paste fresche condite con cacciagione o funghi; secondi di carne cotte in griglia o al forno ed assaggi di dessert misti. Il tutto cucinato con ingredienti freschi e locali ed accompagnato da una carta dei vini con maggioranza di etichette toscane. Disponibile anche una scelta di bollicine e distillati.

 
 
 

Le Repubbliche Marinare – Pisa

Post n°43 pubblicato il 03 Aprile 2010 da marina1811

Ristorante squisito in un vicolo vicino ai lungarni a Pisa. Mi hanno colpito la cura per il cliente e l’attenzione con la quale viene gestito il ristorante; come l’apparecchiatura, i fiori freschi su ogni tavolo, i bicchieri, il secchiello col ghiaccio per il vino bianco e il tutto in un ristorante non esclusivo e non particolarmente elegante. Il menù poi è all’altezza della prima impressione: sulla prima pagina si legge che la cucina è rigorosamente espressa, per cui il ristorante si scusa in anticipo per l’attesa, che comunque non è assolutamente lunga. Le proposte sono varie, in genere tradizionali, ma il menù non risulta comunque monotono.

I piatti sono buoni, curati, abbondanti. Menzione speciale per il polpo con i pomodorini freschi che è squisito, ma anche i totani con i carciofi sono buoni, e le altre cose che ho assaggiato come la tagliata di tonno e soprattutto i dolci da favola!!!

Un’altra lode speciale alla scelta dei vini e in particolare a quella dei vini per accompagnare i dolci, che è veramente all’altezza di ristoranti ben più sofisticati. Il sommelier consiglia volentieri i vini e gli abbinamenti.

 
 
 

Dragon trainer

Post n°42 pubblicato il 30 Marzo 2010 da marina1811

Hiccup è un giovane vichingo che, come spiega lui stesso, vive in un villaggio sperduto nel nulla, in una landa fredda, inospitale, con poco da mangiare e soprattutto infestata dai draghi. Perchè la comunità non si sposti è insieme la premessa del racconto e il tratto più saliente della dialettica che lo anima: i vichinghi sono cocciuti e invece che spostarsi preferiscono combattere, non a caso sono tutti grandi e grossi. Tutti tranne Hiccup.
Figlio del capo del villaggio Hiccup è secco e inadatto al combattimento, ha una spiccata passione per la costruzione di macchinari (con cui tenta di uccidere draghi) e una conseguente inclinazione per la creazione di problemi, questo fino a che, all'insaputa di tutti, non riesce a catturare il drago più temuto e sconosciuto solo per scoprire che il diavolo non è cattivo come lo si dipinge.
Sebbene gli incassi al botteghino sembrino suggerire il contrario, alla Dreamworks non sempre centrano il bersaglio, soprattutto considerando che vivono un'impossibile concorrenza con i più grandi animatori statunitensi dalla nascita di Walt Disney, cioè la Pixar. Nei casi migliori lo studio diretto con pugno di ferro e grande abilità da Jeffrey Katzenberg è riuscito a coniugare un umorismo contagioso ad una messa in scena innocua e scorrevole, con addirittura punte di ardore stilistico nelle composizioni cromatiche di Kung fu panda (forse il titolo più riuscito). A fronte di questo si possono però citare moltissimi titoli totalmente sbagliati, privi sia di una storia originale che di personaggi affascinanti che infine di una vena comica che diverta sopra i 13 anni. In questo insieme eterogeneo Dragon Trainer si pone leggermente sopra la media.
La storia per famiglie di come un ragazzo e un animale sviluppino un rapporto profondo (il drago mostra movenze, caratteristiche e atteggiamenti sia da cane che da gatto) riuscendo nel doppio intento di sfatare un mito (i draghi sono cattivi) e riabilitare il protagonista (che da outsider diventa il più popolare del suo villaggio), è trattata con molta leggerezza e nessuna pretesa. Che la trama sia un canovaccio finalmente sembrano saperlo anche gli sceneggiatori. Quello che invece è presente è una concentrazione maggiore nel ritmo e nelle gag le quali, nell'universo commerciale del cinema Dreamworks, sono tutto. Non tanto emozionare o narrare storie rivoluzionarie quanto avvincere e divertire. E Dragon Trainer lo fa bene, sempre considerando un target principalmente "familiare" ovvero composto da ragazzi al di sotto della maggiore età e di adulti che accettano di vedere un film simile solo come occasione "per stare tutti insieme".
L'interesse maggiore di questo genere di cinema però è tutto in come, nel tentativo di rispecchiare i mutamenti nelle dinamiche sociali, essi influenzino la percezione comune che abbiamo dei ruoli nella nostra società. Come dimostra Dragon Trainer nei decenni la figura dello sfigato è sempre meno tale, dal nerd si passa al geek, e la bella ragazza è sempre più maschile nel suo atteggiamento di potere, è essa stessa a rimettere a posto i bulli invece di subirne il corteggiamento come capitava una volta. La storia sempre uguale di un ragazzo che con la sua purezza scopre la bontà di figure temute dagli adulti nel suo adattarsi ai tempi svela come percepiamo la nostra società.

 
 
 

Welcome

Post n°41 pubblicato il 30 Marzo 2010 da marina1811

Bilal, giovane curdo, ha lasciato il suo paese alla volta di Calais, dove sogna e spera di imbarcarsi per l'Inghilterra. Dall'altra parte della Manica lo attende un'adolescente che il padre ha promesso in sposa a un ricco cugino. Fallito il tentativo di salire clandestinamente su un traghetto, Bilal è deciso ad attraversare la Manica a nuoto. Recatosi presso una piscina comunale incontra Simon, un istruttore di nuoto di mezza età prossimo alla separazione dalla moglie, amata ancora enormemente e in segreto. Colpito dall'ostinazione e dal sentimento del ragazzo, Simon lo allenerà e lo incoraggerà a non cedere mai ai marosi della vita. A sua volta Bilal aprirà nel cuore infranto di Simon una breccia in cui accoglierlo. Ma il mondo fuori è avverso e inospitale e l'uomo dovrà sfidare le delazioni dei vicini di casa e la legge sull'immigrazione che condanna i cittadini troppo umani e “intraprendenti” col prossimo.
Premiato dal pubblico a Berlino e campione di incassi in Francia, Welcome è un racconto morale che si interroga sul concetto di alterità e in cui è facile riconoscere i canoni dell'attualità. Polemizzando con la legge sull'immigrazione voluta da Sarkozy, che infligge sanzioni severe ai residenti colpevoli di cuore con la straniero, Philippe Lioret mette al centro del suo film l'Altro, un corpo estraneo da sfruttare o da espellere, senza una vera possibilità di integrazione. Come aveva già fatto con Tombés du ciel, film d'esordio del 1994, il regista francese riconferma la sua attenzione per la mercificazione delle vite nel complessivo processo di disumanizzazione dell'Europa contemporanea. Welcome, storia d'amore e di amicizia tra un uomo e un ragazzo, affronta con lirismo la realtà nelle sue manifestazioni più crude, disumane e inaccettabili. La sopraffazione del più debole è analoga a tutte le latitudini, compresa la democratica e “rivoluzionaria” Francia che “ospita” una teoria di convivenze rese difficili dai codici sociali e da paure ingiustificate. La coscienza collettiva è assente o rallentata da egoismi, bassezze e diffidenze, che sono l'humus in cui cresce e prospera l'intolleranza di una comunità verso una minoranza. Il coraggio del singolo, incarnato e interpretato da un intenso e dolente Vincent Lindon, sembra allora essere l'unica speranza contro la violenza delle istituzioni, raccontata non come attrito deflagrante ma come forza di inerzia, attraverso un logorio costante tra i personaggi.
Nella livida immobilità di fondo entrano in contatto e dialogano un uomo e un ragazzo, suggerendo un movimento paterno dell'uno verso l'altro e diminuendo “a bracciate” le distanze tra le parti. Il punto di incontro tra Simon e Bilal è rappresentato dall'acqua, elemento primitivo che innesca autentiche dinamiche relazionali e allo stesso tempo attende e accoglie la risoluzione del dramma. Il giovane curdo, in cerca di una patria e di un amore, è per il francese l'annuncio di una possibilità, la possibilità di ogni essere umano di ritrovare se stesso e l'altro.

 
 
 

Zio Vanja

Post n°40 pubblicato il 13 Febbraio 2010 da marina1811

7 febbraio 2010 - Teatro Metastasio


Fondazione del Teatro Stabile di Torino /
Fondazione Teatro Regionale Alessandrino
ZIO VANJA

di
Anton Cechov
adattamento originale di
Gabriele Vacis e Federico Perrone
regia
Gabriele Vacis
composizione scene, costumi, luci e scenofonia
Roberto Tarasco
con
Eugenio Allegri, Laura Curino, Paolo Devecchi,
Michele Di Mauro, Lucilla Giagnoni, Davide Gozzi,
Alessandro Marchetti, Laura Panti, Francesca Porrini


Dopo il successo di R&JLinks, spettacolo nato da intuizioni e suggestioni tratte dal Romeo e Giulietta di William Shakespeare, Gabriele Vacis sceglie di dedicarsi ad un altro grande drammaturgo, Anton Cechov, portando in scena Zio Vanja.
Sviluppando i temi della delusione e della rassegnazione, il testo porta con sé i tratti distintivi dell’opera dell’autore: Vanja si occupa della proprietà agricola di Sonja, sua nipote, figlia della sorella defunta e di Serebrjakòv che ne percepisce i redditi. La serenità di Vanja è interrotta dalla volontà di Serebrjakòv di vendere la terra e tra i due uomini si manifesta una forte rivalità. Vanja tenta così di uccidere, senza successo, Serebrjakòv il quale lascia al cognato il compito di far prosperare le terre continuando, però, a garantirgli una rendita.
Zio Vanja tocca le corde più profonde di ciascuno di noi: ogni personaggio, ad un certo punto, dice la ‘verità’ su se stesso e quando non è lui a dirla, quella ‘verità’ è pronunciata da un altro. Ma questi personaggi in realtà non riescono a procedere oltre la pura esternazione, trascinati nell’ovvietà della propria esistenza: la consuetudine del tè, la vodka, la musica, la convenzione del ricevimento, il tempo del riposo... E quando un barlume di azione si concretizza, sbagliano il bersaglio. Quella degli uomini e delle donne che popolano il piccolo mondo cechoviano è una coscienza apparentemente inutile, disillusa, inane ma non inconsapevole. Cechov registra la mutazione di un’epoca, senza dare ai propri personaggi la possibilità di parteciparvi.

 

 
 
 

 

Il berretto a sonagli

Post n°39 pubblicato il 22 Gennaio 2010 da marina1811

Tradita e vilipesa, Beatrice cede ai suoi umori cangianti, e – convinta dalla Saracena – decide di convocare a sé il delegato Spanò per sporgere denuncia per adulterio nei confronti del marito. Nulla può la vecchia donna di servizio Fana, che con tutte le sue forze aveva cercato di convincere Beatrice a desistere.

Il delegato Spanò, chiamato a casa di Beatrice, cerca di sottrarsi dall’ingrato compito di accettare la denuncia per poi dover indagare il Cavaliere e coglierlo in flagrante. Messo alle strette, deve alla fine cedere alle insistenze di Beatrice.

Il primo atto si chiude con una visita di Ciampa a casa di Beatrice. Cerca di convincerla a considerare i gravi problemi che comporterebbe una denuncia. Rimane implicito che in questo caso – per salvare il nome macchiato della famiglia Ciampa – egli sarebbe costretto a fare una pazzia e a uccidere la traditrice Nina. Ciampa quindi invita Beatrice ad usare la ragione e a dare una giratina allo strumento.

Il secondo atto si apre in un contesto completamente diverso: dopo che la perquisizione nell’ufficio del Cavaliere ha portato all’arresto di quest’ultimo e di Nina. Ciò che Beatrice non sa è che il delegato Spanò, per non compromettersi con il Cavaliere, ha evitato di partecipare all’azione mandando invece sul posto un suo collega calabrese, il quale ha – con tutta probabilità – colto in flagrante la coppia adultera.

Per non mettersi contro il Cavaliere e per evitare che Ciampa uccida la moglie, il delegato Spanò cerca di imbrogliare le carte negando che l’arresto sia stato motivato dall'adulterio; lo spiega invece con un presunto attacco d’ira: provocato dalla perquisizione, il Cavaliere sarebbe montato su tutte le furie oltraggiando le forze dell’ordine.

Però lo scandalo è ormai nato ed è assai difficile che la gente del posto, ormai al corrente dell’arresto, possa credere veramente alla versione di Spanò.

Ciampa riesce a capovolgere la situazione in suo favore proponendo di avvalorare la tesi del delegato con uno stratagemma: bisognerà far credere a tutti che Beatrice sia pazza e che il tradimento del Cavaliere sia stato una sua montatura.

L'idea di Ciampa piace a tutti tranne naturalmente a Beatrice. Messa sotto pressione da sua madre e dal fratello Fifì, Beatrice viene però indotta a convincersi che sia meglio – per il bene di tutti – recitare il ruolo della pazza e farsi quindi ricoverare per qualche tempo in una casa di cura. Come Beatrice impara a sue spese, mostrare in faccia a tutti la nuda verità si rivela quindi assai problematico.

 
 

La prima cosa bella

Post n°38 pubblicato il 22 Gennaio 2010 da marina1811

Bruno Michelucci è infelice. Insegnante di lettere a Milano, si addormenta al parco, fa uso di droghe e prova senza riuscirci a lasciare una fidanzata troppo entusiasta. Lontano da Livorno, città natale, sopravvive ai ricordi di un'infanzia romanzesca e alla bellezza ingombrante di una madre estroversa, malata terminale, ricoverata alle cure palliative. Valeria, sorella spigliata di Bruno, è decisa a riconciliare il fratello col passato e col genitore. Precipitatasi a Milano alla vigilia della dipartita della madre, convince Bruno a seguirla a Livorno e in un lungo viaggio a ritroso nel tempo. Le stazioni della sua “passione” rievocano la vita e le imprese di Anna, madre esuberante e bellissima, moglie di un padre possessivo e scostante, croce e delizia degli uomini a cui si accompagna senza concedersi e a dispetto delle comari e della provincia. Domestica, segretaria, ragioniera, figurante senza mai successo, Anna passa attraverso i marosi della vita col sorriso e l'intenzione di essere soltanto la migliore delle mamme. A un giro di valzer dalla morte, sposerà “chi la conosceva bene” e accorderà Bruno alla vita.
È cosa nota ma è bene ribadirlo. Se si cerca un erede convincente della grande tradizione della commedia all'italiana, quello è indubbiamente Paolo Virzì. Lo è per attitudine, scrittura, sguardo. Per la modalità di immergersi nell'anima vera e nera del nostro paese, producendo affreschi esemplari e spaccati sociologici precisi. Archiviata la Roma dei call center e della solidarietà zero (Tutta la vita davanti), il regista livornese torna in provincia con una commedia drammatica e col professore depresso di Valerio Mastandrea, che spera un giorno di “ingollare” quella madre che non va né giù né su ma che ugualmente suscita un'irresistibile attrazione.
Indietro nel tempo e al centro del film c'è allora una mamma, l'affettuosa e “disponibile” Anna di Micaela Ramazzotti, idealmente prossima alla Adriana di Antonio Pietrangeli (Io la conoscevo bene), sedotta dalle persone e dagli avvenimenti ma trattenuta e contenuta dall'amore filiale. Se Adriana fosse sopravvissuta alle malignità di un cinegiornale e a un volo dalla finestra della sua camera, avrebbe adesso due figli e un cancro nella Livorno e nel cinema di Virzì. Perché Anna, mamma negli anni Settanta, è come Adriana vittima del torpore psicologico della provincia e della diffusa incomprensione maschile, da cui non sono immuni il figlio e il marito. A interpretarla nel tempo presente e nel letto di un hospice, centro di accoglienza e ricovero per malati terminali, è appunto Stefania Sandrelli, che trova per il suo personaggio (tra)passato un destino più dolce.
La prima cosa bella nel film di Virzì è proprio il personaggio di Anna che, libera e priva di pregiudizi, vive in uno stato di perenne disponibilità nei confronti della vita, offrendo agli uomini quello che può e ai figli quello che sente. Dotata di un'autenticità insolita e una femminilità impropria in un mondo di persone “normali”, Anna è insieme amata e invisa al figlio, che ripudia il candore scandaloso della madre e trova rifugio senza pace nella fuga. Rientrato suo malgrado nella vita di provincia come un adolescente dopo l'ennesima evasione, Bruno indaga un'unità difficile da trovare dentro i silenzi e il dolore compresso. La famiglia rappresenta allora il cuore della commedia, condita con robuste iniezioni di popolarità e ghiotte cadenze toscane, dentro il quale ci tuffa e si tuffa il figlio dolente di Mastandrea, incontrando i fantasmi del passato e contrattando il proprio posto nel mondo.
La prima cosa bella si appoggia su un coro di attori efficaci nel sapere stare dentro e fuori i personaggi, finendo per dare forma a una felice e insieme scriteriata idea di famiglia. Dalla meravigliosa inadeguatezza di Mastandrea deriva poi l'equilibrio tra ironia e malinconia che è la cifra di una commedia colma di sentimenti e spoglia di sentimentalismi.

DA VEDERE!!!!!!

 
 
 

La fortuna con la effe maiuscola

Post n°37 pubblicato il 22 Gennaio 2010 da marina1811

Un grande interprete del Teatro napoletano, Luigi De Filippo, ripropone questa divertente commedia che nel 1942 fu uno dei più clamorosi successi del Teatro Umoristico dei celebri fratelli De Filippo. Un trionfo personale di Eduardo e Peppino che ne furono i primi ed irripetibili interpreti. Ispirandosi alla lezione di un passato glorioso, oggi, con l’interpretazione e la regia di Luigi De Filippo, lo spettacolo torna a risplendere di luce nuova. La fortuna con "la effe maiuscola" è quella inattesa che capita al protagonista della commedia, un pover’uomo perseguitato da un destino avverso e beffardo, che vede all’improvviso illuminare la sua vita misera dall’arrivo di un’eredità che gli giunge da parte di un parente emigrato in America.
Eredità che però ha la condizione di spettare per intero al poveretto solo se lui non avrà figli. Se il figlio c’è, tutta la ricca eredità andrà a lui. Invece il pover’uomo, che dell’eredità tutto ignorava, un figlio ce l’ha. Lo ha appena riconosciuto, costretto dalla miseria, in cambio di un modesto compenso che lo avrebbe aiutato a liberarsi dai debiti. E così, da questo impedimento, nascono gli equivoci e le disavventure tragicomiche della commedia, metafora di una società che si trasforma.
Luigi De Filippo la ripropone al pubblico d’oggi in una sua personale, divertente ed umanissima interpretazione che mette in risalto una delle caratteristiche più preziose del Teatro dei De Filippo: l’umorismo. Umorismo che rappresenta la parte agra, la parte amara della comicità. Comicità tutta napoletana che ci diverte ed appassiona attraverso un Teatro sempre attuale che, sorridendo, ci racconta la fatica di vivere

 
 
 

Venuto al mondo...

Post n°36 pubblicato il 17 Gennaio 2010 da marina1811

Una mattina Gemma sale su un aereo, trascinandosi dietro un figlio di oggi, Pietro, un ragazzo di sedici anni. Destinazione Sarajevo, città-confine tra Occidente e Oriente, ferita da un passato ancora vicino. Ad attenderla all'aeroporto, Gojko, poeta bosniaco, amico, fratello, amore mancato, che ai tempi festosi delle Olimpiadi invernali del 1984 traghettò Gemma verso l'amore della sua vita, Diego, il fotografo di pozzanghere. Il romanzo racconta la storia di questo amore, una storia di ragazzi farneticanti che si rincontrano oggi invecchiati in un dopoguerra recente. Una storia d'amore appassionata, imperfetta come gli amori veri. Ma anche la storia di una maternità cercata, negata, risarcita. Il cammino misterioso di una nascita che fa piazza pulita della scienza, della biologia, e si addentra nella placenta preistorica di una guerra che mentre uccide procrea. L'avventura di Gemma e Diego è anche la storia di tutti noi, perché questo è un romanzo contemporaneo. Di pace e di guerra. La pace è l'aridità fumosa di un Occidente flaccido di egoismi, perso nella salamoia del benessere. La guerra è quella di una donna che ingaggia contro la natura una battaglia estrema e oltraggiosa. L'assedio di Sarajevo diventa l'assedio di ogni personaggio di questa vicenda di non eroi scaraventati dalla storia in un destino che sembra in attesa di loro come un tiratore scelto. Un romanzo-mondo, di forte impegno etico, spiazzante come un thriller, emblematico come una parabola.

Bel libro di Margaret Mazzantini

 
 
 

Haiti...

Post n°35 pubblicato il 16 Gennaio 2010 da marina1811

IL DRAMMA DI HAITI: PARLANO GLI ESPERTI. «Importantissimo garantire cibo e acqua sicuri»Epidemie, il problema sono le fogneDai cadaveri nessun rischio immediato. L'allarme viene dalle condotte distrutte e dall'assembramento

I cadaveri non sono la principale minaccia per la salute dei sopravvissuti a un terremoto o a una qualsiasi altra catastrofe naturale. Certo, devono essere rimossi, interrati o bruciati: non sono loro la fonte principale di eventuali epidemie. Il rischio che scoppi qualche focolaio infettivo nasce, piuttosto, dalla distruzione delle reti idriche e fognarie, come è avvenuto con il terremoto ad Haiti, e dalla concentrazione di persone nei luoghi di accoglienza, che sono in allestimento.

GLI INSETTI- «Quello dell'epidemia è uno spettro che si ripresenta dopo ogni catastrofe naturale – dice Piero Calvi Parisetti , docente di Emergenze e Aiuti sanitari all’Istituto per gli studi di politica internazionale, Ispi, di Milano - e non soltanto ad Haiti. Come dice l’Organizzazione Mondiale della Sanità: "i cadaveri non uccidono"». C'è infatti una scienza che studia la decomposizione dei cadaveri (ed è legata soprattutto alla medicina forense e alla possibilità di stabilire il momento della morte nelle indagini di polizia) e questa scienza ci dice che i microrganismi coinvolti in questo processo sono soprattutto insetti (le mosche in particolare) e, in un secondo tempo, i vermi. Non si tratta dunque di agenti che possono provocare direttamente malattie infettive nell’uomo e, in particolare, grandi epidemie in caso di disastri naturali.

ACQUA E CIBO CONTAMINATI - «Ad Haiti, del resto, già prima del terremoto, il livello igienico-sanitario era piuttosto basso – commenta Gaetano Maria Fara, igienista all’Università La Sapienza di Roma .- Adesso, con la distruzione del sistema fognario e idrico e con la mancanza di servizi igienici può verificarsi un aumento del rischio di infezioni, in particolare, di quelle a trasmissione oro-fecale. Provocate, cioè, da germi come le salmonelle o le shigelle, che possono contaminare l’acqua o i cibi. Ci si può dunque aspettare che si verifichino piccole epidemie di tifo o di shigellosi, di tossinfezioni alimentari e di diarree generiche. Il clima caldo umido può complicare la situazione soprattutto quando sono colpiti i bambini. Per questo bisogna garantire subito cibo e acqua sicuri». A favorire il contagio potrebbero contribuire anche l’assembramento e la promiscuità forzata in tende o in luoghi di accoglienza. Il rischio di epidemie non appare, dunque, una priorità. «Quanto al rischio colera – aggiunge Gianfranco De Maio, responsabile medico di Medici Senza Frontiere Italia – esiste ad Haiti anche in condizioni normali, vista la precarietà dei servizi urbani che riguardano la distribuzione dell’acqua e lo smaltimento dei rifiuti, ma, straordinariamente, nelle statistiche epidemiologiche e sanitarie del Paese non sono registrati da anni casi di colera». Questo significa che se il vibrione non è endemico e non ci sono portatori, non dovrebbero verificarsi epidemie, Gli allarmi dunque ci sono, ma non vanno enfatizzati.

VACCINAZIONI UTILI - «La previsione ingiustificata di epidemie – dice De Maio – potrebbe far compiere scelte di salute pubblica sbagliate, come sarebbe per assurdo, nel caso specifico, il privilegiare inutili campagne di vaccinazione contro il colera, a beneficio dei produttori piuttosto che delle popolazioni , distraendo forze e energie da una più puntuale e salvavita campagna di sensibilizzazione per la vaccinazione anti-tetanica».

 
 
 

Comuni

Post n°34 pubblicato il 08 Gennaio 2010 da marina1811

Lo sapete quanti sono i comuni in tutta Italia? Sono 8.101, una cifra abnorme che grava tantissimo nella spesa del Paese. Tra questi 5.740 sono comuni di piccole dimensioni, ovvero con una popolazione che non supera i 5000 abitanti, quindi rappresentano il 70,86% dei comuni d'Italia. Una cifra pazzesca delineata dall'ultimo censimento del 2001. Un italiano su cinque vive nei piccoli comuni e la popolazione che vi risiede è il 17,57% del totale. Il comune più piccolo d'Italia? Si tratta di Pedesina, che ha spodestato il comune di Morterone vantando 37 abitanti contro i 39 del comune rivale. Quindi? Una possibile soluzione potrebbe essere quella di accorpare i comuni limitrofi più piccoli per ridurre le spese e rendere i comuni più efficienti.

Ma siamo in Italia e questa probabilmente è solo un'utopia!

 
 
 

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