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Un blog creato da Mthrandir il 11/01/2005

Schegge di vetro

Ad averlo saputo prima, me ne stavo nel Beleriand! (Le immagini riprodotte su queste pagine sono di proprietà dei rispettivi autori, sperando che la dichiarazione mi sollevi dalla promozione di cause civili, che non ho tempo)

 
 

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Post N° 14

Post n°14 pubblicato il 23 Gennaio 2005 da Mthrandir
Foto di Mthrandir

Commemorazioni 


19 settembre 1943 – 4 giugno 1949: le vittime della politica della strage nel cosiddetto Triangolo Rosso (o Triangolo della Morte) ammontano a quasi 6.000 unità, delle quali poco meno di 4.000 identificate con certezza e il resto rinvenuto in diverse località all’interno di fosse comuni – Dati desunti da : Il triangolo della morte, G. & P. Pisanò, Editore Mursia, ISBN 88-425-2411-5. 

Sono i primi giorni di dicembre, 1944 secondo il normale calendario, o Anno XXIII dell’Era Fascista. Le giornate si accorciano rapidamente e Walter lascia la falegnameria dove lavora da qualche tempo per far visita alla fidanzata. Ha da poco compiuto 19 anni e lei è una bella ragazza di 17. Con la benedizione del padre di lei, possono vedersi, due volte alla settimana, nella casa colonica appena fuori dalla frazione dove abita la biondina, alla presenza di almeno uno dei genitori. Walter inforca la moto, quella che lo  accompagna indifferentemente al lavoro o tra gli Appennini del modenese quando fa la staffetta per portare al sicuro qualcuno per il quale la terra scotta, e lascia la città. L’aria è fredda e la sottile foschia della sera ghiaccia al suo passaggio lasciandogli sulla faccia la puntura di migliaia di spilli. Non importa, stasera la politica, la lotta, la “resistenza” sono idee che sbiadiscono in fretta. Un giro sulla manopola del gas e alle sua spalle le ultime case della cittadina diventano più piccole e meno visibili. Sono pochi chilometri da percorrere il più in fretta possibile, senza pensare ad altro che a lei. C’è voluto poco, come sempre, ad entrare in quel cortile, ormai più familiare di quello di casa sua. Appoggia la moto sul cavalletto e si avvicina alla finestra sbarrata che lascia filtrare un luce gialla dalla cucina. Prima di entrare, gli piace godersi due minuti di spettacolo senza essere visto, almeno lui crede. La osserva con quel suo grembiulone troppo largo, indaffarata a preparare qualcosa che chiamare cena è, forse, eccessivo. Sanno entrambi di essere nello stesso posto: quel rottame metallico romba peggio di un carro Tigre e solo un sordo non l’avrebbe sentito. Ma continuano a recitare la parte. Bussa, qualche istante di attesa, è il portone ruota sui suoi enormi cardini. Allarga con la spalla lo spiraglio e si intrufola come un gatto lasciando nel corridoio il solito frettoloso “Buona sera”. Si siede al tavolo, senza parlare. Qualche sorriso trattenuto a stento cerca di eludere la sorveglianza attenta del padre chino di fronte all’enorme camino apparentemente concentrato sull’affilatura di qualche strumento.
“Che si dice in città?” è la domanda di rito, quella che segna l’inizio di ogni serata, una domanda fatta con poco interesse per una risposta che è sempre la stessa: “Si dice che il Duce non duca anche se Lui dice che duce.” Walter ama i giochi di parole e gli scherzi, anche pesanti, come quella volta che le fece recapitare il manifesto del proprio necrologio avvertendo la ragazza che le esequie si sarebbero tenute solo dopo che fosse morto.
E’ li da un po’, chissà quanto, e la tranquillità del cortile viene squassata dal rumore di un camion dal quale scendono una quindicina di uomini incappucciati e armati. Il portone rimbomba percosso dal calcio di un mitra e nel corridoio tuona un “Aprite!” che non lascia spazio a repliche.
In casa è il panico. Il vecchio padre corre alla porta di ingresso urlando una serie di “Chi siete? Cosa volete?” destinati a non ricevere risposta. Quasi sottovoce, si volge verso l’uscio della cucina e guarda Walter: ”Cosa vogliono?”. “Siamo venuti a prendere Walter. In montagna vogliono vederlo”. La risposta arriva prima ancora che il ragazzo possa aprire bocca.
Walter si avvicina alla porta, lei cerca di trattenerlo per un braccio, ma lui si divincola dolcemente. Le accarezza il volto e chiede al padre il permesso di uscire.
“Ce l’hai la pistola?” gli chiede il vecchio con un filo di voce. “No, non serve. Sono amici”. La porta si riapre, stavolta dal tepore si esce verso il freddo e la nebbia. Un breve conciliabolo nel cortile, parole smozzicate che nessuno capisce, qualche cenno con la testa, Walter sale sul cassone del camion e sparisce dentro al telone. Velocemente le altre ombre svuotano l’aia. Il motore si accende, la marcia gratta, il bestione gira su stesso e sparisce nell’oscurità.
Restano tutti impietriti a fissare un orizzonte che la notte ha portato sulla soglia di casa. Troppo lontano per distinguere, troppo vicino per non capire.
Il camion sferraglia su un viottolo di campagna seguito da un paio di motociclisti. Nessuno parla. In fondo al cassone, con la schiena appoggiata alla parte che confina con il posto di guida, ci sono altri sei ragazzi che si conoscono bene. Sono tutti amici, tutti socialisti con il vizio di parlare troppo delle loro idee.
A un tratto, il camion esegue una sterzata secca e si ferma. “Tutti giù!” è il comando che arriva perentorio dopo un secondo di silenzio. Uno dei sei balbetta: “Ma..non siamo in montagna…”. Walter lo guarda e, dopo un breve esitazione, gli porge la mano per aiutarlo a scendere. Il suo compagno ha qualche indecisione, incespica, ma alla fine trova una posizione quasi eretta accanto agli altri.
Gli scherani incappucciati circondano i sette mentre il capo estrae un foglio di carta da pacchi e inizia a leggere. “Esaminate le testimonianze rese dai compagni……tradimento……...” la sua voce è ferma, ma nessuno dei sette riesce ad udirla distintamente. Le parole si perdono nella notte. “…Tutto ciò valutato, il Tribunale del Popolo ha deciso che …………… siano condannati a morte!”. Walter sorride. Quella parvenza di giustizia gli sembra grottesca. Quante volte aveva sentito di azioni simili, quante volte aveva protestato con i suoi, colpevoli di non opporsi ad una attività che di guerriglia non aveva nulla, ma molto aveva di regolamento di conti. Ora toccava a lui, quelle proteste gli erano valse la condanna. Se lo aspettava, in fondo, sapeva che non avrebbe visto l’inizio del nuovo mondo. “E’ meglio che te ne vai di qui, ti hanno bruciato!”. Gli tornarono alla mente le parole di alcuni ragazzi che aveva portato al sicuro qualche settimana prima che, a loro volta, l’avevano saputo dall’Ungherese. “Io non la do vinta a nessuno! Né ai neri, né ai rossi!”. Mentre quella sua sbruffonata gli rimbalzava nella memoria, sentiva la corda ghiacciata stringergli il collo. Aveva paura e, per vincerla, pensò a lei. “Non fate del male ai miei, non c’entrano niente.” Il “niente” gli rimase strozzato in gola quando diedero il calcio allo sgabello.

Walter era mio zio e io, il 25 aprile, vado al mare.

Mthrandir

 
 
 
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