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Un taxi al volo

Post n°78 pubblicato il 11 Agosto 2015 da IlContaFiabe

Dentro la sua vita, in qualche modo, c’era sempre stato un taxi.

Lo pensò dopo essersi seduta al posto posteriore di una station wagon bianca con un tassista che l’aveva aiutata ad infilare tutte le sue valigie stipate all’0inverosimile dentro al capiente bagagliaio.

Notò la discrezione del conducente. Nessuna domanda, nemmeno un accenno a quell’informe ammasso di cose che più che a un viaggio lasciavano chiaramente intendere che si trattava di un trasloco o ancor più precisamente, ad un cambio di vita che in un trasloco ti porti dietro anche i mobili e le suppellettili in quel viaggio invece solo i vestiti ed una montagna di ricordi.

Decisamente i taxi avevano rappresentato molto per lei, e forse per questo che sua madre le aveva raccontato cento volte di come s’era recata in taxi all’ospedale, con le doglie ormai avviate, visto che su padre non era riuscito ad staccare dal suo lavoro e tornare a casa subito per aiutarla nel momenti del parto.

Probabilmente fu un taxi che accompagno via suo padre quando sua madre colse quell’ultima distrazione per cacciarlo definitivamente dalla sua vita.

E da allora fu un susseguirsi di macchine perché sua madre, ostinatamente, un po’ per vezzo, forse, un po’ per convinzione, decise che prender la patente non era cosa adatta a lei.

Fu in taxi allora che arrivò davanti il portone di scuola il primo giorno di lezione all’età di 6 anni e sempre fu il susseguirsi di volti anonimi e di auto che non avevano storia per lei se non quella di un breve passaggio, che segnò il tempo di ogni momento.

Forse maturò così nel tempo la sua idea di vita a spizzichi, a passaggi brevi, come di un passare da un punto ad un altro ma con mete a termine.

Così era stata anche ogni sua storia precedente, il salire un attimo nella vita di un altro uomo e da lì partire sapendo comunque in anticipo che presto o tardi da quella stessa vita sarebbe scesa, ed in quel tratto di strada era sempre rimasta così, attenta ad ogni suo dire, come in attesa della fermata. Incapace di lasciarsi andare e trasportare veramente.

Erano state parole allora quelle sparse in ogni discorso, ma mai davvero la sua vera essenza s’era sparsa in quei momento, mai davvero dischiusa o, magari addirittura aperta. No.

I suoi viaggi erano stati solo passaggi. Amori consumati in macchina, si direbbe, sul sedile posteriore, di fretta, di foga a volte, ma mai di piena consapevolezza.

Anche quello, anche l’ultimo da cui si stava allontanando era stato uno di loro, iniziato in un chissà dove e finito in molti perché. Perché l’amore quando non lo si cerca col profondo desiderio che prosegua è proprio come un taxi dove non si chiede mai una macchina particolare o un autista con chissà quali doti. Ci si accontenta di quel che capita proprio perché il taxi non è il fine ma il mezzo.

Ed erano state così anche le sue storie alla fine, un mezzo per andare un poco oltre, un accettare compagnia quasi senza ragione o con la sola vera ragione di sfuggire al nulla.

Solo che poi il nulla di cui ci si circonda ti raggiunge inesorabile ed allora via, sopra un’altra auto pubblica a  fuggire.

Una lacrima le sgorgò da quel pensiero, da quel suo sentirsi sola, inesorabilmente battuta anche in quella sua ultima scelta.

Sentiva dentro di sé il peso di quella sua situazione ed al tempo stesso il mancar di forze per superarla.

Quale alternativa davvero avrebbe potuto scegliere?

Una vita che chiede vita al tempo, alla vita stessa, ma non la sa ordinare, che vita può aspettarsi d’incontrare?

Sentì il dolore del suo essere bella. Dell’essere oggetto di ammirazione, piacere, desiderio, sogno.

Sentì d’essere distante da qualsiasi parte di sé che le premeva dentro ma al tempo stesso incapace di dar voce a quella voce che da tempo (da sempre forse) la chiamava.

Fuori dal finestrino le luci delle altre macchine passavano e s’incrociavano e le luci della case s’affollavano ad ogni sguardo. Dietro a vetri illuminati, dietro a quelle tende o tendine tirate e chiuse intravvedeva ombre di altre persone. Erano l’ombra di quelle vite “normali” che aveva sempre detestato.

Un famiglia normale, con un uomo normale e dei bambini ancor più normalmente vocianti. Tutte le porte chiuse, come quelle finestre, nessuna opportunità a via di fuga da un’esistenza che diventava, in quelle case, una retta spianata di cose prevedibili e previste.

No, lei no, non si sentiva così, non era di quella “pasta”. Lei con tutte le sue disavventure accanto, ripiegate per bene dentro al cuore, lei era fatta in un modo differente.

Al diavolo se la pioggia le batteva sopra le tempie e scompigliava i suoi capelli, si, al diavolo quei richiami che le si accendevano dentro. La sua vita era andar di taxi in taxi, era da vivere in ogni momento sapendo di poter cambiare sempre la sua direzione. Era quello che aveva sempre voluto e quello era il suo prezzo e lo avrebbe pagato.

Solo allora s’accorse d’aver chiesto al tassista di gironzolare un poco, solo allora s’accorse di non aver scelto una prossima meta.

Diede il nome di un Hotel molto costoso, “fanculo anche i soldi”, pensò. Una buona stanza ed un servizio inappuntabile sarebbero stati il miglior balsamo per la sua anima in quella notte.

Perché le notti sono così, a volte, vengono per tutti e lanciano a tutti una voce. Resta poi a ciascuno il modo o forse il Dono di saperla ascoltare.

 

 

 

 
 
 
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