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Una lettera di Natale

Post n°86 pubblicato il 28 Dicembre 2015 da IlContaFiabe

“Io…mica lo so davvero”, se lo disse in un attimo con un mezzo sorriso per quella forma del dire per lei inusuale. Compiaciuta di quel suo sbagliare, per quel “mica” che aveva messo lì apposta, a legar la frase che dal cuore le era balenata fin su, alle terminazioni nervose del cervello  e s’era fatta pensiero e forma quasi verbale.

“Io mica lo so davvero” era un suo modo infantile di dire  e poi di sorridersi, come quando capita che ci si sbaglia, e nella vita capita (oh se capita davvero!!) ma non ci si prende poi troppo sul serio. Nemmeno quando ci si sbaglia.

“Che poi – pensò bene – a sorridere dei propri errori vuol dire che li si è capiti” …e restò sospesa, sul bordo di quell’idea.

“ Ma quando si comprendono davvero i proprie errori?” Se lo domandò in un filo di incertezza “non di certo quando ci si accorge semplicemente di averne commesso uno”. No, quando si sbaglia non basta cogliere il risultato per dire di aver compreso che quello era un errore. Se mai, piuttosto, forse si potrebbe dire di averlo compreso quando si arriva ad essere consapevoli del motivo che ci ha indotto a sbagliare, ed anche in questo occorrerebbe essere molto accorti, che c’è un primo che per primo arriva  e poi…e poi un altro, l’ultima concausa che ci ha condotti ad una certa logica e ragione.

Ecco, un errore lo si poteva comprendere realmente solo quando si possedeva concreta certezza, consapevolezza, del suo primo motivo che lo aveva generato.

Elena era lì, ferma in mezzo alla neve che fioccava fitta da quel cielo grigio platino compatto, in quella strada mentre tutt’attorno la gente s’affaccendava di rincorrere ogni passo successivo al precedente, con quegli ombrelli aperti multicolore come le luci che ridondavano dagli addobbi natalizi dei negozi, dalle  facciate e da qualche balcone.  Aria di festa ma non dentro ai cuori, glielo potevi immaginare  guardando negli occhi ogni passante. Glielo leggevi lì, dentro al fondo della pupilla che si faceva ora buia ora assente.

Giravano così la maggior parte di loro, affogati dentro a cappotti e sciarpe e qualcuno pure un cappello od una cuffia. E l’aria davanti loro che si faceva vapore.

Se la stringeva fra le mani quella lettera ancora incerta se domandarsi o meno del suo averla scritta. Ma no, non se lo sarebbe chiesto. Era tanta la consapevolezza che aveva maturato nel farlo, ed anche prima, nel cercare un foglio dentro il cassetto destro della sua scrivania, e poi una penna, che per certe lettere occorre l’inchiostro liquido , liquido come le lacrime o il sangue e bisogna averci una punta con cui marcare il segno, su cui calcare nel giusto modo, perché si calcano così i pensieri quando son maturi per dar più forza al segno, e non si pigiano su una tastiera sia pur complessa, perché tanto, dopo, stampate sopra un foglio, tutte le parole escono uguali e non c’è il segno di un percorso e nulla che dica per davvero quanto siano costate.

Quanti anni aveva atteso quella lettera dentro di sè? Le parole a volte sgorgano spontanee, come l’acqua alla fonte, e vanno via in rivoli e torrenti e par che travolgano il mondo con quel loro incedere balzante. Altre sono come il vino che invecchia, ed han bisogno di tempo per farsi poi scoprire. E le devi centellinare allora, mica mandar giù d’un sorso e in fretta, ma averne cura, insomma, quasi rispetto. Elena per questo, forse, la sua lettera se la teneva stretta o forse per la convinzione che poi, speditala, nulla sarebbe davvero stato più come prima ed in quel punto di svolta la sua vita sarebbe cambiata.

Perché le vite cambiano così, si sa, a volte. Par che tutto accada dentro ad un punto mentre invece è solo il tempo, il tanto tempo passato, quello che ha costruito l’occasione. Ed allora il punto è solo il manifestarsi ultimo di quel passato dove il tempo, appunto, il pensiero e  l’emozione hanno prodotto quel cambio di stato. Come quando l’acqua muta e da liquido diventa vapore e par che tutto accada in un solo istante mentre è il sole che prima a lungo ha riscaldato  e che ha eccitato, una per una, quelle minuscole particelle fino a farle giungere all’attimo in cui, un attimo dopo, sarebbero state rese capaci d’intraprendere il volo.

Si guardò le mani. Fra le dita serrate quella busta. E pensò di nuovo a sé, a quella che era tanti anni prima. A quella sera in cui in casa, con lei bambina, aveva visto entrare un uomo con un grande vestito rosso ed un sacco sulle spalle, ed una barba che subito le sembrò posticcia. E mentre tutti attorno manifestavano un entusiasmo che le sembrava smodato per una presenza che si voleva inattesa, lei aveva tirato quella barba, sicura e sotto quel trucco aveva scoperto il viso di suo padre. Babbo Natale cessò in quell’istante di esistere. Troppo presto forse, almeno secondo la tradizione, ma cessarono di esistere per lei anche i desideri e l’emozione dell’attesa. Così erano passati gli anni fra il timore dei suoi genitori di averle infranto un sogno e quindi la loro gara nel soddisfare e presto ogni sua richiesta e la sua crescente incapacità di sognare, di desiderare , certa che tanto nessuno d’imprevisto, nessun Babbo Natale, sarebbe mai giunto a soddisfare inatteso,  un desiderio profondo.

Così, a poco a poco, era venuta meno la sua voglia di sognare. “Cinica” la definì qualcuno. “Concreta” era l’immagine che lei diceva per raccontarsi.

Era cresciuta così, per tutti gli anni della sua vita ormai matura, come chi procede a testa bassa ma non per pavidità o timore, piuttosto per ostinazione e sforzo nel raggiungere ogni punto come fosse meta. Come chi avanza con un carico pesante sulle spalle.

E tutto questo era accaduto fino ad allora, o meglio, a poco prima di allora.

“Io…mica lo so davvero”.  Ancora dentro di se quel punto le si riaffacciava, colto fra l’incertezza del fare ed il desiderio di riallacciare quel discorso interrotto o solo abbandonato lì, in quell’angolo di vita che le era anagraficamente lontano eppure, mai come in quel momento le sembrava accanto o di essere trascorso appena un attimo prima.

Avesse scritto Shakespeare di lei l’avrebbe presa in quel suo momento d’incertezza fra l’essere ed il non essere, o meglio il ritrovarsi. Si perché Elena con quella sua lettera stretta fra le dita era giunta fin lì, nel percorso della sua vita ed era incerta, in quel preciso momento, fra il lasciarsi vivere com’era sempre stata, immersa in quel suo fottuto senso del dovere, a testa bassa, senza mai un desiderio proprio da raggiungere che non fosse il desiderio minimo calcolato, e quella voglia di sognare che l’aveva abbandonata di colpo in quella sera di Natale con quella barba bianca posticcia, troppo lenta per apparire vera Troppo molle per non lasciar trasparire l’inganno possibile dietro al sogno di una fantasia.

Perché da quel giorno, dopo quella barba e quella delusione erano cessate le lettere scritte per Natale e con quelle anche tutti i desideri e la voglia di attendere, ed in quel punto di quella sua vita d’improvviso quella cosa stava tornando.

Forse erano stati quegli occhi incrociati appena di sfuggita e poi quel grappolo di parole che le si erano  stese sulla pelle oltre la soglia della sua attenzione su una parte di sé a cui pensò sorridendosi. Parole, una sottile coltre le aveva coperto il cuore e forse, ma davvero stentava a crederlo veramente, era arrivata a coprire la sua anima, quel luogo per lei tanto sconosciuto e muto  o forse solo silenziato dal tempo, chiuso dentro ad uno scrigno che d’improvviso s’era ritrovata padrona. Come quando in una soffitta da tempo abbandonata s’apre una finestra e lì, in quel luogo che era stato sempre penombra (o forse buio) appare un qualcosa di cui nemmeno si ricordava l’esistenza.

Giorgio, si chiamava così quella nevicata, inattesa come una gelata in pieno agosto, insperata come un’oasi di refrigerio nel mezzo del cammino dentro ad un deserto. Ed era lì, per quelle parole e per quell’incontro che aveva iniziato ad aspettare. Era per Giorgio che aveva, incerta, impugnata quella penna e steso sopra un foglio bianco quelle parole, la sua lettera per  Babbo Natale perché davvero, dopo di allora, aveva iniziato a desiderare. Desiderare di ritrovarlo ancora, di poterci parlare e poi sognare che da quelle parole germogliassero altre parole e poi carezze e, magari, pesino un volo. Cominciò a sognare così, quasi fosse la prima volta, in uno di quegli ingorghi che la vita solita fa accadere. Aveva schivato sempre l’amore nelle sua forma migliore. Aveva praticato l’amore come un lavoro, fino a poco prima. Ricordi, incontri frammentati, amplessi consumati ma male, abbracci e baci scambiati come fossero merce senza mai intaccare il cuore. Giorgio era stato lì, capace di scalfire il suo portone, quella diffidenza fattasi naturale. La sua disillusione.

Giorgio era il suo primo domani da attendere e da desiderare. Il rischio da correre. Il regalo da chiedere alla vita anche nel giorno di Natale.

“Io…mica lo so davvero” come possono immaginare tutti gli amanti l’attimo prima di ogni attimo, che l’amore è un vento bizzarro e corre e gioca e può volgere in un momento e quindi cambiare. Ma finchè soffia è tutto un vento da vivere  con la passione intensa di ogni momento e la certezza che fino in fondo lo si vorrà respirare.

“Io…mica lo so davvero”. Con la certezza che quel desiderio fosse anche un rischio, l’unico vero che val la pena di correre in tutto il tempo. Elena imbucò la busta. Era diretta al Polo dove forse un uomo vestito di rosso, con una barba bianca l’avrebbe ricevuta e letta e, magari, esaudita. La sua richiesta di aiuto. La sua richiesta di vita.

E forse si stupì del poco tempo allora ch’era trascorso quando voltandosi da quella cassetta postale per rincasare, come d’incanto ritrovò quegli occhi che la guardavano dentro ad un sorriso. E la neve parve davvero sciogliersi dentro al suo cuore.

Era lì, in quel momento, con tutti i suoi errori sulle spalle ma non china per questo. Nessuno sforzo, quasi fosse la sua prima volta in cui poteva camminare guardando l’orizzonte negli occhi. Capiva, no, davvero sentiva dentro tutta la sua carne l’errore commesso nel tempo che si era lasciato andare, del non volere, del non desiderare, dell’attendersi sempre il minimo per sé dal tempo a venire. Ed ora invece aveva il viso raggiante e gli occhi luminosi di un tempo. La vita davanti a lei era come un sogno e non le importava, quasi, se a correre avrebbe potuto cadere e forse anche farsi male. No. Vivere a testa alta, avanzare col suo desiderio stampato in viso, era quello il suo futuro conquistato, o forse solo ritrovato.

Era quello il suo dono in quel Natale, assieme agli occhi di Giorgio da vivere per tutto il tempo  che nel tempo a venire, avrebbero entrambi saputo costruire.

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 
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