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Ventotto - Due rondini

Post n°29 pubblicato il 23 Ottobre 2009 da passato_per_caso

Disse di chiamarsi Greta, ma Greta per lei era soltanto un nome, il suo, quello vero era nascosto dentro i versi di una canzone che canticchiava di quando in quando, seduta agli angoli d'una qualche piazza, con la sua cagna fedele e i cuccioli, nati in un chissà dove.

 

-“Un nome – diceva – è soltanto un riflesso dell’aria, un suo vibrare, che se il vento interrompe il flusso, può anche cambiare e allora, magari, cambia anche il nome, che il vento le confonde quelle onde libere di propagarsi nello spazio piccolo, eppure volendo, infinito, fra la bocca di chi parla e l’orecchio che deve ascoltare. E un nome è solamente un nome che serve al più per chiamare, e che te ne farai tu di un nome, del mio segnatamente, quando io sarò tornata ad essere aria? Quando l’indice mancino indicherà per me una nuova direzione, o la mia cagna si alzerà per seguire un nuovo odore? Io non sarò, anzi, sarò passata, ed il mio nome, o un nome o un altro,  non serviranno a riconoscermi, e il mio ricordo, se pure lo vorrai tenere, non lo legherai a quello, piuttosto al quanto fatto e al quanto detto, e saranno le parole a fiorire dentro la mente, e i gesti, o l’abbaiare raro della mia cagna ed il leccar di mano dei cuccioli”- 

Venne giù come uno scroscio di pioggia quel torrente di parole dette con un tono fermo ma al tempo stesso gentile. L’uomo si fermò a guardarla con l’espressione stupita e incredula che lo coglieva ogni qualvolta incontrava l’imprevisto, per quanto l’imprevisto lo cogliesse raramente. La sua era una vita logica che trascorreva nell’automatico programmare il tempo a venire, per scansare l’ignoto. Guardava sempre avanti, gli occhi bassi per schivar le pozzanghere quando pioveva, o gli escrementi dei cani, controllava il frigo la mattina e subito dopo la dispensa e mentalmente si organizzava pranzo e cena, così da non farsi cogliere sprovvisto d’un qualsiasi bene. Risparmiava esattamente metà del suo stipendio, e non che fosse ricco, piuttosto, diciamo, che la metà se la faceva bastare.

Era fatto così, la vita era per lui il passar da un’ora all’altra cercando di farsele assomigliare, rendendole il più possibile copia carbone l’una della corrispettiva nel giorno appresso, ed in quello seguente.

Greta all’opposto era come il suo cane: femmina e randagia. La potevi trovare, talvolta, al limite del porticato di un grande magazzino. L’aria non era sofferta, sempre truccata a modo, vestita e pulita. Non mostrava i segni di trascuratezza o fame. Esibiva quel suo libero vagare, quella sua condizione, come una scelta e non un’oppressione.

Aveva con sé un cagna  coi cuccioli che dormivano beatamente, e all’incirca trent’anni.  E aveva i capelli lunghi lasciati sciolti sopra le spalle erano puliti, e ben tagliati. Colpivano in quel suo stato di senza dimora, le unghie laccate alla perfezione, la matita sugli occhi, passata con attenzione e quel filo di rimmel che li faceva ancor più risaltare, come se la luce che li attraversava non fosse bastata a metterli in maggior evidenza rispetto allo  sfondo grigio degli sguardi opachi che s'incrociano guardando la folla.

Greta non guardava, o meglio, sembrava non farlo. Pareva non interessarsi a nulla del mondo che la circondava. Sedeva vicino ai suoi cani sopra un muretto e nemmeno ricambiava con un cenno chi le lanciava sulla stuoia o nel piattino, una moneta che lei mostrava di soppesare con lo stesso valore che avrebbe riservato ad un bottone.

Però quando le capitava, lanciava un sorriso ed una freccia fatta di parole, e se il suo occhio vigile, allenato, non s’era sbagliato, era un centro e la vittima sanguinava la sua attenzione sopra a quel selciato.

Marco, colpito, sembrava non riuscire a riprendersi  ed esibiva quel suo stupore come una ferita, uno squarcio dopo la deflagrazione, come chi, attonito, guardasse il proprio arto finito lontano quando una bomba ha dilaniato le carni, e non sente nemmeno il dolore, solo lo stupore d’esser stato colpito e di ritrovarsi amputato, o forse morente.

Greta prese tempo, anzi ne regalò un poco anche a Marco accendendosi una sigaretta e restando in silenzio a guardare il fumo salire verso il cielo.

Un nome scivola via, come l’acqua ma a volte, come l’acqua cade a terra e lì congela formando una coltre spessa di ghiaccio, così che i passanti meno accorti talvolta scivolano e possono cadere.

 Storie di scherzi del destino, dicono poi gli uomini, e anche storie del ghiaccio, ma non parlano mai dei nomi che si sciolgono per strada per congelare, che non s’inciampa mai in un nome. Così dicono gli uomini che sanno, o pensano di sapere.

Salivano anche i pensieri con il fumo, quelli di Greta, leggeri, limpidi, lineari, e quelli di Marco che andava riprendendosi dopo lo scoppio. E fu così che per sviare il discorso o solo per rincominciarlo, disse, indicando i cani: -“Sono tuoi?”-.

Greta non staccò lo sguardo dal fumo e rispose:-“Sono di loro stessi, e del loro tempo di adesso, e del tempo che verrà”-.   –“Ma…stanno con te?”- riprese Marco –“Mi viaggiano accanto”- rispose Greta incrociando i suoi occhi con quelli di lui.

Marco sentì avvampare le guance quando gli occhi di lei abbracciarsi ai suoi. Quello sguardo teneva fermo i suoi occhi e benché volesse con tutto se stesso distoglierli da lei, non ci riusciva. Era prigioniero e quegli occhi erano una corda che lo legava e poi, d’un tratto, si sorprese a pensarlo: erano una scialuppa, vicina a lui, naufrago nel mare Oceano in tempesta.

Certi occhi sono un tappeto di biglie su cui devi camminare, e ti senti mancare l’equilibrio attorno, e tutto il mondo comincia allora a girare.

Girava il mondo attorno a Marco, forse per questo decise di sedersi, e lo fece lì, proprio accanto a dove Greta era seduta.

Così succede a volte al viaggiatore in cammino da lungo tempo, capita che si sieda sotto un albero apparso all’improvviso e ne colga l’ombra ristorandosi dal lungo cammino, e lì appoggi la schiena e rilassi le membra.

Così Greta era un albero e faceva ombra spandedosela attorno per quei viaggiatori che  avrebbero saputo in quella trovare riposo. 

Nel silenzio di quell’angolo di mondo Marco guardava i cuccioli che beatamente dormivano accanto alla madre che pure quietamente sedeva. Greta invece guardava il suo filo di fumo, Eppure entrambi si guardavano vicendevolmente con quel terzo occhio che a volte appare per scrutare oltre l’apparente, oltre la pelle e il viso, oltre la pupilla e la sua lente, oltre il suo punto cieco. Quel terzo occhio capace di guardare dentro, di scrutare ogni minuto anfratto dell’anima, cogliendoli anche nei luoghi più polverosi e bui.

E lei di lui vide la folla del caos sotto l’ordine delle cose, il tumulto ripiegato come calze stirate dentro a cassetti profumati di lavanda, e in fondo a quell’armadio, nascosto dentro la cantina del cuore, il sudario inamidato con ricamato il Nome d’una donna fattasi cera, e accanto al Nome, spalmato sopra il lembo di tessuto più puro, c’era il suo sorriso, uno spicchio di quello di allora, ma intenso e vivo. 

Mentre Greta guardava, lui vide dentro a lei il sapore di quell’ultima mela mangiata alla fermata del primo autobus di quella sua nuova vita, e vide i lividi e quella ferita, ma non soltanto quella di cui, a cercarla bene, era rimasta solo una piccola cicatrice fra la spalla sinistra e il collo. No, lui vide quell’altra aperta dentro la spalla della sua anima che richiudendosi aveva creato una spessa corazza che alcuni avrebbero letto come forza, altri diffidenza, solo pochi ne avrebbero colto il vero nome: l’essenza del dolore.

Cambiò anche il verso dell’aria, ed il suo umore, in quel momento. Un brivido gelido avvolse i due corpi seduti accanto. Anche la cagna s’accorse del volgere del clima. I cuccioli si svegliarono all’improvviso. Marco ebbe un gesto irrazionale nell’ordine del suo cosmo: allargò il suo braccio sinistro cingendo Greta. I polpastrelli dell’indice sfiorarono sotto la stoffa della maglietta, la piccola cicatrice sulla la spalla che per la prima volta da quella volta di allora, non iniziò a sanguinare al tocco d’un uomo. 

Greta appoggiò la testa a lui, guardò la cagna che la guardava e poi socchiuse gli occhi lasciando che il tempore dell’altro corpo, per osmosi, la permeasse.

Dissero alcuni passanti d’averli visti così, vicini, per molto tempo. Taluni arrivarono a sostenere che lo siano stati per due giorni almeno. Poi di loro nessuna traccia.

Ora si sa che l’inverno a volte gela i germogli spuntati impavidi, figli d’un sole casuale, ma pure capita, ed è più spesso il vero, che colgano le rondini il mar d’autunno ed in stormi volino dove il caldo avvolge i cuori e l’ali nel sospiro d’una incipiente nuova Primavera.

 

 

 

  

 
 
 
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