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UNA RUBY PACHISTANA CONTRO GLI IMAN

Post n°190 pubblicato il 09 Aprile 2011 da diefrogdie
 

 UNA RUBY PACHISTANA CONTRO GLI IMAN

Seguendo le idee di validi islamologi (primo fra tutti Bernard Lewis, professore all’Università di Princeton), è facile pensare che il maggiore difetto dell’islam e la principale ragione del suo ritardo rispetto all’occidente sia il trattamento riservato alle donne.

Lewis sostiene che una vita domestica fondata sulla repressione è ciò che più contribuisce alla imposizione di un governo repressivo: “Pensate soltanto a un bambino che cresce in una famiglia musulmana nella quale la madre non ha alcun diritto e vive in una condizione di autentico asservimento. Questa è la via maestra per una vita fondata sul dispotismo e la sottomissione. Apre le porte all’affermazione di una società autoritaria”.

Per tale motivo, mi pare particolarmente significativa la vicenda della showgirl pakistana Veena Malik, apparsa in tv con gli shorts e per questo definita da un chierico musulmano “puttana” “antislamica”. Lei si è difesa come una tigre. I talebani vogliono vederla come la ballerina Shabana, uccisa in piazza.

Ecco l’articolo scritto da Giulio Meotti su questa vicenda:

Una Ruby pachistana contro gli imam

“Nessuno in Pakistan può vedere le tue fotografie alla presenza delle proprie figlie. E non penso che tuo figlio in futuro guarderà le fotografie di sua madre”. “Imam, non ho fatto nulla di male, non ho infranto alcuna legge o la legge islamica. Sono tutti contro di me perché sono una donna e un bersaglio facile? Cosa dice il suo islam, sir?”.

Veena Malik è una soubrette senza chador in uno dei paesi più islamizzati del mondo, in Pakistan. In diretta tv, chiamata a raccontare la propria partecipazione al programma indiano “Big Boss 4”, Veena è stata attaccata in quanto “puttana” da un celebre imam locale, Abdul Qavi, che l’ha condannata come una “Ruby” Karima El Marough. Vergognosa, ovvero “bayghairti, baysharmi, bayhayai”, gridava il religioso islamico contro la ragazza pachistana.

La colpa della velina? Aver indossato un paio di shorts in televisione. Diventata bersaglio dei fondamentalisti islamici, l’attrice Veena Malik non si è fatta intimorire. E ora guida una battaglia pubblica per i diritti delle donne pachistane. Come era lecito aspettarsi, ha ricevuto minacce di morte dagli islamisti.
Il Times of India ha scritto che alcuni religiosi hanno emesso una fatwa di morte contro di lei per avere “umiliato l’islam” e disonorato il proprio paese. Ha pure ricevuto una lettera dai talebani che minacciano di infliggerle una punizione esemplare – per la sua partecipazione al “Big Boss Show” – e che prendono di mira anche la sua famiglia.
Veena ha risposto che ritiene il governo pachistano responsabile di ciò che potrebbe succederle, e che si rimette nelle mani del suo dio.

Veena ha reagito alle accuse dell’imam, che continuava a gridarle “begairat”, vergognosa, ricordando al chierico che “ci sono tante maniere per essere islamici”, che lei “faceva la carità con i soldi che guadagnava onestamente”, che “ha mantenuto una famiglia con quattro fratelli e una madre vedova”, mentre “mi risulta che molti imam barbuti abusino di bambini nelle scuole coraniche”.
Da quando Memri ha mandato in onda quei sette minuti e trentanove secondi di dibattito televisivo in contraddittorio con l’imam Qavi, sottotitolati in inglese e disponibili su YouTube, il video è stato uno dei più cliccati della rete.
“Visto che parla di islam, mi lasci dire che a lei non è consentito posare gli occhi su di me”, ha scandito la donna contro il religioso. “Dovrebbe essere punito in pubblico. Lei merita di essere punito. Se lei vuole fare qualcosa in nome dell’islam ha molte possibilità. Cosa fanno i politici? Uccidono in nome dell’islam. Ci sono molte cose di cui parlare. Perché Veena Malik? Perché Veena Malik è una donna? Il Pakistan è un posto infame per molte ragioni che non sono Veena Malik. Mi mostri una sola immagine in cui faccio cose inappropriate”.
E ancora: “Io sono soltanto una presentatrice, in quel programma televisivo non rappresentavo nessuno se non me stessa”.

Oggi Veena sa di rischiare grosso. Shabana, la più famosa delle ballerine di Mingora, poco a nord di Peshawar, nella meravigliosa e una volta turistica valle di Swat parallela al confine afghano, è stata trascinata in piazza e poi giustiziata dai fondamentalisti islamici.
Sul corpo hanno gettato pallottole, banconote, cd, dvd e foto con le sue performance “anti islamiche”. Ora si scopre che anche su Facebook ci sono già pagine contro Veena. Una pagina recita: “Odiamo Veena Malik, non è una musulmana”. Un utente la chiama “kuffar”, infedele, quindi passibile di morte.
Come Veena rischia anche il suo miglior difensore, Miss Pakistan Annie Rupani, che ha giustificato la partecipazione dell’attrice allo show indiano. “Le donne sono costantemente represse in nome dell’islam”, ha dichiarato Rupani.

Oggi Veena deve tenere un profilo basso. Ma in un’intervista successiva allo scontro con l’imam ha rincarato la dose: “Non ho paura di nessuno, non sono una ipocrita, non ho fatto nulla di male e volevo essere la prima a portare un po’ di pioggia liberatrice alle nostre povere donne oppresse da decenni. Sono convinta che nulla di male possa venirmi fintanto che Allah continuerà a proteggermi”.

Giulio Meotti, http://www.ilfoglio.it/soloqui/8385

 

 

 
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PERCHE' UN'ALTRA GUERRA?

Post n°189 pubblicato il 21 Marzo 2011 da diefrogdie
 

PERCHE' UN ALTRA GUERRA?

Surreale, difficilmente spiegabile. Non si può definire in altro modo quanto sta avvenendo in questi giorni attorno alla Libia.

In due giorni si è entrati in guerra quasi senza neanche accorgersene, passando da una risoluzione all’Onu all’intervento armato in modo automatico. Senza una parvenza di dibattito politico – e non è che in queste settimane ne fosse mancato il tempo - e senza una strategia militare e politica comprensibile, oltre alla decisione di far fuori Gheddafi (verso il quale, sia ben inteso, non si può che avere riprovazione).

È forte la tentazione di pensare che l’intervento militare sia il rimedio – affrettato e non adeguatamente ponderato – a un’incapacità politica di comprendere quanto sta avvenendo, non solo in Libia ma in tutto il Nordafrica e Medio Oriente. Ricordiamo che la rivolta libica aveva preso di sorpresa tutti quanti, perché il regime di Gheddafi sembrava quello meno esposto al contagio dei moti di piazza, come quelli avvenuti in Tunisia ed Egitto. Dopo qualche giorno di indecisione, tutti i leader europei, ritenendo Gheddafi ormai finito, si sono precipitati nell’opera di demonizzazione, un tentativo di lavarsi in fretta la coscienza dopo decenni di complicità e grossi affari portati a termine con il “tiranno” che oggi viene deferito al Tribunale penale internazionale contro i crimini di guerra. 

Lo abbiamo già fatto, ma vale ancora la pena ricordare che solo pochi mesi fa la Libia di Gheddafi è stata votata a stragrande maggioranza come membro della Commissione Onu per i diritti umani, senza che Sarkozy, Cameron e Obama avessero nulla da ridire.

Il problema è che la realtà ha colto di sorpresa per la seconda volta i leader occidentali: Gheddafi non solo non era finito, come si credeva, ma ha addirittura cominciato a riprendersi il terreno perduto, fino ad arrivare alle porte di Bengasi, da dove la rivolta era partita. Da qui l’imbarazzo drammatico di una classe politica occidentale impreparata e istintiva, che si muove senza obiettivi e strategie chiare. Condivisibili o meno, ma chiare. Che cosa sarebbe successo restando a guardare? Come spiegare all’opinione pubblica che il “demone” tornava a essere un capo di stato con cui sedersi a tavola a negoziare, un interlocutore inevitabile visto che la Libia è fondamentale per l’approvvigionamento di petrolio e gas?

Eccoci allora in guerra contro Gheddafi, con la Francia a comandare le operazioni, probabilmente con la convinzione di poter strappare più lucrosi contratti petroliferi già concordati con le forze ribelli, magari a spese dell’Italia.

Ma il problema è che, a parte l’obiettivo di eliminare Gheddafi – ammesso che possa essere una questione che riesce in poco tempo -, non sembra esserci un’idea per il dopo.
L’esperienza insegna che la caduta di un regime – vedi Iraq e Afghanistan – è soltanto l’inizio, e in fondo la cosa più semplice, di una guerra che non si sa dove conduce.
Nel caso di Iraq e Afghanistan, inoltre, una strategia – condivisibile o meno –  era chiara, così come già decisa era la presenza di una forza multinazionale chiamata a realizzate sul terreno l’obiettivo di una ricostruzione economica e politica dei due paesi. Ma nel caso della Libia, tutto questo non esiste anche perché la Libia resta un paese diviso per tribù, a cui neanche Gheddafi ha voluto dare una parvenza di istituzioni statali: è ben difficile considerare il “consiglio dei ribelli” come un interlocutore realistico e affidabile.
Il rischio per il dopo-Gheddafi è la somalizzazione della Libia, una guerra fra tribù, magari con un governo appoggiato dai paesi occidentali che non è in grado di controllare alcunché. A meno che la “coalizione dei volenterosi” (un nome che riecheggia il profetico romanzo di R. Benson “Il padrone del mondo”) non decida di occupare militarmente anche il territorio libico.

Si interviene per salvare i civili dai massacri e dalle ritorsioni di Gheddafi, si è detto per giustificare l’intervento. Ma in questo caso il ritardo delle operazioni militari non sarebbe di qualche settimana ma di qualche decennio. E comunque questo dovrebbe allora portare ad attaccare quasi tutti i paesi africani e buona parte dell’Asia.

Con le crisi di Iraq e Afghanistan ancora aperte e tutt’altro che vinte, preoccupa l’apertura di un terzo fronte. E proprio mentre poco più in là, nel Golfo, è in atto una crisi militare che può essere decisiva per l’assetto geopolitico della regione, per l’approvvigionamento energetico e per la stabilità mondiale. Gli scontri in Bahrein, con l’intervento diretto dell’Arabia Saudita, stanno facendo salire pericolosamente lo scontro tra sciiti e sunniti che ha sullo sfondo anche la battaglia tra Arabia Saudita e Iran per la leadership regionale e per il controllo delle fonti energetiche mondiali. Ma su questa vicenda i leader europei appaiono distratti: sembrano non avere una strategia in Libia, non vedono i processi profondi della storia. A dimostrazione che, paesi che stanno smarrendo la coscienza della propria identità e della propria missione nel mondo, faticano a comprendere il presente e costruire il futuro.

Certo, ora che la guerra è iniziata, non si può fare a meno di augurarsi che finisca presto e che raggiunga l’obiettivo di detronizzare il rais di Tripoli, evitando per quanto possibile sofferenze alla popolazione civile.
Facciamo nostre, dunque, le preoccupazioni, e la «viva trepidazione» e la «grande apprensione» espresse da Benedetto XVI all’Angelus di ieri: «Rivolgo un pressante appello a quanti hanno responsabilità politiche e militari, perché abbiano a cuore, anzitutto, l’incolumità e la sicurezza dei cittadini e garantiscano l’accesso ai soccorsi umanitari». 

da www.labussolaquotidiana.it di Riccardo Cascioli e Andrea Tornielli


Da ultimo una domanda:
Chi prenderà il potere a Tripoli una volta abbattuto il colonnello Gheddafi? Conosciamo davvero questi "ribelli"? Chi li arma? Quanto Islam porteranno nel futuro della Libia? Perché Al Qaida è in festa per la guerra a Gheddafi? C'è il rischio che la Libia si trasformi in una specie di Somalia alle porte dell'Italia? 


 

 
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IERI,OGGI, SEMPRE...FRATELLI D'ITALIA

Post n°188 pubblicato il 16 Marzo 2011 da diefrogdie
 

IERI, OGGI, SEMPRE...FRATELLI D'ITALIA

 

 

 

 

 
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UN ALTRO MARTIRE CRISTIANO

Post n°187 pubblicato il 02 Marzo 2011 da diefrogdie
 

UN ALTRO MARTIRE CRISTIANO

da www.asianews.it
http://www.asianews.it/notizie-it/Ucciso-Shahbaz-Bhatti,-ministro-pakistano-che-ha-difeso-Asia-Bibi-20914.html


Islamabad (AsiaNews) – Il ministro pakistano per le minoranze, Shahbaz Bhatti è stato ucciso questa mattina da un commando armato. L’attentato è stato compiuto nel quartiere I-8/3 da un gruppo di uomini mascherati che hanno teso un agguato al ministro per strada. L’hanno tirato fuori dalla sua auto e hanno aperto il fuoco contro di lui a brevissima distanza, crivellandolo con 30 proiettili  prima di fuggire su un’automobile.

La nipote di Shabhaz Bhatti stava viaggiando con lui quando è avvenuta l’aggressione. I terroristi hanno continuato a sparare per circa due minuti. Non c’era nessun agente della sicurezza con Bhatti quando è avvenuto l’attentato. Il ministro è stato immediatamente trasportato all’ospedale Shifa, dove però i medici non sono riusciti a salvarlo. Gli assassini hanno lasciato sul luogo del delitto un manifestino: " Tehrik-e-Taliban Pakistan" (Ttp) rivendica l’assassinio di Bhatti per aver parlato contro la legge sulla blasfemia. " Tehrik-e-Taliban Pakistan" è un’organizzazione “ombrello” che raggruppa vari gruppi di militanti islamici.

Shahbaz Bhatti, cattolico, era stato confermato di recente nel suo incarico di ministro per le Minoranze in un rimpasto governativo. Aveva difeso con coraggio Asia Bibi, la cristiana condannata a morte per blasfemia in base a false accuse. Apparteneva al PPP, il partito progressista al governo. Dopo l’uccisione di Salman Taseer, governatore del Punjab, che aveva agli occhi dei fondamentalisti islamici la colpa di aver difeso anch’egli Asia Bibi, Bhatti aveva detto di essere ora “il bersaglio più alto” dei radicali.  

“Questa è una campagna concertata per sopprimere ogni voce progressista, liberale e umanitaria in Pakistan” ha detto Farahnaz Ispahani, assistente del presidente Asif Ali Zardari. “E’ venuto il momento per il governo nazionale e per i governi federali di parlare chiaro, e di prendere una posizione ferma contro questi assassini per salvare l’essenza stessa del Pakistan”.

Robinson Asghar, che era amico di Bhatti ha detto che il ministro ucciso aveva ricevuto minacce dopo l’assassinio del governatore del Punjab, Salman Taseer. Asghar ha detto di aver consigliato Bhatti a lasciare il Pakistan per un certo periodo a causa delle minacce, ma che Bhatti si è rifiutato.

Il ministro dell’Informazione, Firdous Ashiq Awan ha detto che Bhatti ha giocato un ruolo chiave nel promuovere l’armonia interreligiosa, ed era una grande risorsa. “Siamo tristi per la sua morte tragica” ha detto, aggiungendo che il governo aprirà un’indagine sul perché non aveva una scorta.

 

 

 
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IMMIGRATI DAL NORD AFRICA: NON SPALANCHIAMO LE PORTE!

Post n°186 pubblicato il 26 Febbraio 2011 da diefrogdie
 

IMMIGRATI DAL NORD AFRICA: NON SPALANCHIAMO LE PORTE!

Di fronte alla verosimile invasione che si svilupperà in Europa a seguito delle rivolte in Nord Africa, penso che due prncipi debbano essere rispettati.

Primo: Fatta salva l’assistenza umanitaria che deve essere fornita a tutti, penso che si debbano rispettare senza tentennamenti i princìpi di diritto internazionale che regolano l’asilo politico. Solo una minima parte di coloro che stanno ora arrivando in Italia sono nelle condizioni di poter chiedere lo status di rifugiato politico. Tutti gli altri sono immigrati economici e, come tali, devono essere rimandati nel paese d’origine. Siamo davanti a persone che hanno un forte disagio nel loro paese che colgono quindi l’occasione per emigrare. Ma se sulla spinta dell’emozione suscitata dagli avvenimenti di queste settimane facessimo finta di avere a che fare con dei rifugiati politici aprendo le porte indiscriminatamente, porremmo le basi per un futuro disastro umanitario. Certo però che non basta semplicemente il rispetto di queste regole.



Secondo principio: La necessità di una collaborazione europea.
Da una parte per effettuare un’operazione di controllo delle coste tunisine e libiche ed egiziane, è necessario un intervento dell'Europa. 
Per coordinare gli aiuti che da una parte mitighino la difficile situazione della popolazione e dall’altra diano un messaggio di speranza. Vale a dire: l’Europa vi ha a cuore, non siete abbandonati.
Facendosi carico in qualche modo della situazione in Nord Africa – d’accordo ovviamente con il loro governo, o ciò che ne resta - si rende anche meno necessaria e urgente la spinta migratoria. Si tratta insomma di governare la situazione in modo saggio tenendo conto delle attuali necessità della popolazione e degli effetti disastrosi che potrebbe avere un’apertura indiscriminata dei confini.

 
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Multiculturalismo fallito d'Europa, un requiem

Post n°185 pubblicato il 13 Febbraio 2011 da diefrogdie
 

Multiculturalismo fallito d'Europa, un requiem

www.labussolaquotidiana.it 
 

È ufficiale, per le cancelliere occidentali il multiculturalismo è una catastrofe. Per dirla con David Cameron, il «multiculturalismo di Stato» ha fallito. Il primo ministro britannico lo ha detto il 5 febbraio, intervenendo alla 46° Conferenza annuale sulla sicurezza di Monaco. Ma è solo l’ultimo, in ordine di tempo, dei capi di governo europei a trarre conclusioni tanto tranchant quanto politicamente scorrette. Colpisce del resto che, per celebrare il funerale del multiculturalismo, Cameron abbia scelto il proscenio internazionale, ma soprattutto la Germania di quell’Angela Merkel che solo il 16 ottobre, a Potsdam, al congresso della Cdu-Csu, pronunciava parole identiche: «il multiculturalismo è definitivamente fallito». Aggiungendo, con riferimento alla cultura giudaico-cristiana su cui si fonda la Germania, che «chi non la accetta, da noi non ha posto».

Oggi Cameron rincara la dose: serve «meno della tolleranza passiva degli ultimi anni e più liberalismo attivo e muscoloso». Si è infatti di fronte oggi, ha spiegato il premier britannico, a un inquietante «indebolimento dell’identità nazionale» britannica dovuto al fatto che un numero enorme di giovani musulmani – che in molti casi si trasformano in veri «predicatori di odio» – non si riconosce affatto nei valori fondanti il Paese e quindi non se ne sente cittadino.
Epperò, aggiunge Cameron, «solo chi crede in queste cose può avere un senso di appartenenza». Perché «una società passivamente tollerante rimane neutrale tra valori differenti. Un Paese davvero liberale fa molto di più. Esso crede in certi valori e li promuove attivamente». Basta «tolleranza passiva», insomma, occorre «voltare pagina sulle politiche fallite del Paese. Per prima cosa, invece di ignorare questa ideologia estremista, noi dovremo affrontarla, in tutte le sue forme». Infatti, «sotto la dottrina del multiculturalismo di stato, abbiamo incoraggiato culture differenti a vivere vite separate, staccate l'una dall'altra e da quella principale. Non siamo riusciti a fornire una visione della società, alla quale sentissero di voler appartenere. Tutto questo permette che alcuni giovani musulmani si sentano sradicati».

Parrebbe che Cameron avesse letto il libro Londonistan: How Britain is creating a terror state within (edito da Gibson Square a Londra e da Encounter Books a New York), pubblicato dalla giornalista Melanie Phillips nel 2006 sulla scia degli attentati jihadisti avvenuti nella capitale britannica il 7 luglio 2005.

Il rifiuto di conformarsi alle norme di convivenza tipiche dello Stato democratico di diritto su cui si regge oggi l’Occidente non produce però solo il terrorismo armato, ma pure quella versione soft dell’estremismo che comporta per esempio il ripudio della parità di diritti fra uomini e donne o situazioni insostenibili nel campo dell’educazione.

Il punto lo fa bene il giornalista di Avvenire Giorgio Paolucci nel suo recente libro Immigrazione (Viverein, Roma 2010) là dove nota che «il multiculturalismo, che ha trovato realizzazione soprattutto in Gran Bretagna e in Olanda, muove dalla convinzione che ogni comunità etnica o religiosa debba essere libera di organizzarsi a partire dalle proprie regole e tradizioni».
Ciò implica la «formazione di microcosmi etnici», vale a dire di «“pezzi” di società parallele e autoreferenziali con rapporti forti al loro interno ma deboli col resto del paese.

La comunità (razziale, etnica, religiosa) prevale sulla persona». E così, «anziché favorire lo scambio e la relazione, si finisce per promuovere una “pluralità di monoculture”, una torre di Babele dove diventa sempre più difficile una convivenza ordinata in nome di principi condivisi».

Il multiculturalismo produce cioè l’esatto contrario di quel che auspicherebbe, la coesione fra soggetti differenti, e questo poiché alla sua «radice […] sta il relativismo culturale, che genera a sua volta il relativismo giuridico», il quale legittima le diversità, magari persino i «tribunali sharaitici».

Il risultato è una mera «giustapposizione delle identità», che istituisce «riserve indiane» autoreferenziali ed etnocentriche a cui consegue solo l’«approfondimento delle divisioni di partenza».

[…] 

 
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FRATELLI MUSSULMANI

Post n°184 pubblicato il 08 Febbraio 2011 da diefrogdie
 

ECCO CHI SONO I FRATELLI MUSSULMANI

Magnifico articolo (in inglese) su cosa siano e cosa vogliano i fratelli mussulmani, probabili "vincitori" delle rivolte di piazza del medio-oriente.

The Muslim Brotherhood Hates Us

by Giulio Meotti

www.Israelnationalnews.com
Forget the Saudi djellaba or the Taliban beards: the new face of the Muslim Brotherhood is modern, elegant and more difficult to decipher. “Many Brothers are clean-shaven, wear suits and ties and are physically indistinguishable from other Egyptians of the same class”, wrote Reuters correspondent Jonathan Wright. The new Supreme Leader of the Brotherhood, Mohammed Badie, wears expensive pinstripes, talks quietly and is one of the most respected veterinarians in Egypt.

The Brotherhood now preaches  “hurriyah”, freedom, and “dimuqratiyah”, democracy, but in August, Mr. Badie proclaimed that “if the Muslim Brotherhood had remained in the field, the Zionist Entity would not have stood nor would its flag have been raised”.

The Brotherhood declared war on the Jews, Europe and the West. But the Western media disguised the real intentions of the new Brotherhood leadership.

Immediately after his election one year ago, Badie proclaimed: “We will continue on the path of Sayyid Qutb”.

Very few “experts” understood the deep meaning of his statement. The stories about the suffering of Qutb in Egyptian prisons are a kind of original mythology of the Muslim Brotherhood. Qutb was held for hours in a cell with dogs snarling while being beaten during long rounds of questioning. Badie was his cellmate.

Qutb managed to get  his manifesto, “Milestones”, smuggled out of the jail. It is often defined as the “Mein Kampf of Islamism”. This text circulated clandestinely for years and it was later banned.

Qutb’s disgust for the degenerate West does not stop with its women or jazz music, which he claimed was “created by Negroes to satisfy their love of noise and to whet their sexual desires”. He described the West as a “rubbish heap” and claimed that because of its “enmity toward Islam” it planned to “demolish the structure of Muslim society”.

Qutb also managed to publish  the essay “Our Struggle with the Jews” (reprinted as a book by the Saudi government in 1970). In the essay, Qutb vilified the Jews as “slayers of the prophets”, and as essentially perfidious, double-dealing and evil.

Qutb was hanged on August 29 1966, after the dawn prayer. It was a strategic martyrdom, which has planted deep roots in the Islamist soul. Qutb had written that the only way to get rid of corruption of the Egyptian colonialist regime was the imposition of a “just dictatorship” and the war against modernity, secularism, rationality, democracy, individualism, sexual promiscuity, materialism and  Zionism (which had contaminated Islam). 

To Qutb and Badie, the U.S. and Israel are the biggest evils that exist.. “The jihad against the infidels is a commandment of Allah”, said Badie in August. Badie has also called for raising  “a  jihadi generation that pursues death just as the enemies pursue life”.

“You love life and we love death” are the words attributed to an Al-Qaeda organisation after the Madrid train bombing, while Sheikh Yusuf al-Qaradawi, the Muslim Brotherhood ideologue, called on the Lord to kill the Jews, “down to the very last one”.

The Brotherhood story begins one morning in 1928 in the village of Ismaliya, near the Suez Canal. A group of Muslims gathers around a fervent preacher by the name of Hassan Al-Banna. Egypt was then a semi-colonial monarchy, and Al-Banna, wanted to free it through the return to salafist origins: “Islam is faith and cult, native land and citizenship, religion and state, spirituality and action, Book and sword”.

From this beginning, the Muslim Brothers went on to  become the oldest and most influential Islamist organization. Dedicating themselves  to “tarbiyya”, preaching and instruction, the Brothers opened schools, clinics, mosques, and recommended one style of salafist life. The men began to grow beards, and the women wore the veil.

The Muslim Brotherhood is now a crucial part of the Egyptian élite, they are doctors, engineers, professors, ambassadors, judges and parliamentarians. With Saudi petrodollars, they have set foot in the United States, represented by the Council on American Islamic Relations.

The Palestinian section is better known as Hamas.

The Brotherhood is the group that runs mosques in the West. Its front groups are courted by Western governments and media. Europe is one of their priorities. They call is “dar al shaadi”, the land of mission. Yusuf al Qaradawi, the most famous guru of the Brotherhood, spoke clearly: “Islam will return to Europe, not by the sword, but with proselytism”.

Their goal is simple and powerful: a war against the Jews and the Western freedoms. “[The] History of liberty is not written with ink but with blood”, says Badie.The Brotherhood’s platform also includes discrimination against Christians and women, and follows the  Iranian model that assigns much political power to the religious clergy. In the Parliament  they fought to veil the women in television and to ban “Miss Egypt”.

Symbols often help understand the mindset of a group. That of the Brotherhood is a Koran and two sharp swords.

In 2005 they published a map of the world. In the center was a green area, the color of Islam. In a lower panel it said:  “One hundred years from now”, and the field there is completely green, the colour of Islam.

A Brotherhood victory in Egypt would mean a very sad day for the Jews, Europe and the West.  Obama, take heed.

 
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RIVOLTE IN MEDIO-ORIENTE

Post n°183 pubblicato il 29 Gennaio 2011 da diefrogdie
 

 RIVOLTE IN MEDIO ORIENTE

Dopo la Rivoluzione francese ci fu il Terrore di Robespierre.
Cosa subentrerà al vuoto dei regimi arabi? Chi guadagnerà da queste proteste?
In Tunisia l'hanno chiamata "Intifada", al Cairo per strada si urla "Allah Akhbar" e i Fratelli Musulmani ringraziano Allah per la "santa collera", Hamas parla di una "vittoria della democrazia".
Cosa accadrà alle donne di Tunisia? L'ex presidente Habid Bourghiba aveva dato alle donne diritti senza uguali nel mondo islamico. Durerà questo modello? Che ne sarà di quel poco di modernizzazione e laicità?
Queste rivoluzioni nascono certamente dal malcontento popolare verso i regimi, ma chi potrebbe approfittarne è l'islamizzazione. Nella West Bank la vivacità economica non è garanzia della pace con gli ebrei. A Gaza governa un regime tenebroso. E il Libano si avvia a diventare sempre più un "satellite iraniano". Beirut è ancora percepita come una liberazione per i giovani arabi che vogliono godere di un po' di luce, passeggiare senza il chador e tenersi per mano. Ma sarà ancora così domani?
E cosa accadrà con Israele? Una delle accuse più dure rivolte a Ben Ali era di avere "legami sionisti". La stessa accusa era stata rivolta a un grande leader arabo di nome Anwar al Sadat. E sappiamo come fini quella storia.

Le proteste di ieri in Egitto sono cominciate dopo la preghiera del venerdì e hanno scosso ogni angolo del paese. I Fratelli musulmani, un movimento al limite della legalità, è sceso in strada per la prima volta al fianco dei giovani d’Egitto. Il governo ha chiesto ai manifestanti di stare lontani dalle chiese e dalle moschee, gli imam del Cairo hanno detto che l’islam “è contro le divisioni”, ma le prediche non hanno avuto effetto. La “Giornata della collera” è già nella memoria del popolo e ha già cambiato questo paese grande e decisivo per gli equilibri della regione.

Molte analisi, saggi di una vasta letteratura internazionale, comparse nei media occidentali danno la colpa di questo caos al mondo occidentale. La parzialità di questi commenti richiedono alcune ovvie, ma non scontate considerazioni. Innanzi tutto esse confermano che, sotto l’influenza dell’ideologia antioccidentale, in certi ambienti intellettuali l’Occidente è ritenuto colpevole e riprovevole sempre: lo è se, ad esempio, impone sanzioni a Robert Mugabe, presidente dello Zimbabwe, perché non rispetta le regole democratiche, reprime con la violenza la popolazione e ha portato alla bancarotta il suo paese; e lo è se ottiene un mandato di cattura internazionale contro Omar Hassan el Bashir, presidente del Sudan, accusato dalla Corte penale internazionale di crimini contro l’umanità, genocidio e crimini di guerra. In entrambi i casi si parla di ingerenze indebite e di arroganza imperialista. Ma, come si è visto, anche non intervenire o farlo debolmente rende l’Occidente colpevole.

In secondo luogo, per meritare attenzione, chi denuncia i governi occidentali dovrebbe rivolgere le stesse accuse ai Bric: Brasile, Russia, India e Cina. Invece l’ideologia antioccidentale induce coloro che la condividono addirittura a complimentarsi con la Cina perché tratta affari con i regimi africani senza porre condizioni di buon governo, lotta alla corruzione e promozione dei diritti umani come cercano ormai di fare, forse tardivamente, i paesi occidentali.

La terza considerazione è che si fa torto alla verità e non si aiuta di certo la causa dei poveri e degli oppressi trasformando ogni evento sociale e naturale infausto in un pretesto per attaccare l’Occidente.

Per concludere, non si può che aspettare l'evolversi degli eventi, ma temo che da questo caos chi ci guadagnerà sarà solo l'islamismo più becero, antidemocratico e violento.

 

 
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CRISTIANESIMO E ISLAM

Post n°182 pubblicato il 12 Gennaio 2011 da diefrogdie
 

 «...un forte grido rivolto a tutte le persone con responsabilità politica o religiosa perché fermino la cristianofobia»: è l'appello di Benedetto XVI nel discorso rivolto il 20 dicembre 2010 alla Curia romana...

Gli attacchi recenti che più hanno impressionato le autorità della Chiesa – il papa li ha definiti "vili" – sono stati quello del 31 ottobre contro la cattedrale siro-cattolica di Baghdad e quello del 31 dicembre contro la chiesa copta dei Santi Marco e Pietro di Alessandria d'Egitto, con molte decine di morti e di feriti.


I fatti recenti confermano i giudizi di fondo di papa Joseph Ratzinger sull'islam, sul suo non risolto rapporto tra fede e ragione, da cui nasce la violenza contro infedeli ed apostati.

Nello stesso anno della lezione di Ratisbona, il 2006, Benedetto XVI si recò anche in Turchia. E prima di Natale, nel discorso alla curia, lanciò al mondo musulmano questa proposta rivoluzionaria:

"In un dialogo da intensificare con l'Islam dovremo tener presente il fatto che il mondo musulmano si trova oggi con grande urgenza davanti a un compito molto simile a quello che ai cristiani fu imposto a partire dai tempi dell'illuminismo e che il Concilio Vaticano II, come frutto di una lunga ricerca faticosa, ha portato a soluzioni concrete per la Chiesa cattolica. [...]

"Da una parte, ci si deve contrapporre a una dittatura della ragione positivista che esclude Dio dalla vita della comunità e dagli ordinamenti pubblici, privando così l'uomo di suoi specifici criteri di misura.

"D'altra parte, è necessario accogliere le vere conquiste dell'illuminismo, i diritti dell'uomo e specialmente la libertà della fede e del suo esercizio, riconoscendo in essi elementi essenziali anche per l'autenticità della religione. Come nella comunità cristiana c'è stata una lunga ricerca circa la giusta posizione della fede di fronte a quelle convinzioni – una ricerca che certamente non sarà mai conclusa definitivamente – così anche il mondo islamico con la propria tradizione sta davanti al grande compito di trovare a questo riguardo le soluzioni adatte.

"Il contenuto del dialogo tra cristiani e musulmani sarà in questo momento soprattutto quello di incontrarsi in questo impegno per trovare le soluzioni giuste. Noi cristiani ci sentiamo solidali con tutti coloro che, proprio in base alla loro convinzione religiosa di musulmani, s'impegnano contro la violenza e per la sinergia tra fede e ragione, tra religione e libertà. In questo senso, i due dialoghi di cui ho parlato si compenetrano a vicenda".

L'attuale "strategia di violenze" anticristiana è la prova che da questa rivoluzione illuminista, invocata da papa Benedetto, il mondo islamico è drammaticamente lontano.

 
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La strage di Alessandria d’Egitto

Post n°181 pubblicato il 02 Gennaio 2011 da diefrogdie
 

 

 IL FRONTE ROVESCIATO 
  
 La strage di Alessandria d’Egitto gonfia il fiume di sangue alimentato dall’odio con­tro i cristiani nell’anno appena trascorso. Se­gnando l’inizio del 2011 con lo stesso, im­placabile cinismo di un tiro al bersaglio con­dotto sotto gli occhi distratti e indifferenti dei grandi del mondo.
Colpi veri, confusi coi mi­lioni di falsi che nelle stesse ore salutavano l’arrivo del nuovo anno, quasi ad aumentare la distanza tra la realtà di una tragedia che pare ormai infinita e la finzione di chi si osti­na a non vedere. Troppi brindano all’anno che viene senza far caso alle macchioline di sangue schizzate anche sui loro bicchieri. Che sia un anno felice. Non lo sarà per tutti.
Natale e Capodanno non hanno rallentato gli assassini. Con asciutto realismo, si po­trebbe dire che hanno solo facilitato loro il compito, lasciando l’imbarazzo della scelta tra migliaia di bersagli inermi.

E nel contra­sto raggelante tra la tragedia e la festa, si rag­grumano i due «estremi negativi» della sfida «drammaticamente urgente» della libertà re­ligiosa, così come Benedetto XVI ce l’ha ri­proposta nella Giornata Mondiale per la pa­ce: da una parte il fondamentalismo, che la religione vorrebbe imporla con la forza, dal­­l’altra il laicismo, che al contrario vorrebbe «in modo spesso subdolo» emarginarla, e ridur­la
a fatto privato e minimale. Avrebbe potuto essere facile, e perfino 'pro­duttivo' – nel senso attribuito a questo ter­mine dalle moderne leggi del marketing – sfruttare opportunisticamente le ripetute uc­cisioni dei cristiani. Insistere solo e soltanto sul dato di un cristianesimo assediato e mi­stificato, continuamente minacciato da un odio tanto più feroce quanto più incapace di svuotare le Chiese perseguitate e di tappare le bocche ai pastori.
Cristianofobia,
l’hanno chiamata: termine entrato proprio alla vigi­lia di Natale anche nel lessico di Papa Rat­zinger. Che dunque non ignora che questa drammatica realtà esiste. Ma sa che è parte – certo, enorme – della stessa sfida, figlia di quegli stessi «estremi negativi».
  Tanto più allora suona profetico, in questi momenti, l’annuncio di Benedetto XVI di vo­lersi ritrovare il prossimo ottobre ad Assisi, a venticinque anni dalla prima convocazione da parte di Giovanni Paolo II, con i leader di tutte le religioni per «rinnovare solenne­mente l’impegno dei credenti a vivere la pro­pria fede religiosa come servizio per la cau­sa della pace».
È la contro-sfida lanciata da un lato ai seminatori di odio e di indifferen­za, dall’altro ai luoghi comuni e alle troppe ignoranze, nella certezza che «chi è in cam­mino verso Dio non può non trasmettere pa­ce », e che «chi costruisce pace non può non avvicinarsi a Dio».
  È il rovesciamento del fronte. La risposta a chi abusa del nome di Dio per ragioni che nulla hanno a che fare con Dio, per umi­­liare, discriminare, uccidere. La risposta a chi pensa che un
pater, ave, gloria
tra le mu­ra di casa lo si possa – e magari, perché no, lo si debba – tollerare, ma che un crocefis­so esposto sia un’offesa.
«Estremi negativi» di una stessa visione della convivenza che, mentre rifiuta la piena e vera espressione della libertà personale, di cui quella reli­giosa è il fondamento, nega la possibilità stessa del con-vivere, che nella ricchezza data dalle diversità ha costruito nei secoli la civiltà. Condannando la società che vor­rebbe difendere a chiudersi in se stessa e, dunque, a morire.
  Tornando nel 1993 ad Assisi, per pregare con i capi religiosi per la pace nei Balcani, Gio­vanni Paolo II, ricordando il precedente del 1986, invitò a affidarsi ancora una volta «al Signore della storia, il quale ci ha dato dei segni, anche tangibili, di averci ascoltato». È con questo stesso spirito che Benedetto XVI tornerà ad Assisi. Certo che, ancora una vol­ta,
il Signore ascolterà.
 

www.avvenire.it Salvatore Mazza

 
 

 
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