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Civiltà del Seicento nelle chiese di Castellammare di Stabia

Post n°6152 pubblicato il 26 Marzo 2009 da stabia_info
 

Il Seicento è stato il secolo d’oro della pittura napoletana: l’ispirata verve artistica alimentata da pittori come il Caravaggio, il Ribera, il Maestro dell’Annunzio ai pastori, il Giordano e il Vaccaro influenzò anche i gusti delle committenze nei piccoli centri come Castellammare.

Nelle chiese stabiesi sono diverse le opere che testimoniano come la committenza del tempo guardasse alle influenze napoletane, cercando di portare in città opere delle migliori botteghe, dimostrando così una grande attenzione verso le correnti artistiche che si sviluppavano nella capitale del Regno.

Iniziamo il nostro itinerario dalla chiesetta al Rione Spiaggia dedicata a San Francesco Saverio (fondata nel 1865). Qui è conservata una pala (figura 1) raffigurante il Santo titolare del tempio (Francisco de Javier y Jaso, 1506 - Sancian, 1552). Si tratta di una tela da datare al tardo Seicento o ai primi anni del Settecento. L’autore è da identificarsi in un seguace di Luca Giordano, che non può però riconoscersi in Paolo de Matteis, come erroneamente affermato in altri scritti.

Nella chiesa di Maria Santissima del Carmine (fondata nel 1867) è conservata una pala raffigurante il Matrimonio mistico di Santa Caterina. Questa tela (figura 2) può essere considerata un’opera autografa (con collaborazione della bottega) di Andrea Vaccaro (Napoli, 1604-1670). Il momento raffigurato è quello tradizionale, narrato dalla leggenda, in cui il Bambino infila la fede all’anulare della Santa. Nonostante il recente restauro, la lettura è in parte deturpata da un pesante intervento, databile alla fine del XIX secolo. Una pala del tutto simile, dello stesso Vaccaro, è presente in una collezione privata napoletana

Nella chiesa di Santa Maria dell’Orto si ammira una tela mariana opera di Ippolito Borghese (? -1627): originario di Sigillo (Umbria), fu discepolo del Curia ed ebbe contatti con artisti attivi a Roma e con rappresentanti delle correnti fiamminghe. Il dipinto fu commissionato nel 1621 dai governatori della confraternita degli ortolani, Andrea Galtiero, Marcantonio Carrese, Giacomo Antonio Carrese e Benedetto Verdoliva. Santa Maria dell’Orto, rappresentata tra i santi Agostino e Nicola da Tolentino, è incorniciata da sei angeli musicisti; il Bambino regge il globo terrestre. In secondo piano compare un Cristo contadino, inserito in una scena raffigurante il lavoro degli ortolani: una donna incinta offre un vaso e il lavoro della terra, affidando il futuro degli ortolani (simboleggiato dal suo grembo) a Gesù. Nel fondo sono dipinti i monti stabiesi e la chiesetta degli ortolani con il sagrato dove erano venduti i prodotti. La fontana, che realmente si trovava sul sagrato, simboleggia la protezione della Vergine che ha donato fecondità alla terra attraverso il Frutto del suo grembo.

Passiamo a descrivere le opere conservate nel duomo di Castellammare di Stabia che è, senza dubbio (non solo per quanto riguarda la pittura del Seicento), il più significativo monumento sacro dell’Arcidiocesi.
Nella prima cappella della navata destra si ammira una tela firmata (sul retro) da Giovanbattista Spinelli: rappresenta il vescovo San Nicola di Mira che porta in salvo il giovane Adeoato, divenuto schiavo di un re pagano (figura 3). La pala fu dipinta a metà del Seicento, a spese di Francesco, Giovanni Battista, Giuseppe e Carlo de Rogatis. Inizialmente il quadro si trovava a Napoli nella casa di Angelo Pandone (abate di Santa Maria a Cappella), fuori la porta di Chiaia. Il dipinto fu fatto trasportare nel duomo di Castellammare da Geronima de Rogatis (matrigna del Pandone). Giovanbattista Spinelli (1607-1657), di origine bergamasche, fu allievo di Massimo Stanzione e di Battistello Caracciolo.

Nella seconda cappella della stessa navata vi sono due tele (dalla difficile lettura per lo stato di conservazione) raffiguranti La Natività di Cristo(figura 4) e l'Assunzione della Madonna (fugura 5). Queste opere sono del molisano Giovan Vincenzo da Forlì, un pittore tardo manierista nato a Campobasso nella metà del Cinquecento, che operò a Napoli tra il 1592 e il 1639. Le due tele si trovavano nella cappella gentilizia della famiglia de Caro in San Lorenzo Maggiore di Napoli (assieme alla cinquecentesca tavola, esposta nel centro della cappella, raffigurante la Madonna del Rosario) almeno fino al rifacimento della detta cappella napoletana, avvenuto tra il 1643 e il 1649.

La cappella del SS. Sacramento è dominata dalla tela raffigurante Il Cristo morto in contesto trinitario tra i santi Giovanni Battista e Giovanni Evangelista (figura 6). La scena è sovrastata dalla colomba dello Spirito Santo; l’Eterno Padre, assistito da angeli, raccoglie il corpo esamine del Figlio in un ricco piviale. I due santi invitano ad adorare il Corpo di Cristo e due putti al centro adorano un piccolo ostensorio. Ritenuto erroneamente, opera di Andrea da Salerno (1484 c.-1530) il quadro è stato poi assegnato alla cerchia di Giuseppe de Ribera, per poi essere recentemente associato dal prof. Vittorio Sgarbi ai modi di Luca Giordano (1634-1705), apprendista del Ribera in giovane età. A nostro avviso, vista la difficile lettura, causata da un non perfetto stato di conservazione, solo un accurato studio, sulla base di un restauro, potrebbe chiarire l’ambito del dipinto: la datazione è, forse, da collocarsi tra la seconda metà del Seicento e i primi anni del secolo successivo.

A nostro parere, anche il dipinto esposto nella crociera del duomo, raffigurante l’Adorazione dei pastori (figura 7), è da associare alla arciconfraternita del Corpo di Cristo. La composizione ci mostra i vari personaggi, compresi la Madonna, Giuseppe e gli stessi animali, in atto di adorazione verso il Corpo di Cristo. La donna con la cesta sulle spalle, guardando fuori dal quadro, ci invita a mostrare la stessa attenzione verso il Bambino; nel fondo s’intravede l’Angelo che porta l’annunzio ai pastori. La lettura eucaristica è confermata dalla presenza dell’agnello legato ai piedi della mangiatoia, prefigurazione della missione di Gesù: “Ecco l’agnello di Dio”. Questo dipinto è copia dell’omonima opera del Ribera, esposta al Louvre di Parigi e fu realizzato da Cesare Fracanzano (1605 c.- 1651), uno dei più noti (e violenti) allievi dello Spagnoletto, e una delle massime personalità del barocco pugliese, "fu pedissequo seguace del suo maestro fino al punto di copiare fedelmente per il duomo di Castellammare di Stabia l’Adorazione dei Pastori”(B. De Dominicis, Vita dei pittori, scultori e architetti napoletani-pagine scelte e annotate da F. De Filippis a cura di R.Schettini, Napoli 1980).Una ulteriore copia, di fattura inferiore, è conservata nella chiesa parrocchiale di Manneville in Francia.
Nello stesso lato della crociera è esposta l'Immacolata Concezione (figura 8) di Giuseppe Marullo, allievo tra i più fedeli di Massimo Stanzione. Il Marullo, nato nel 1615 a Orta di Atella (Ce) è morto a Napoli nel 1685. La Vergine ha lo sguardo in estasi e le mani incrociate sul petto in atto di raccoglimento; il recente restauro ha messo in evidenza tracce di un dipinto sottostante.

Nella cappella dell’Ara Pacis si ammira la splendida tela (figura 9) raffigurante la Deposizione di Cristo, dono del conte Vincenzo Coppola al vescovo Vincenzo Maria Sarnelli (1879-1897). Gesù è appena coperto da un lembo del sudario; ai lati vi sono la Madonna, la Maddalena e Giovanni Evangelista intento a reggere la mano del Maestro. Dietro vi è Giuseppe d’Arimatea; la figura a sinistra, sullo sfondo, è forse l’autoritratto di Giuseppe de Ribera, detto lo Spagnoletto (1591-1652). Le figure sono messe in evidenza da uno straordinario gioco di chiaroscuro. Negli indici delle opere sottoposte ad intervento conservativo, a cura della Soprintendenza alle Gallerie di Napoli, dal 1945 al 1960, questo quadro è catalogato come autentico dello Spagnoletto. Per il prof. Raffaello Causa, invece, “non reca i segni dell’autografia (del Ribera) pur presentando le superfici smosse della più frizzante luminosità barocca”. Recentemente, nel suo "Ribera. L'opera completa”, il prof. Nicola Spinosa ha citato quest’opera, assieme ad altre nove, come “repliche di problematica autografia o copie antiche dall’originale”. La prima versione (o originale) di questo dipinto è considerata quella conservata nel monastero di San Lorenzo dell’Escorial (Spagna).

L'altare maggiore è ornato dalla tela (figura 10) raffigurante l’Assunzione della Madonna: la madre di Dio, sorretta da angeli, ascende al cielo tra lo stupore degli apostoli che guardano il sepolcro vuoto. La peculiarità dell'opera è proprio la rappresentazione degli apostoli; ogni viso trasmette un pensiero e un'emozione diversa rappresentata in una sapiente successione. La tela è stata assegnata al pittore Nunzio Rossi a seguito del confronto con I quattro evangelisti della chiesa di San Girolamo nella Certosa di Bologna. Il Rossi (Napoli 1626 c. - Palermo 1652 c.), vigoroso artista da poco  riemerso alla critica, fu attivo a Bologna, Napoli, Messina e Palermo ed identificato come seguace di Guido Reni di Massimo Stanzione e dello Spagnoletto.
Nella sala capitolare si segnalano tre dipinti databili al Seicento. Il primo è il Sacrificio di Isacco: la tela(figura 11) è copia di un quadro del Caravaggio, oggi conservato in America nella Collezione Piasecka Johnson. Secondo il parere dello studioso Achille della Ragione l'opera è da attribuire al noto Francesco Guarini ((Sant’Agata di Solfora, 1611-Gravina di Puglia, 1651): seguace di Massimo Stanzione, subì l'influenza del Ribera e di Battistello Caracciolo, dando al caravaggismo napoletano una interpretazione meno emotiva e più composta.

Gli altri due dipinti (figure 12 e 13), raffiguranti San Matteo e San Giovanni il primo  e San Luca e San Marco il secondo, formano uno splendido pendant dedicato ai quattro evangelisti: le figure, di ispirazione caravaggesca, risaltano sul fondo scuro e trasmettono un forte realismo e grande vigore plastico.

Nella chiesa dell’Oratorio dei Santi Luigi e Filippo(oggi Museo Diocesano) è esposta una tavola (figura 14), opera di Girolamo Imparato (1559 c.- 1607) raffigurante l’Immacolata Concezione: è firmata e datata “IERONIMUS IMPARATUS PIC(TOR) NEAPOL(ITANUS) PINXIT 15...”.  Nel dipinto sembra riconoscibile una partecipazione (tra i putti nel fondo) del giovane Giovanni Antonio D’Amato, forse cugino (non figlio) di Giovanni Angelo D’Amato. Girolamo Imparato, allievo di Silvestro Buono, diede vita ad un’ottima bottega sviluppatasi nel Seicento a Napoli; è ampiamente documentata la sua presenza in Penisola Sorrentina negli ultimi anni del Cinquecento.

Nella chiesa del Clero di Gesù e Maria è conservata una tela raffigurante San Catello, patrono di Stabia (figura 15), da alcuni associata al pennello di Ippolito Borghese (? -1627). Tale attribuzione, a nostro avviso, va respinta: il quadro è da datare ad epoca posteriore al Borghese, forse addirittura al secolo successivo.
Nella stessa chiesa si ammira la Madonna del Soccorso di Luca Giordano (Napoli 1634 - 1705). L’opera (figura 16) è da considerarsi seicentesca, anche se eseguita tra il 1702 e il 1705. Posta sull'altare maggiore è anche identificata come la Beata Vergine del Rifugio: la Madonna è rappresentata nell’atto di soccorrere un bambino, nella mano destra regge un bastone usato per allontanare un demone e nella sinistra sostiene il divin Figlio. La composizione è caratterizzata da una raffinata simmetria, dalla luminosa trasparenza della policromia e dalla presenza, nella parte superiore, di bellissimi angeli, in evidente (e sapiente), contrasto con le figure diaboliche raffigurate sulla parte inferiore. Il De Dominici ci informa che il quadro fu eseguito dopo il ritorno del pittore dalla Spagna nel 1702 “con maniera robusta e gusto di colore inarrivabile”.

Sono stati erroneamente attribuiti allo stesso artista la pala raffigurante San Michele Arcangelo e i due ovali raffiguranti Angeli collocati sull’altare maggiore della basilica di Santa Maria di Pozzano. Queste opere (il San Michele è chiaramente una copia) sono da associare al pennello di uno stretto seguace del Giordano: non sono da datare al Seicento, ma alla prima metà del Settecento. L’autore è forse da identificarsi in Girolamo Cenatiempo, documentato a Pozzano nel 1742.
Nella stessa basilica sono da segnalare due tele di Michele Ragolia (1638-1682), pittore palermitano, allievo di Belisario Corinzio, attivo a Napoli fin oltre la metà del XVII secolo. Queste opere, presenti nel cassettonato del soffitto, furono realizzate attorno al 1675, raffigurano La Gloria di San Francesco di Paola e la Madonna di Pozzano. In questo secondo quadro la Madonna domina su una veduta di Castellammare. La terza icona che completa il cassettonato (probabilmente della stessa epoca), è chiaramente di altro autore: raffigura San Francesco di Paola che libera un’ossessa.

È da datare al tardo Cinquecento o ai primi anni del Seicento la piccola tela (figura 17), conservata nel convento di Pozzano, raffigurante San Francesco di Paola (1416-1507), fondatore dell’Ordine dei Minimi, canonizzato nel 1519. È da escludere che l’opera possa associarsi al pennello di Giulio Romano (1499-1546) o alla sua scuola; l’autore è da considerarsi un manierista napoletano.

Nella chiesa di Santa Maria di Loreto (detta di San Francesco) si può ammirare una grande tela (figura 18) raffigurante Santa Maria di Loreto. Nello scenario si ammira una veduta del golfo di Napoli visto da Castellammare. Il dipinto, opera di Fabrizio Santafede (1560 c.-1635), fu commissionato nel 1595 da Pietrantonio de Masso e pagato 30 ducati (in due rate). Il Santafede, figlio di Francesco, anche lui pittore, fu allievo di Francesco Curia e ultimò la sua formazione a Roma, Bologna e Venezia.

Nella chiesa di San Giacomo Maggiore si ammira una tela raffigurante l’Immacolata Concezione, databile tra il tardo Cinquecento e l’inizio del Seicento. Secondo la tradizione il quadro si trovava presso la chiesa di San Francesco, che si ergeva in piazza Municipio, dove nel 1563 la famiglia d’Ambra fondava una cappella in onore della Madonna Immacolata. A metà Settecento nell’adattare l’opera all’attuale sistemazione fu integrata con dei pannelli laterali. In quello sottostante è raffigurata la zona detta “Pede Cave” di Castellammare.
È da datare tra il tardo Cinquecento (forse attorno al 1580) e il primi anni del Seicento la pala raffigurante la Madonna di Porto Salvo nell’omonimo santuario di Porto Salvo: nel fondo si ammira una veduta del porto di Castellammare. La lettura del dipinto è chiaramente deturpata da pesanti interventi di restauro.

Chiudiamo questo scritto parlando dell’opera pittorica di maggiore rilevanza storico-artistica conservata nelle chiese di Castellammare (figura 19): la tela raffigurante la Natività della SS. ma Vergine Maria, che si ammira nella chiesa di Santa Maria della Pace (la prima notizia documentata del dipinto risale al 1842). È rappresentata la Natività di Maria in una ricca scena, che mette in evidenza, nel primo piano, figure femminili indaffarate nella lavanda della neonata Madre di Dio, nel fondo si intravedono le figure di Gioacchino e Anna. L’autore è stato identificato dal prof. Raffaello Causa nell’ignoto Maestro dell’Annuncio ai pastori di Capodimonte.

Il quadro (a nostro avviso proveniente da una collezione privata) appartiene ad un folto gruppo di dipinti realizzati, nel secondo quarto del Seicento, da un ignoto pittore di altissimo livello, che prende il nome dal soggetto di una sua famosa tela, oggi esposta nel museo napoletano. L’artista (attivo a Napoli tra gli anni 1625-1650 c.), identificato come vicinissimo al Ribera, dimostra di possedere una profonda conoscenza dell’arte del Caravaggio. Il prof. Causa sostiene una sua origine spagnola, che traspare da diversi elementi tecnici e stilistici. Dopo lunghi studi il misterioso autore è stato identificato nello spagnolo Juan Do, nato a Játiva attorno al 1604, che a Napoli godette della protezione del Ribera e del Caracciolo: dopo aver raggiunto una certa agiatezza economica, sembra che si sia spento a Napoli nel 1656, colpito dalla peste. Per alcuni, a causa della sua presunta origine ebraica fu esiliato dalla Spagna e costretto ad un  parziale isolamento anche a Napoli, dove per tale motivo non avrebbe avuto committenze pubbliche. L’identificazione in Juan Do ha inizialmente raccolto unanimi consensi, poi ha diviso gli studiosi.

La difficoltà è dovuta principalmente dall’impossibilità di un confronto con opere del pittore spagnolo. L’unica opera “certa” è la Natività conservata nella chiesa napoletana della Pietà dei Turchini, ricordata come opera del Do da Bernardo De Dominici: la tela, pur presentando una forte assonanza con la produzione dell’Anonimo Maestro, è lontana dalla potenza riconosciuta alle opere del misterioso artista. Ma questo quadro non è perfettamente uguale alla descrizione fatta dal De Dominici, non è pertanto certo che si tratti dello stesso dipinto dato al Do dal biografo settecentesco. Forse assegnare un nome certo all’illustre sconosciuto del Seicento a Napoli ci priverebbe di parte della magia trasmessa dalle sue straordinarie opere. Articolo di Egidio Valcaccia - napoli.com

 
 
 
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