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Il teatro di Latella convince Spoleto

Post n°8311 pubblicato il 12 Luglio 2009 da stabia_info
 
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Il regista di Castellammare di Stabia al "Due mondi”

SPOLETO. Tutto è contaminazione. A cominciare da quello che, per Antonio Latella da Castellammare di Stabia, è “il giuoco del Teatro”, un luogo-non luogo delimitato da “un cancello di velluto rosso”. Che si apre ogni sera, e dà la possibilità di “Trovarsi” come scrisse Pirandello (nel 1932), al di là dei vari copioni, dei trucchi, della finzione. E la possibilità non è offerta solo a chi sta in palcoscenico, ma anche agli spettatori. Sul palcoscenico un teatrino giocattolo con cui giocavano i bambini delle famiglie più agiate nel ’700 e nell’’800, tre degli attori sono seduti fra il pubblico in platea. Teatro nel teatro, ma non ci si riferisce a Pirandello, ma a uno che lo ha preceduto di duemila e più anni nell’antica Grecia e rispondeva al nome di Aristofane. Moltissime cose, come vedremo strada facendo, hanno avuto origine da lui. Ci sono frasi che sembrano scritte sull’onda dell’ultimo scandalo su cui i giornali hanno riempito le pagine (“E allora: niente ballerine, tutte mignotte quelle!) ma non è che la fedele traduzione fatta da Letizia Russo dalla commedia “Le nuvole” che risale all’anno 423 a.C., una delle più rappresentate di Aristofane assieme a “Gli uccelli” e “Le rane”. Ma poi, quante cose si possono dire facendo i buffoni, con le scarpe da clown e il naso finto, anche se qualcuno al suo tempo le disse prendendosi sul serio. E qui Latella sembra aprire una parentesi, a sipario chiuso. La disputa è se è proprio quel qualcuno, o non è piuttosto l’imitazione che ne faceva Totò mettendosi le mani sui fianchi, e arringando l’uditorio con l’accattivante “Italianiii!”. A dire il vero, è delle Panatenee che si sta parlando e, a margine, del ferreo sistema di educazione cui andava sottoposta la maschia gioventù. Ateniese, per carità. Gli attori sono vestiti tutti di nero. I primi tre con maglione dolce vita e pantaloni con la riga potrebbero ricordare “I Gufi”, il mitico gruppo di cabaret milanese degli anni Sessanta, il quarto, en travesti fa roteare delle paillette di struzzo alla maniera di Josephine Paker: impersona le Nuvole del titolo, e lui è Maurizio Rippa. Se gli attori escono dal teatrino, li accompagna il “Tema di Gelsomina” (alla tromba) di Nino Rota. All’occorrenza diventano attrezzisti, e fanno scendere con le funi una coreografia surreale. Tutto è contaminazione, e tutto si ripete. Discepolo, interpretato da Marco Cacciola (più di una somiglianza con Fiorenzo Fiorentini) legge una filastrocca che sembra di Petrolini, alla maniera di Petrolini. Ma anche stavolta, è Aristofane. Strepsiade, interpretato da Annibale Pavone (con folta barba, indice di saggezza) è colui che muove il filo del racconto confrontandosi con Socrate (Massimiliano Speziani) e facendo i conti col figlio Filippine, un bamboccio di gomma dalle sembianze più che adulte cui presta la voce, a mo’ di ventriloquo, lo stesso Socrate. Trent’anni fa le femministe non avrebbero perdonato un proclama “vetero maschilista” (si diceva così) di Strepsiade, ma ce n’è anche per i politici, gli avvocati, e gli stessi spettatori di teatro definiti in modo ignominioso. Il guaio è che oggi (forse) non ci si scandalizza più di niente: siamo tutti omologati, accomunati dai jingle televisivi, dalle inchieste demoscopiche (si fa finta di farle anche in platea), l’ideale sarebbe poter votare sempre, come al Grande fratello, per escludere chi vediamo come diverso. Prodotto dal Teatro stabile dell’Umbria per il Festival dei Due Mondi di Spoleto, lo spettacolo dura due ore e venti compreso il breve intervallo. Francesco Fazio - il Roma

 
 
 
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