Mentre i responsabili di queste violenze restano liberi, le loro vittime sono condannate a vivere in carcere, a volte incinte e con poche speranze di un futuro per sé e per i propri figli.
Gabriela Maj ha avviato il suo progetto nel 2010 su incarico e per uno specifico servizio e nei quattro anni successivi, fino al 2016, è tornata in Afghanistan sei volte cercando di avere accesso anche nelle altre carceri del paese, spesso non ottenendo il permesso. In diverse prigioni le è invece stato concesso di entrare, perché era una donna e dunque il suo lavoro non era percepito come minaccioso o politicamente rilevante, in molti casi, quando veniva lasciata alla sola presenza di un’interprete, è riuscita a parlare liberamente con le detenute.
Ha avuto contatti con decine di donne nelle loro celle, venendo molto spesso disprezzata perché le trattava con cura e dignità. Maj ha pubblicato solo le parole o le immagini per le quali ha ricevuto uno specifico permesso dalle dirette interessate, i nomi delle donne sono stati comunque cambiati e le loro storie sono state volutamente separate dai loro ritratti.
Le carceri in Afghanistan non hanno sbarre e non prevedono particolari uniformi, questo significa che le donne possono in una certa misura personalizzare i loro spazi e prendersi cura dei loro figli nonostante siano molto vulnerabili allo sfruttamento sessuale (molto spesso sono infatti detenute in carceri miste e sorvegliate da uomini).
Nonostante i bisogni primari siano garantiti, le cure mediche variano da una struttura all’altra e in generale sono assenti le risorse a disposizione per la loro salute mentale. Non c’è poi alcuna garanzia sulla loro vita dopo il rilascio; molte donne, a specifica domanda della fotografa, hanno risposto "sarò uccisa".
Le donne accusate di reati contro la morale sono infatti destinate a essere ripudiate dalla famiglia poiché rappresentano una "vergogna" per la comunità e, una volta uscite, non hanno più un posto dove andare a vivere. Dopo aver concluso il suo progetto Maj ha cercato con difficoltà di non perdere i contatti con le donne che aveva incontrato, alcune di loro hanno trovato un posto nei rifugi a loro dedicati (che sono comunque molto pochi e concentrati solo in alcune zone del paese), almeno due sono state uccise dai membri delle rispettive famiglie nei cosiddetti “delitti d’onore”.