Creato da scricciolo68lbr il 17/02/2007

Pensieri e parole...

Riflessioni, emozioni, musica, idee e sogni di un internauta alle prese con la vita... Porto con me sempre il mio quaderno degli appunti, mi fermo, scrivo, riprendo il cammino... verso la Luce

 

Messaggi del 28/09/2023

LA MIGLIORE CRITICA ALLA FOLLIA GENDER? SCRITTA DA UN OMOSESSUALE!

Post n°1621 pubblicato il 28 Settembre 2023 da scricciolo68lbr
 

La miglior critica alla follia gender l’ha scritta un omosessuale"La Pazzia delle Folle. Gender, Razza e Identità" di Douglas Murray, è un libro uscito nel 2020, e ad oggi rappresenta la critica migliore alla follia gender/lgbt.

 

Possono criticare la Natura umana che prevede l'uomo e la donna, possono imporre nelle scuole elementari libri e sussidiari che trattano il sesso, possono parlare ai bimbi della possibilità di cambiare sesso già alle elementari, vogliono il reato di omofobia, vorrebbero cancellare i termini di papà e mamma e sostituirli con i termini Genitore 1 e genitore 2, hanno chiesto ed ottenuto nelle scuole l'introduzione dei bagni fluid, dove possono entrare maschi e femmine. Poi se durante una trasmissione radio andata in onda sul servizio pubblico, un medico si permette di esprimere una opinione più che una critica sulla efficacia dei vaccini, scoppia il putiferio! Non si placa infatti la polemica su Giù la maschera, programma radiofonico della Rai condotto da Marcello Foa, quest’ultimo reo di aver invitato a discutere con Massimo Galli, ortodosso doc del terrore virale, un eretico del calibro di Massimo Citro, medico assai critico sui vaccini a mRna e sulla strategia complessiva della pandemia.

In prima linea ad alzare il suo illuminato ditino, come abbiamo già scritto, si è immediatamente distinto Roberto Burioni, il quale ha immediatamente scomunicato via social chiunque avesse organizzato e partecipato alla citata eresia in diretta, mamma Rai compresa, affermando implicitamente che sulla scienza degli stregoni del Covid-19 la libertà di espressione non dovrebbe esistere

Tant’è che lo stesso Galli, anch’egli evidentemente poco avvezzo al confronto democratico, ha pubblicamente manifestato la sua abiura. Lo ha fatto innanzitutto rispondendo direttamente a Burioni sul suo profilo Twitter con parole inequivocabili: “Il prof. Burioni si dispiace della mia partecipazione alla trasmissione di Foa che ha dato spazio, dopo di me, a un no vax. Mai quanto me ne dispiaccio io, che non ne ero stato minimamente informato. Avrei in questo caso certamente declinato l’invito.”  Immediata la soddisfatta replica del virologo pesarese: “Anche a me accadde la stessa cosa tanti anni fa. Un caro saluto a Massimo Galli.”

Come vediamo, si tratta di una impressionante conferma del dogma scientistache ha contribuito in maniera determinante a demolire, nei lunghi anni dell’inverno virale, ogni forma di pensiero critico, tanto da far ritenere assolutamente inaccettabile qualsiasi contatto dialettico con chiunque non fosse completamente allineato con il medesimo e oscuro dogma scientista. Un simile atteggiamento, con le debite proporzioni, caratterizzava la popolazione russa durante il periodo più feroce della purghe staliniste. In quel periodo, per l’appunto, persino un minimo contatto o una semplice conoscenza con i soggetti accusati di attività anti-sovietica era sufficiente per subire la medesima, drammatica sorte.

D’altro canto, dato che la storia si ripete sempre, dal momento che sono sempre gli uomini a determinarla, l’opprimente regime sanitario che ci ha tolto molte libertà costituzionali, arrivando ad imporci un lasciapassare simile a quelli in vigore nel regno sanguinario di Stalin, ha spesso assunto i connotati di una spietata dittatura. E come tutte le dittature, una volta finite, restano sempre i nostalgici che le rimpiangono. Ogni riferimento ai Galli e ai Burioni è puramente casuale.

Ma torniamo all'rgomento del post, dopo questo breve escursus. Capita di rado leggere il libro giusto al momento giusto. Questo libro segna uno spartiacque, e per molti versi è scomodamente profetico. Quando, alcuni mesi fa, lessi l’appena edito The Madness of Crowds. Gender, Race and Identity di Douglas Murray – da pochi giorni in edizione italiana La Pazzia delle Folle. Gender, Razza e Identità(Neri Pozza) – ne avvertii immediatamente l’importanza. Non si tratta di un libro “urlato”, come non lo fu il suo ottimo La strana morte dell’Europa (2018). È, invece, un libro estremamente urgente, ed è provvidenziale che sia uscito in Italia in queste settimane. Ne caldeggio dunque la lettura senza perdere tempo – che si sia donna, uomo o trans, eterosessuali o omosessuali, neri o bianchi, conservatori o progressisti -, in anni in cui “la folla ha completamente perso la bussola”, grazie alla morale falsamente neutra dei social media e di Hollywood e al filtro ottundente della “giustizia sociale”, della “politica identitaria di gruppo”, dell’”intersezionalismo” – ossia «lo sforzo più audace e completo, che sia stato tentato, dopo la guerra fredda, di creare una nuova ideologia», che, in vero, è sempre più una sorta di nuova “metafisica”, provvista di una retorica che «esaspera le divisioni esistenti”, creandone di nuove e amplificando rivendicazioni, diffidenza, risentimento e sfiducia sociali.

Se non fosse che i fatti incalzano sempre più, questo libro potrebbe essere un utile pamphlet filosofico sul buon ragionare in tempi ardui o, meglio, sulla possibilità stessa di ragionare quando un’ideologia pervasiva, qualunque essa sia, inizia a dominare l’arena del pensiero, erodendolo e degradandolo. Murray, un conservatore libertario – per malamente inquadrarlo -, invece ci obbliga a riconsiderare il reale.

Tra i fatti incalzanti e agghiaccianti, che rendono “folli”, vi è, per esempio, la storia del brillante milionario gay Peter Thiel (fondatore di Paypal, legato sia a Elon Musk sia a FB), conservatore e sostenitore di Donald Trump, per questo definito dalla stampa progressista «un uomo che fa sì sesso con altri uomini, ma che assolutamente non è gay»; la scrittrice pluripremiata che sostiene a più riprese che «tutti gli uomini sono rifiuti umani», oppure la editorialista che scrive «a morte tutti gli uomini», senza che nemmeno lontanamente costoro pensino di essere loro stesse violentemente sessiste; la giornalista del New York Times Sarah Jeong che ha continuato a tweettare amenità quali «eliminiamo i bianchi» o «cavolo, mi fa quasi impazzire quanto mi diverte essere cattiva con i bianchi anziani»; la dolorosissima e angosciosa vicenda che ha piagato e spezzato la vita del giovane Nathan Verhelst – nata Nancy e odiata dalla madre, sottopostasi poi a terapia ormonale con avallo medico e psichiatrico, poi operata tre volte per cambiare sesso e, infine, sempre con avallo medico e “a fin di bene”, “compassionevolmente” – soppresso nel 2013; la storia travagliata del giovanissimo James tra scelte impervie e sofferte, e le perfettamente legali pratiche medicali perpetrate a Los Angeles – ma non solo – dalla più che inquietante dottoressa Johanna Olson-Kennedy a decine e decine di bambine e bambini dagli otto ai tredici anni in su per far cambiare loro sesso in giovanissima età tra ormoni e chirurgia irreversibile.

Permettetemi ora una digressione rispetto al libro, apparentemente remota. Chiunque abbia contezza della storia dell’antisemitismo sa perfettamente che l’odio antisemita è anzitutto una costruzione intellettuale elaborata, partorita da cervelli fini – anche quando ossessionati o rapaci -, che si è alimentata, prosperando, prima in ambito teologico (sia cristiano sia, successivamente, islamico, tra continuità e distanze), poi in ambito filosofico e politico nelle moderne università. Il falso mantra che la “conoscenza” ci renda “migliori” – o, per dirla diversamente, meno “a rischio” di orrori – è clamorosamente smentito dai fatti, prima ancora che dalle eterogenee interpretazioni degli stessi: fu la “cultura” a creare l’antisemitismo, non contadini vessati, affamati e ignoranti, non i gaudenti nei bordelli o nelle osterie, e nemmeno la piccola delinquenza. 

Questo non significa assolutamente celebrare l’ignoranza a discapito del sapere, oppure sostenere che viziosi e delinquenti (ed è arduo trovare essere umano, chi più chi meno, che almeno un po’ non rientri – o sia talora rientrato – in almeno una delle due categorie) non possano essere antisemiti. E nemmeno significa assolvere il “popolo minuto”, che divenne anche lui un pessimo attore in questa orrida storia (come in altre devastazioni), quanto piuttosto ricordarci che vi è una immensa (e reiterata) responsabilità intellettuale, che ha prosperato (e in diversi subdoli modi ancora prospera) nell’accademia, a cominciare da quell’università germanica che, da dopo Lutero sino agli inizi del XX secolo, è stata l’indiscusso (e potente) modello del pensiero umanistico occidentale, con molte innegabili luci e con devastanti tenebre. Il tanto vituperato papa Alessandro VI Borgia o il buon suo sifilitico successore Giulio II, del pari di altri pontefici rinascimentali, erano uomini intemperanti e stracolmi di vizi (il che non fa che rendermeli in qualche modo simpatici), ma non più crudeli – e certamente meno pericolosi – dei vari Paolo IV, Pio V o Martin Lutero e così via: questi ultimi, difatti, erano, non solo spesso inconsapevoli di essere a loro volta dei mostri, ma armati fino ai denti perché mossi dallo zelo di pugnare per una presunta giusta causa (la loro), ossia di detenere e operare il bene. Non è un caso che, e non di rado, la situazione degli ebrei sia stata meno nefasta con personaggi quali certi papi medievali o della Rinascenza di dubbia morale, taluni re libertini o certi califfi e sultani, seppur sempre a rischio, piuttosto che con i moralisti virtuosi – araldi di morali religiose oppure laiche -: con un delinquente, per quanto disagevole, si può patteggiare e capirsi, con un delinquente convinto di essere buono e nel giusto – o costretto a recitare quella parte – è impossibile. Si tratta di amare e scomode porzioni di verità, che i moralisti disdegnano.

Parte significativa della progressiva barbarie che sta affliggendo oggi la vita politica delle società occidentali, certamente perfettibili, è legata alla dottrina sociologico-politica dell’intersezionalità, di giorno in giorno più dogmatica, aggressiva e al suo interno contraddittoria. Anch’essa è un prodotto intellettuale, un “regalo” delle università, di chiara ispirazione marxista, con dunque tutta la sua carica seducentemente sovversiva e la sua pretesa ed esibita morale para-messianica. Il libro di Murray rende conto dall’interno di quanto stia succedendo e del progressivo esasperarsi del problema, con gran dovizia di fatti concreti, spesso tragici e crudeli o che lasciano frastornati. È bene sapere di che si tratta, dato siamo sempre più bombardati da accuse di razzismo, xenofobia, sessismo, omofobia, transfobia. Ma anche, e spesso a sproposito e con abusi, di fascismo e di antisemitismo. Ora, in alcuni ambienti, anche di islamofobia.

In estrema sintesi, l’idea soggiacente a questo immenso e terrificante minestrone è che vi sia un’unica radice – con varie sovrapponibili modalità di estrinsecazione dell’odio – delle diverse discriminazioni e dominazioni. Che si tratti di un’ideologia grossolana e incoerente, benché oggi assurta a indiscusso dogma – in forma soft, come in Italia sinora, o in forma radicale, come altrove -, è palese dal fatto che spesso tra questi diversi gruppi di vittime di discriminazioni c’è tensione, se non talora persino nette opposizioni. Che, ad esempio, non renda conto dell’antisemitismo è evidente, dato che il vero focus, in questo caso, non è, se non per occasionali tangenze, il razzismo o la xenofobia, bensì l’odio per il fratello, per il simile, per la radice, per l’uguale, per l’alterità interna – e non quella esterna -: è un “mistero” di cui rende bene conto la Bibbia nell’odio di Esaù per il “gemello”, non per il diverso o lo straniero. E non è affatto un caso che negli ambienti universitari e politici (tutti progressisti) ove questa teoria descrittiva (e – ancor più – con pretese ferocemente prescrittive) del reale impera e dilaga, essa si nutra e diffonda ora antisemitismo (Murray, p.372), con argomentazioni – e qui sta l’ulteriore paradosso – razziste: «Gli ebrei sono bianchi? …la fine del privilegio bianco inizia ponendo fine al privilegio ebraico (questo nell’anno 2016/2017 nell’Università dell’Illinois)».

Siamo molto distanti dalle sacrosante rivendicazioni di Martin Luther King, che coraggiosamente lottò tanto contro il potere bianco quanto contro quello nero; prospettiva che non poteva essergli in alcun modo perdonata dai devoti dell’intersezionalità. Non è affatto un caso che nel pur interessante (e, in alcune parti del percorso museale, notevole) National Museum of African American History and Culture (ove comunque una visita è doverosa) a Washington lo spazio dedicato al reverendo King sia meno che infinitesimale, dato che non accarezzava, nemmeno come correttivo al detestabile e omicida razzismo bianco, il black power, ma auspicava piuttosto «il potere di Dio e il potere dell’essere umano».

«I sostenitori della giustizia sociale, della politica identitaria e dell’intersezionalità – scrive Murray – vogliono farci credere che viviamo in una società razzista, sessista, omofoba e transfobica. Insinuano che queste oppressioni siano interconnesse e che se riusciamo a vedere com’è fatta questa ragnatela, e a disfarla, potremo infine disinnescare le oppressioni della nostra epoca. …. È improbabile che un giorno lo scopriremo mai. Innanzitutto, perché le oppressioni interconnesse non sono tra loro collegate in bell’ordine, ma hanno un tremendo attrito tra loro e al loro interno, facendo un gran baccano. Accentuano il logorio, anziché attenuarlo, e aumentano le tensioni e la pazzia della folla più di quanto non producano serenità». Continua l’autore, evidenziando che sollevare certe questioni in tale modo è divenuto una modalità nuova e distorta «non solo per mostrare compassione, ma per l’esibizione di una nuova moralità. È il modo con cui si pratica questa nuova religione». Tale sfoggio di “virtù” richiede strumentalmente che si esasperi ed esageri ogni questione e a ogni costo, per perversamente amplificarla. Douglas Murray argomenta con attenta perizia tutto questo: omosessuale e non credente, in questo suo attualissimo e urgente saggio recupera mirabilmente e laicamente il valore – di matrice biblica, ebraica e cristiana – del perdono, anche in una dimensione politica e intergenerazionale, forse con maggiore nitore e onestà di molto ciarpame melenso che dilaga invece da parte “credente”.

Ha perfettamente ragione Murray quando sintetizza che «se l’uguaglianza razziale, i diritti delle minoranze (come nel caso di gay, lesbiche e trans, ma anche neri, ebrei etc. etc.) e quelli delle donne sono i migliori prodotti del liberalismo (e solo del liberalismo e solo in Occidente), come fondamenta sono a dir poco destabilizzanti. Tentare di elevarli a cardine è come rovesciare uno sgabello da bar e poi provare a starci sopra in equilibrio. I prodotti del sistema non possono riprodurre la stabilità del sistema che li ha prodotti; se non altro perché ciascuna di queste problematiche è di per sé una componente estremamente instabile». Il problema qui, infatti, non sono in alcun modo questi benedetti diritti appena ricordati – dopo, occorre sempre tenerlo a mente imparandone le lezioni, secoli di persecuzioni, odio, dileggio, sofferenze, talora ancora in atto oggi nelle nostre stesse società (e talora purtroppo, più o meno intensamente, persino in seno alle nostre rispettive comunità religiose o famiglie), che tuttavia però sono le uniche ad aver fattivamente cercato di smascherare e arginare furie persecutorie, aguzzini e sadici, e che tutt’ora restano una sparuta minoranza nel mondo! -, bensì un’ideologia furiosa con il “reale”, quest’ultimo sacrificabile e odiato in nome di un’”idea”.

Viene da chiedersi se il mondo occidentale, cresciuto e divenuto prospero anche per innegabili e positivissime conquiste legate proprio al paradigma contrattualista-liberale, nell’estendere senza riserva il paradigma del “libero consenso” – della libera scelta – a ogni ambito della vita, non sia più in grado di capire e dunque di tollerare – rifiutandolo – tutto ciò che si sottrae all’arbitrio, risultando “indisponibile” (o, in qualche modo, “trascendente”): genitori e figli, universo linguistico-simbolico in cui si nasce; se, quando e come nascere; come e quando morire; che corpo avere. Peccato che si tratti dei più profondi “dati” esistenziali che permettono a una persona di essere e di definirsi – o di ripensarsi -, e che ciascuno di essi presupponga non solipsismo assolutista ma relazione. Sono domande più che angosciose… Constatiamo però che siamo in preda a ubique pulsioni di morte, non solo per quanto riguarda gli odiatori – verso cui bisogna essere sempre molto vigili -, ma nei riguardi di tutti quegli ambiti essenziali e intimi della nostra esistenza, vitali per il sano mantenimento in essere di qualsivoglia società.

Viene da chiedersi se le incomprensioni, le derive, le ideologie paradossali e le pulsioni di morte tradottesi in normativa – talora anche tremenda e applicata a minori -, di cui questo libro rende ampiamente conto, non siano correlative rispetto alla connivenza e alla resa di quella stesse aree politiche e culturali all’Islam politico dilagante in Occidente, anche con investimenti milionari e con “gestione” dei drammatici fenomeni migratori e demografici. Se, rispetto alle prime, la tentazione è di dire “guarda e passa”, rispetto ai secondi (l’Islam politico) non si può che “ammirare” calcoli, paziente attesa e intelligenza strategica. Purtroppo, l’arroganza dei primi farà sì che, come già stiamo vedendo, assieme a trascinare con sé tutto il resto e ogni altra persona e retaggio culturale, si consegneranno fatalmente al loro carnefice (i secondi), che non sarà tenero, come già dichiara in maniera peraltro cristallina e senza troppi infingimenti. E, d’altronde, perché mai dovrebbe? E, ancora, appare chiaro a chi scrive che le più retrive forze – forse anche di frange dell’ebraismo e del cristianesimo – messe alle strette tra queste derive deliranti e l’Islam politico, sceglieranno giocoforza, anche se a carissimo prezzo, l’Islam politico, che dimostra astuzia, non accontentandosi dell’istante ma approntando strategie efficaci nel futuro. Questo, purtroppo, a totale detrimento della cultura dei diritti, che, se rettamente intesa, come ricorda Murray, è una delle migliori e più straordinarie conquiste della nostra travagliata storia occidentale (o un suo frutto compiuto), “secondaria” – come afferma Remy Brague – rispetto ad Atene e Gerusalemme, sempre più incomprese, delegittimate e vituperate. C’è di che rabbrividire, tutti, che si appartenga o meno a una – o talora anche più di una – delle varie minoranze (in quest’ultimo caso, ovviamente, c’è ancora più da temere, perché assediati da troppi mostri).

Forse è vero e prolettico un antico detto latino, che non è peregrino qui ricordare: quos deus perdere vult prius dementat.

 
 
 

TRATTATIVA STATO-MAFIA.

Post n°1620 pubblicato il 28 Settembre 2023 da scricciolo68lbr

A parziale integrazione del post precedente, pubblico questo articolo tratto dal Peridico Panorama, datato 31 agosto 2012.

 

ESCLUSIVO - Ecco il contenuto delle telefonate tra Napolitano e Mancino
Giovanni Fasanella

 

Abbiamo deciso di pubblicare l'articolo di Panorama in edicola che ha fatto tanto discutere - Il nostro speciale

 

Che cosa si sono detti il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e Nicola Mancino? Sulle conversazioni segrete intercettate dalla Procura di Palermo si sta scrivendo una pagina di storia repubblicana assai tormentata, con inedite coalizioni di commentatori e politici le une contro l’altre armate. Ma è una storia che, se avesse un titolo, potrebbe essere molto semplice: la grande ipocrisia.

Ovvero: come usare ogni artifizio retorico e/o giornalistico per fare capire di sapere ciò che c’è nelle intercettazioni senza dichiararlo apertamente. Vediamo di comprendere meglio e, soprattutto, per quale scopo vengono lanciati questi messaggi (vedere anche l’editoriale a pagina 12 e il riquadro a pagina 64). Con due premesse. La prima: da sempre Panorama critica il devastante potere delle intercettazioni nel deformare il pensiero di chi parla, con la trascrizione di frasi fuori dal contesto in cui sono pronunciate. La seconda premessa riguarda la grande cautela con cui bisogna guardare a messaggi trasversali, soprattutto quando sono rivolti a una figura delicata e decisiva come quella di Napolitano in questa fase della vita politica italiana. Ma i fatti sono fatti e vanno raccontati, soprattutto quando possono nascondere manovre non limpide verso un’istituzione fondamentale come la presidenza della Repubblica. E svelarli per quel che sono e per quel che si può capire significa contribuire a rompere e interrompere ogni gioco poco chiaro (o forse troppo chiaro) che si voglia costruire.

Iniziamo dal contesto dei colloqui telefonici. Si dice che tre indizi costituiscono una prova: e qui di indizi, per ricostruire i contenuti dei colloqui, ce ne sono appunto tre. Sono i commenti di altrettanti osservatori, certamente bene informati (e non appartenenti a un unico fronte politico o editoriale), che il 24 e il 25 agosto hanno ipotizzato in modo univoco e convergente che cosa potrebbero «nascondere»le famose telefonate intercettate su input della procura siciliana e oggetto di un tormentato conflitto di attribuzioni sollevato dal Quirinale davanti alla Corte costituzionale.

Ad aprire le danze è Ezio Mauro, sulla Repubblica di venerdì 24 agosto, con un editoriale in cui a un certo punto scrive: «Facciamo un’ipotesi astratta, di scuola. Quante telefonate avrà dovuto fare il capo dello Stato nelle due settimane che hanno preceduto le dimissioni di Silvio Berlusconi da Palazzo Chigi? Se quelle conversazioni, che hanno preceduto e preparato l’epilogo italiano di vent’anni di berlusconismo, fossero diventate pubbliche quell’esito sarebbe stato più facile o sarebbe al contrario precipitato nelle polemiche di parte più infuocate, fino a rivelarsi impossibile?».

Il giorno dopo Marco Travaglio sul Fatto quotidiano è rapido nel sottolineare: «Se per caso fossero stati legittimamente intercettati colloqui del presidente relativi alla crisi che ha portato alla fine del terzo governo Berlusconi, noi non troveremmo nulla di scandaloso che fossero resi noti». E subito dopo aggiunge un indizio: «Anzi se, come Napolitano ha sempre assicurato, si è attenuto scrupolosamente al dettato costituzionale, sarebbe suo interesse dimostrare che le cose stanno davvero così e che abbiamo almeno un politico che dice in privato le stesse cose che dice in pubblico».

Più cauto, il 25 agosto, Adriano Sofri sul Foglio«Mettiamo che Napolitano – invento del tutto, eh! – abbia detto a Mancino che “il tale è un imbecille” o che “il talaltro è un farabutto” . È comprensibile che non desideri vedere rese pubbliche le sue frasi private».

Ecco dunque messe in fila le tre «ipotesi di scuola» che, guarda caso, non si discosterebbero poi di tanto dal reale contenuto delle conversazioni. Diverse fonti hanno infatti confermato a Panorama nei giorni che hanno preceduto gli interventi di Mauro, Travaglio e Sofri che il contesto da loro delineato, e abilmente dissimulato, è molto prossimo alla verità. Per essere ancora più espliciti: le telefonate dirette tra il capo dello Stato e Mancino risalirebbero al periodo dell’ultima crisi di governo (siamo agli sgoccioli del 2011) con corollario di giudizi su diversi protagonisti di quella fase, alcuni dei quali molto ruvidi e, ovviamente, impossibili da rintracciare nelle dichiarazioni ufficiali dell’epoca o successive.

Quei colloqui dovrebbero essere blindatissimi, conservati in nastri non ancora sbobinati. Eppure le maglie del segreto non sono così strette, come aveva rivendicato il dominus dell’inchiesta, Antonio Ingroia, in una recente intervista al Corriere della sera, se qualcosa delle chiamate captate dagli investigatori sta trapelando attraverso il tam-tam che dagli uffici giudiziari siciliani si sta diffondendo nelle stanze del potere romano e dell’informazione.

Avventurarsi nei virgolettati sarebbe un esercizio pericoloso e soggetto a facile smentita, dal momento che non esistono tracce di questi colloqui nelle carte processuali. Di certo nel novembre e dicembre del 2011 Napolitano ebbe con Mancino alcune conversazioni, del tutto ignaro che l’interlocutore fosse ascoltato dai magistrati che indagavano sulla «trattativa» tra Stato e mafia. In particolare, tra le persone oggetto delle discussioni fra il capo dello Stato e un amico di vecchia data come l’ex leader democristiano ci sarebbero stati Berlusconi, Antonio Di Pietro e parte della magistratura inquirente di Palermo. Napolitano, in particolare, avrebbe espresso forti riserve sull’operato della procura e sull’apparato mediatico che fiancheggia acriticamente le toghe siciliane.

Anche su Di Pietro le confidenze telefoniche a Mancino non avrebbero risparmiato critiche. È noto che l’ex pm di Mani pulite e attuale leader dell’Italia dei valori non gode di buona stampa nell’entourage del Quirinale per quel populismo giudiziario che da 15 anni condiziona gran parte del centrosinistra, impedendo la crescita di una cultura garantista e riformista.

E parole molto poco benevole con il ricorso a metafore assai lontane dal linguaggio ovattato proprio delle alte cariche istituzionali, infine, sarebbero state riservate anche a Berlusconi, al quale verrebbe addebitata la responsabilità di avere appannato l’immagine internazionale dell’Italia al punto da fare tirare un sospiro di sollievo dalle parti del Colle per la sua uscita di scena da Palazzo Chigi. 

Se si considera che l’utenza di Mancino è stata ascoltata dal novembre 2011 all’aprile di quest’anno, non è insensato ipotizzare che le telefonate dirette tra il presidente e l’ex ministro dell’Interno possano essere più numerose delle due di cui si continua a parlare senza alcuna smentita da Palermo. Da qui la preoccupazione del Quirinale: quali sarebbero le conseguenze sugli assetti politico-istituzionali interni e sui rapporti internazionali dell’Italia se le intercettazioni (tutte le intercettazioni) fossero divulgate nei dettagli?

La pubblicazione di robusti giudizi su leader politici finirebbe per collocare le parole del capo dello Stato fuori dal contesto in cui sono state pronunciate, al punto di travisarle, come insegna la storia delle intercettazioni telefoniche in Italia. Darebbe inoltre un’immediata rilevanza a conversazioni private (oltretutto prive di interesse penale, come gli stessi magistrati palermitani hanno sottolineato), avvenute con una persona con la quale Napolitano ha una lunga consuetudine di rapporti e con la quale ovviamente i filtri dell’aplomb istituzionale sono azzerati per via di un’antica amicizia consolidata nei decenni anche per gli incarichi (ministro dell’Interno, presidente del Senato e vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura) ricoperti da Mancino.

Quelle parole, quindi, finirebbero inevitabilmente per alimentare un clima già rovente. Con effetti potenzialmente destabilizzanti non solo per la tenuta e il ruolo terzo del Quirinale, ma anche per l’attuale governo. E questo proprio quando gli sforzi (e i sacrifici in termini di consenso) dei partiti che appoggiano il gabinetto dei tecnici si fanno più pesanti per l’elettorato di riferimento.

Questo scenario è stato attentamente valutato al Quirinale. Sin dal giorno in cui sono uscite le prime indiscrezioni sulle intercettazioni ordinate dalla Procura di Palermo e sulla conseguente irritazione del Colle (vedere Panorama del 27 giugno scorso). Napolitano ritiene che il deposito delle intercettazioni che lo riguardano violi le prerogative presidenziali e che il pm debba immediatamente chiederne al giudice la distruzione (vedere riquadro a pagina 64). Da qui la sua decisione di sollevare il conflitto di attribuzioni di fronte alla Corte costituzionale. Mossa che «costringe» la Procura di Palermo a rispettare l’obbligo di non depositare le intercettazioni, sulle quali, almeno fino a quando non ci sarà il pronunciamento, penderà il sospetto di illegittimità costituzionale. E poiché è improbabile che la Consulta affronti il problema in tempi rapidi (in settembre è atteso solo un primo via libera per l’ammissibilità del quesito), la decisione potrebbe arrivare a ridosso o dopo le prossime elezioni politiche (febbraio o aprile 2013), magari con un nuovo inquilino al Quirinale. Quando cioè le frasi di Napolitano, se fossero rese pubbliche, risulterebbero comunque prive del loro attuale potenziale esplosivo.

Queste valutazioni non sono estranee al conflitto emerso all’interno del quotidiano La Repubblica con gli interventi dell’ex presidente della Consulta, Gustavo Zagrebelsky, critico nei confronti della decisione di Napolitano, e di Eugenio Scalfari, che invece ne ha difeso la decisione di sollevare il conflitto di attribuzioni. Una rumorosa battaglia di punti di vista (vedere anche l’articolo a pagina 68) in un ambiente che finora si era sempre schierato in modo compatto e quasi ideologico a difesa delle iniziative della magistratura, a volte anche di quelle più azzardate.

Zagrebelsky è parso andare a rimorchio della campagna lanciata dal Fatto quotidiano e da Di Pietro a sostegno dei pm palermitani. Il fondatore del quotidiano, che ha sempre avuto un filo diretto e di profonda amicizia con Napolitano, sa molto bene invece a quali rischi andrebbe incontro il Paese se venissero pubblicate le conversazioni private del presidente. Ne è sembrato consapevole lo stesso successore di Scalfari, Mauro. Il quale, sfidato dal direttore del Foglio Giuliano Ferrara a dire da che parte stesse, se con l’amico Zagrebelsky o con Scalfari-Napolitano, ha appunto citato il «caso di scuola», seguito a ruota da Sofri e da Travaglio: certamente il più grande amico e sodale, mediaticamente parlando, di Ingroia.  

 
 
 

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