Creato da scricciolo68lbr il 17/02/2007

Pensieri e parole...

Riflessioni, emozioni, musica, idee e sogni di un internauta alle prese con la vita... Porto con me sempre il mio quaderno degli appunti, mi fermo, scrivo, riprendo il cammino... verso la Luce

 

Messaggi di Settembre 2023

L’AVIDITÀ È L’ORIGINE DI MOLTI MALI…

Post n°1623 pubblicato il 30 Settembre 2023 da scricciolo68lbr
 

Il problema non sono i migranti, non è Washington, non è la guerra, non è i, cambiamento climatico, non è la destra, non è la sinistra, non sono i governi italiani, non è il WEF, l’agenda 2030, l’inflazione, lo spread, la BCE. IL VERO PROBLEMA È L’AVIDITÀ. Quel desiderio incontrollato che sembra non placarsi mai neppure se soddisfatto. Avidità di cibo, di guadagno, di ricchezze, di piaceri, di preda, di accaparrare beni, di conquista, di sangue, di vendetta. Più raramente si parla, pur esistendo, di avidità in senso positivo: di gloria, di sapere, di conoscenza. È l'avidità, caratterizzata da una distorsione del normale desiderio di possedimenti, che diventa eccessivo e incontrollato. All'avidità e all'avarizia ha dedicato una ricerca gruppi di psicologi sociali olandesi e russi; i risultati dello studio sono stati pubblicati sul British Journal of Psychology. Definita come “forte desiderio di più ricchezze, possedimenti, potere, eccetera, rispetto ai bisogni di un individuo”, sull’avidità si sono interrogati psicologi, scrittori e religiosi, dandone interpretazioni negative, perché è considerata la fonte dell’avarizia, della frode, della corruzione e perfino la vera causa scatenante delle guerre. L’Avidità è un motore potente.

«L’avidità si riferisce a un’inarrestabile desiderio non solo per il denaro, ma anche per altri beni e risorse — spiegano gli autori della ricerca, guidati dalla dottoressa Terri Seuntjens, del Department of Social Psychology dell’Università olandese di Tilburg —. A seconda dell’oggetto di interesse l’avidità si può manifestare sotto forma di avarizia, cupidigia, ambizione sfrenata, lussuria o ingordigia». Tutte le religioni ne danno un giudizio pessimo: per i cristiani l’avarizia è uno dei sette peccati capitali e San Paolo affermava che l’amore per il denaro è la radice di tutto il male; per il buddismo è uno dei tre veleni che creano il cattivo karma. Eppure, ci sono scuole psicologiche che ritengono l’avarizia uno degli insopprimibili elementi costituenti della natura umana, così che più o meno tutti, fino a un certo punto, saremmo avidi. «Alcuni autori hanno affermato che essere avidi è vitale per il benessere dell’uomo e che l’avidità è un importante tratto evolutivo, che promuove l’auto-conservazione — spiegano ancora la dottoressa Seuntjens e i suoi collaboratori —. Le persone più predisposte verso il guadagno e l’accumulo di quante più risorse possibili, potrebbero essere in teoria quelle che se la passano meglio e che quindi hanno un vantaggio evolutivo». Avidità il «male» dei banchieri. L’avido raramente è felice, proprio a causa della sua insaziabilità, che tende a renderlo perennemente insoddisfatto. «Per chi è avido, “abbastanza” non è mai “abbastanza” — dicono gli autori della ricerca —. Si aspetta di essere più felice con più denaro a disposizione, ma appena lo acquisisce, adatta  e muta i suoi desideri e le aspettative, e così ne desidera subito dell’altro, sempre di più. Per chi è avido l’obiettivo si sposta continuamente». Così, l’avidità diventa la causa dei debiti finanziari, per l’impazienza che l’avido ha nei confronti dei propri desideri. Secondo alcuni ricercatori, autori di uno studio sull’argomento pubblicato qualche anno fa sul Journal of Travel Research, è stata l’avidità cieca a far sì che alcuni banchieri si siano comportati in maniera così rischiosa da scatenare la crisi finanziaria. Un’altra caratteristica psicologica dell’avidità è infatti l’irrazionalità. A guidare la persona avida non è il tentativo di raggiungere il massimo dei beni che si presentano alla sua portata. Il motore dell’avidità sta all’interno dell’individuo, è incastonato nel suo desiderio senza fine che non potrà mai essere soddisfatto, e proprio questo fa sì che la vera avidità sia irrazionale. L’eccesso è il problema. La psicoanalisi ha affrontato spesso il tema. «È difficile che qualcuno si rivolga a uno psicoanalista perché si sente avaro — dice il dottor Walter Bruno, della Società Italiana di Psicoanalisi—. È invece facile che, nel corso di un trattamento richiesto per altre ragioni, emergano tratti di carattere, o meglio, comportamenti che, dagli altri, vengono etichettati come avidità o avarizia. È difficile, cioè, che Re Mida, o Arpagone, si rivolgano ad uno psicoterapeuta, dal momento che questo assetto del carattere è da loro vissuto come un magico talismano, un irrinunciabile salvagente, con il quale far fronte a un mondo senza scrupoli. Dunque, il problema non è tanto se l’avidità (un’insaziabile tendenza ad accumulare), o l’avarizia (un’infaticabile tendenza a trattenere e a non donare), siano i sintomi di una malattia psichiatrica, o configurino un peccato capitale, quanto chiedersi perché in certe persone questi tratti di carattere si esprimano in modo esasperato. E anche perché in altre vi sia invece l’incapacità di avvertire il pericolo, così da prendersi cura di sé come se fossero sprovviste di quella valenza dell’avarizia che comporta il proteggere ciò che si ha». L’optimum sarebbe un giusto equilibrio tra avidità e avarizia. «Il fatto è che in ognuno di noi ci vorrebbe un po’ di Re Mida, la fantasia magica di trasformare in oro ciò che si tocca, una certa fiducia, cioè, nella propria capacità di realizzare i sogni, e ci vorrebbe però anche un pò di Arpagone, cioè la capacità di risparmiare, di ben amministrare e difendere non solo ciò che si ha, ma anche ciò che si è, in altri termini, una certa dose di sana parsimonia. Il problema sta nella misura: è la dose che fa di una stessa sostanza un medicinale o un veleno. La sfida da vincere consiste, quindi, nel prendere la decisione corretta ed equilibrata». «Avidità e avarizia, ci sono sempre state, espressione non solo della natura umana, ma anche di circostanze storiche e sociali — conclude lo psicoanalista —. Ad esempio, oggi c’è da chiedersi in che misura bulimia e anoressia, malattie tipiche della nostra società, possano essere viste come modalità attraverso cui si esprimono la tendenza ad accumulare, senza peraltro essere mai soddisfatti o, al contrario, quella di fare a meno di ogni apporto esterno, creando così una patologia». Il denaro può «attivare» il cervello come una droga. Sebbene l’avidità possa mirare a molti oggetti differenti, il denaro, assieme al cibo e al sesso, è tra quelli più unanimemente riconosciuti. Al denaro viene attribuito il potere di dare libertà e sicurezza, di trasformare vite, di manifestare il successo di un individuo e così via. Non c’è da meravigliarsi che per alcuni individui il denaro possa diventare una droga. Denaro come “droga cognitiva” è l’interpretazione data da due ricercatori della School of Psychology dell’University of Exter, nel Regno Unito, Stephen Lea e Paul Webley. «Il denaro può “mimare” altri incentivi naturali a livello cognitivo — dicono i due ricercatori — e il suo potere motivazionale si genera almeno in parte da questa caratteristica». Processi cognitivi sostenuti da precisi processi cerebrali. «Ricerche provenienti dall’ambito in rapida espansione della neuroeconomia hanno già messo in evidenza, attraverso studi realizzati con tecniche di visualizzazione cerebrale, che in presenza del denaro vengono attivati specifici centri del cervello, come il cosiddetto “corpo striato”.

 

Eppure pochi individui sono capaci di esprimere l’avidità come un male. A mio parere l’avidità rappresenta il vero problema della attuale società. Sui giornali non si fa altro che leggere di società e banche che ottengono trimestrali e fatturati da capogiro, e così il lettore potrebbe convincersi che questo è sinonimo di una società sana che funziona, Eppure cosi non è. Perchè i lavoratori hanno paghe sempre più basse. Vi siete mai domandati da dove origina il tema dell’immigrazione? Dall’avidità degli imprenditori, non è una colpa dei politici, loro obbediscono al proprio elettorato e siccome oramai destra e sinistra rispondono entrambe al grande capitale, senza ci sia più nessuno che si occupa della sorte dei lavoratori, neppure i sindacati, l’immigrazione serve ai grandi imprenditori per abbassare il tenore di vita e le loro istanze, delle classi lavoratrici. Vi siete mai domandati perché in Italia i salari sono i più bassi rispetto ad altri paesi dell’area euro? È perchè sono fermi da oltre trent’anni? Gli stipendi in Italia sono praticamente fermi a trent’anni fa: da un’analisi dei dati Ocse, risulta che tra il 1990 e oggi nel nostro Paese l’aumento medio delle buste paga è stato di appena lo 0,3%: “29.694 euro contro i 29.588 del 1991”. "In questi giorni, i partiti politici italiani, evidentemente consci di questo, si stanno azzuffando per promettere incrementi stipendiali mirabolanti, ad iniziare da quelli del personale scolastico: sono a piena conoscenza del fatto che docenti e Ata, con il contratto scaduto da quasi quattro anni, vengono pagati a fine mese meno degli impiegati italiani e la metà di tanti colleghi europei", ha denunciato in una nota di Anief. L'associazione ha citato anche la proposta degli economisti Tito Boeri e Roberto Perotti risalente ad agosto del 2022, che indica "di non fermarsi ai meri finanziamenti dello Stato, chiedendo che a pagare di più siano i datori di lavoro, grazie al salario minimo salariale legale e approvando una nuova legge sulla rappresentanza dei lavoratori che velocizzi il rinnovo di contratti scaduti da anni". Anief ritiene questa seconda parte della proposta particolarmente interessante: “Bisogna recuperare subito almeno una parte dell'inflazione accumulata nel corso degli ultimi anni, ben il 14% tra il 2008 e il 2018 – dice Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief – andando a sottoscrivere in fretta il contratto collettivo nazionale del pubblico impiego degli anni 2019, 2020 e 2021. Diamo al personale della scuola, oltre un milione e 100mila lavoratori i soldi che sono già loro: parliamo di cifre che vanno da 103 lordi fino a 123 euro per i docenti, da 88 euro fino a 97 per gli Ata. E anche tra i 2mila e i 3mila euro di arretrati. Subito dopo, è chiaro che occorrerà cambiare registro, cambiando la normativa che danneggia i lavoratori tra un contratto e l’altro, per poi portare risorse fresche, ingenti, con le nuove leggi di Bilancio, a cominciare dal quella del 2023”. “Impoverire sempre più chi lavora per lo Stato è uno degli errori più gravi che chi governerà nei prossimi cinque anni non dovrà commettere. Per questo motivo Pacifico decise di dare voce a tutti i partiti politici impegnati nella campagna elettorale che avrebbe portato gli italiani alle urne il 25 settembre 2022.

Avete visto voi proposte o cambiamenti?

 
 
 

MAI COME OGGI GLI USA SONO IN PIENA CRISI!

Post n°1622 pubblicato il 29 Settembre 2023 da scricciolo68lbr
 

John Maynard Keynes ha scritto che non c’è mezzo più sicuro per rovesciare un sistema economico che minare la fiducia nella sua moneta. Dalla fine della seconda guerra mondiale, il sistema internazionale dei pagamenti è basato sulla centralità di una sola valuta: il dollaro americano. Nel 2022 il biglietto verde è stato controparte in nove transazioni valutarie su dieci. Oggi il 50% della fatturazione internazionale è in dollari, così come il 60% delle riserve valutarie mondiali. L’importanza del dollaro nel sistema finanziario internazionale oltrepassa di gran lunga quella degli Stati Uniti nell’economia globale: l’economia americana, pur rimanendo la più grande del pianeta, oggi corrisponde solo al 20% del pil mondiale.

La centralità del dollaro offre all’America benefici economici importanti. Il suo utilizzo diffuso nel commercio internazionale e come riserva valutaria garantisce a Washington l’«esorbitante privilegio» di commerciare con l’estero nella propria valuta, finanziando un grande disavanzo commerciale senza particolari rischi monetari; e quello di indebitarsi a tassi particolarmente favorevoli. L’utilizzo del dollaro nei commerci, soprattutto di materie prime, impone alle banche centrali di tutto il mondo il mantenimento di riserve valutarie in dollari per garantire il finanziamento delle importazioni, il che riduce i tassi d’indebitamento degli Stati Uniti.

Tuttavia il processo di dedollarizzazione è iniziato, sempre più Paese, come Cina, Iran, molti stati africani, pagano i loro acquisti con lampropria moneta e tutto questo comincia a soaventare gli USA. 

Preoccupa anche l'alto indebitamento delle casse dello stato, si registra molto nervosismo infatti sulla possibilità di un default Usa e ora anche il trono del re dollaro è visto vacillare. Le analisi sono tutte ipotetiche, ma si rincorrono scenari cupi tra gli analisti, considerando che le parole del Segretario al Tesoro Yellen si fanno ogni giorno più allarmanti: “un fallimento per insolvenza innescherebbe una recessione globale...rischierebbe anche di minare la leadership economica mondiale degli Stati Uniti e solleverebbe interrogativi sulla nostra capacità di difendere i nostri interessi di sicurezza nazionale”. Queste sono state, in ordine cronologico, le ultime dichiarazioni ufficiali.

Già qualche giorno fa Janet Yellen si era pronunciata sull’impatto catastrofico del mancato innalzamento del tetto al debito sul dollaro, asset rifugio e sicuro per eccellenza, oltre che riserva valutaria mondiale. Con un abbassamento del rating Usa, il biglietto verde perderebbe la sua credibilità.

Cosa può davvero accadere al dollaro con un default degli Stati Uniti? Per alcuni analisti sarà crollo e a beneficiarne può essere la Cina: le previsioni.

 

Default Usa e dollaro: cosa può davvero succedere?

Un default del debito potrebbe minacciare lo status del dollaro come valuta di riserva mondiale. In effetti, con il loro atteggiamento rischioso, i repubblicani del Congresso stanno giocando alla roulette russa con il primato dell’America nel sistema finanziario globale, una posizione privilegiata alla base del nostro tenore di vita e dell’influenza internazionale: questa l’opinione di DiMike Lofgren su The New York Times.

La questione del ruolo del biglietto verde è cruciale. Per gli Usa, ma anche per l’intero sistema finanziario globale. L’ex membro dello staff delle commissioni di bilancio della Camera e del Senato ha spiegato sul giornale statunitense che un default del debito sovrano è allarmante per una serie di turbolenze che innesca: recessione, un calo del dollaro che aumenterebbe ulteriormente l’inflazione tra l’aumento dei tassi di interesse, un crollo delle azioni, un arresto dei pagamenti della previdenza sociale e panico nei fondi del mercato monetario.

Nonostante previsioni da catastrofe, per DiMike Lofgren i repubblicani sembrano prendere in considerazione un altro potenziale scenario: “da quando il presidente Richard Nixon ha svincolato il dollaro dall’oro, i profeti di sventura hanno predetto l’imminente scomparsa del dollaro come valuta di riserva mondiale. Questa profezia si è finora rivelata errata; il dominio del dollaro è appena inferiore a quello che era ai tempi di Nixon, e in realtà ha rafforzato il suo status di rifugio sicuro durante la pandemia”.

Tradotto: vogliono indebolire il biglietto verde. L’analista ha ricordato, però, che avere la valuta di riserva mondiale ha permesso agli Stati Uniti di gestire per decenni un budget molto elevato, scambi di merci e deficit delle partite correnti.

I dollari che fluiscono all’estero come risultato di tali deficit sono necessari ad altri paesi per acquistare materie prime come il petrolio e per condurre altri scambi.

Le nazioni con eccedenze di dollari li “riciclano” come investimenti negli Stati Uniti. Ecco perché New York ha i mercati finanziari più liquidi del mondo. Questi forti mercati a loro volta incoraggiano molte banche centrali estere a detenere i propri asset anche a New York.

Nel commento, l’esperto ha poi aggiunto che Stati avversari come la Cina e la Russia hanno tentato per anni di detronizzare il dollaro come valuta di riserva mondiale, finora con scarso successo. Il fatto che la maggior parte degli accordi finanziari internazionali sia regolata in dollari, proprio come la rete di transazioni internazionali SWIFT è dominata dagli Stati Uniti, rende le sanzioni economiche di Washington contro i regimi canaglia una vera minaccia.

Il predominio del dollaro significa, infatti, che a un certo punto il commercio deve passare attraverso una banca americana. Questo è un modo importante per conferire agli Stati Uniti un enorme potere politico, soprattutto per punire rivali economici e governi ostili.

Perché, allora, la potenziale perdita di status del dollaro porterebbe a un cambiamento epocale? Lo ha chiarito DiMike Lofgren:

“È improbabile che un’inadempienza porti all’istante Armageddon, ma è possibile, forse anche probabile, che contribuisca a un lento disfacimento. Gli investitori stranieri inizierebbero a proteggersi dall’acquisto di debito statunitense, o esplorerebbero l’utilizzo dell’euro o di un paniere di valute stabili. A seguito di un default, gli esportatori di petrolio sarebbero più propensi ad accettare pagamenti in strumenti diversi dai dollari.

E attenzione, in questo scenario, al ruolo della Cina.

Usa in fallimento e dollaro in declino: a vincere è la Cina

Nell’analisi su The New York Times c’è una considerazione lucida: “Gli unici beneficiari del default sarebbero attori avversari come Russia e Cina. Per evitare anche solo la possibilità di questo risultato, il presidente Biden farebbe bene a prendere tutte le misure disponibili per evitare una simile calamità”.

D’altronde si parla già da tempo dei tentativi di de-dollarizzazione. In un estremo scenario della perdita di status del dollaro, secondo alcuni analisti, mentre l’euro ne beneficerebbe come sostituto del biglietto verde in qualità di principale unità di conto mondiale, lo yuan cinese passerebbe al secondo posto.

 

Se lo yuan dovesse diventare un’unità di conto internazionale significativa, ciò rafforzerebbe la posizione internazionale della Cina sia economicamente che politicamente. Così com’è, la Cina ha lavorato con gli altri Paesi BRIC – Brasile, Russia e India – per accettare lo yuan come unità di conto. Un default degli Stati Uniti sosterrebbe tale sforzo.

Potrebbero non essere soli: di recente, l’Arabia Saudita ha suggerito di essere aperta a commerciare parte del suo petrolio in valute diverse dal dollaro – qualcosa che cambierebbe la politica di vecchia data.

I dati parlano di una piccola rivoluzione in corso: la Cina ha notevolmente aumentato l’uso dello yuan per acquistare materie prime russe nell’ultimo anno, con quasi tutti i suoi acquisti di petrolio, carbone e alcuni metalli dal suo vicino ora regolati nella valuta cinese invece che in dollari, secondo Reuters.

Il passaggio allo yuan per pagare gran parte di un commercio di materie prime di circa 88 miliardi di dollari sulla scia della guerra in Ucraina accelera gli sforzi della Cina per internazionalizzare la sua valuta, anche se si prevede che severi controlli sui capitali limiteranno il suo ruolo globale.

A marzo, lo yuan - noto anche come renminbi - è diventato la valuta più utilizzata per le transazioni transfrontaliere in Cina, superando per la prima volta il dollaro, secondo i dati ufficiali, anche se la sua quota come valuta globale per i pagamenti rimane piccola a 2,5%, secondo SWIFT, contro il 39,4% del dollaro e il 35,8% dell’euro.

 
 
 

LA MIGLIORE CRITICA ALLA FOLLIA GENDER? SCRITTA DA UN OMOSESSUALE!

Post n°1621 pubblicato il 28 Settembre 2023 da scricciolo68lbr
 

La miglior critica alla follia gender l’ha scritta un omosessuale"La Pazzia delle Folle. Gender, Razza e Identità" di Douglas Murray, è un libro uscito nel 2020, e ad oggi rappresenta la critica migliore alla follia gender/lgbt.

 

Possono criticare la Natura umana che prevede l'uomo e la donna, possono imporre nelle scuole elementari libri e sussidiari che trattano il sesso, possono parlare ai bimbi della possibilità di cambiare sesso già alle elementari, vogliono il reato di omofobia, vorrebbero cancellare i termini di papà e mamma e sostituirli con i termini Genitore 1 e genitore 2, hanno chiesto ed ottenuto nelle scuole l'introduzione dei bagni fluid, dove possono entrare maschi e femmine. Poi se durante una trasmissione radio andata in onda sul servizio pubblico, un medico si permette di esprimere una opinione più che una critica sulla efficacia dei vaccini, scoppia il putiferio! Non si placa infatti la polemica su Giù la maschera, programma radiofonico della Rai condotto da Marcello Foa, quest’ultimo reo di aver invitato a discutere con Massimo Galli, ortodosso doc del terrore virale, un eretico del calibro di Massimo Citro, medico assai critico sui vaccini a mRna e sulla strategia complessiva della pandemia.

In prima linea ad alzare il suo illuminato ditino, come abbiamo già scritto, si è immediatamente distinto Roberto Burioni, il quale ha immediatamente scomunicato via social chiunque avesse organizzato e partecipato alla citata eresia in diretta, mamma Rai compresa, affermando implicitamente che sulla scienza degli stregoni del Covid-19 la libertà di espressione non dovrebbe esistere

Tant’è che lo stesso Galli, anch’egli evidentemente poco avvezzo al confronto democratico, ha pubblicamente manifestato la sua abiura. Lo ha fatto innanzitutto rispondendo direttamente a Burioni sul suo profilo Twitter con parole inequivocabili: “Il prof. Burioni si dispiace della mia partecipazione alla trasmissione di Foa che ha dato spazio, dopo di me, a un no vax. Mai quanto me ne dispiaccio io, che non ne ero stato minimamente informato. Avrei in questo caso certamente declinato l’invito.”  Immediata la soddisfatta replica del virologo pesarese: “Anche a me accadde la stessa cosa tanti anni fa. Un caro saluto a Massimo Galli.”

Come vediamo, si tratta di una impressionante conferma del dogma scientistache ha contribuito in maniera determinante a demolire, nei lunghi anni dell’inverno virale, ogni forma di pensiero critico, tanto da far ritenere assolutamente inaccettabile qualsiasi contatto dialettico con chiunque non fosse completamente allineato con il medesimo e oscuro dogma scientista. Un simile atteggiamento, con le debite proporzioni, caratterizzava la popolazione russa durante il periodo più feroce della purghe staliniste. In quel periodo, per l’appunto, persino un minimo contatto o una semplice conoscenza con i soggetti accusati di attività anti-sovietica era sufficiente per subire la medesima, drammatica sorte.

D’altro canto, dato che la storia si ripete sempre, dal momento che sono sempre gli uomini a determinarla, l’opprimente regime sanitario che ci ha tolto molte libertà costituzionali, arrivando ad imporci un lasciapassare simile a quelli in vigore nel regno sanguinario di Stalin, ha spesso assunto i connotati di una spietata dittatura. E come tutte le dittature, una volta finite, restano sempre i nostalgici che le rimpiangono. Ogni riferimento ai Galli e ai Burioni è puramente casuale.

Ma torniamo all'rgomento del post, dopo questo breve escursus. Capita di rado leggere il libro giusto al momento giusto. Questo libro segna uno spartiacque, e per molti versi è scomodamente profetico. Quando, alcuni mesi fa, lessi l’appena edito The Madness of Crowds. Gender, Race and Identity di Douglas Murray – da pochi giorni in edizione italiana La Pazzia delle Folle. Gender, Razza e Identità(Neri Pozza) – ne avvertii immediatamente l’importanza. Non si tratta di un libro “urlato”, come non lo fu il suo ottimo La strana morte dell’Europa (2018). È, invece, un libro estremamente urgente, ed è provvidenziale che sia uscito in Italia in queste settimane. Ne caldeggio dunque la lettura senza perdere tempo – che si sia donna, uomo o trans, eterosessuali o omosessuali, neri o bianchi, conservatori o progressisti -, in anni in cui “la folla ha completamente perso la bussola”, grazie alla morale falsamente neutra dei social media e di Hollywood e al filtro ottundente della “giustizia sociale”, della “politica identitaria di gruppo”, dell’”intersezionalismo” – ossia «lo sforzo più audace e completo, che sia stato tentato, dopo la guerra fredda, di creare una nuova ideologia», che, in vero, è sempre più una sorta di nuova “metafisica”, provvista di una retorica che «esaspera le divisioni esistenti”, creandone di nuove e amplificando rivendicazioni, diffidenza, risentimento e sfiducia sociali.

Se non fosse che i fatti incalzano sempre più, questo libro potrebbe essere un utile pamphlet filosofico sul buon ragionare in tempi ardui o, meglio, sulla possibilità stessa di ragionare quando un’ideologia pervasiva, qualunque essa sia, inizia a dominare l’arena del pensiero, erodendolo e degradandolo. Murray, un conservatore libertario – per malamente inquadrarlo -, invece ci obbliga a riconsiderare il reale.

Tra i fatti incalzanti e agghiaccianti, che rendono “folli”, vi è, per esempio, la storia del brillante milionario gay Peter Thiel (fondatore di Paypal, legato sia a Elon Musk sia a FB), conservatore e sostenitore di Donald Trump, per questo definito dalla stampa progressista «un uomo che fa sì sesso con altri uomini, ma che assolutamente non è gay»; la scrittrice pluripremiata che sostiene a più riprese che «tutti gli uomini sono rifiuti umani», oppure la editorialista che scrive «a morte tutti gli uomini», senza che nemmeno lontanamente costoro pensino di essere loro stesse violentemente sessiste; la giornalista del New York Times Sarah Jeong che ha continuato a tweettare amenità quali «eliminiamo i bianchi» o «cavolo, mi fa quasi impazzire quanto mi diverte essere cattiva con i bianchi anziani»; la dolorosissima e angosciosa vicenda che ha piagato e spezzato la vita del giovane Nathan Verhelst – nata Nancy e odiata dalla madre, sottopostasi poi a terapia ormonale con avallo medico e psichiatrico, poi operata tre volte per cambiare sesso e, infine, sempre con avallo medico e “a fin di bene”, “compassionevolmente” – soppresso nel 2013; la storia travagliata del giovanissimo James tra scelte impervie e sofferte, e le perfettamente legali pratiche medicali perpetrate a Los Angeles – ma non solo – dalla più che inquietante dottoressa Johanna Olson-Kennedy a decine e decine di bambine e bambini dagli otto ai tredici anni in su per far cambiare loro sesso in giovanissima età tra ormoni e chirurgia irreversibile.

Permettetemi ora una digressione rispetto al libro, apparentemente remota. Chiunque abbia contezza della storia dell’antisemitismo sa perfettamente che l’odio antisemita è anzitutto una costruzione intellettuale elaborata, partorita da cervelli fini – anche quando ossessionati o rapaci -, che si è alimentata, prosperando, prima in ambito teologico (sia cristiano sia, successivamente, islamico, tra continuità e distanze), poi in ambito filosofico e politico nelle moderne università. Il falso mantra che la “conoscenza” ci renda “migliori” – o, per dirla diversamente, meno “a rischio” di orrori – è clamorosamente smentito dai fatti, prima ancora che dalle eterogenee interpretazioni degli stessi: fu la “cultura” a creare l’antisemitismo, non contadini vessati, affamati e ignoranti, non i gaudenti nei bordelli o nelle osterie, e nemmeno la piccola delinquenza. 

Questo non significa assolutamente celebrare l’ignoranza a discapito del sapere, oppure sostenere che viziosi e delinquenti (ed è arduo trovare essere umano, chi più chi meno, che almeno un po’ non rientri – o sia talora rientrato – in almeno una delle due categorie) non possano essere antisemiti. E nemmeno significa assolvere il “popolo minuto”, che divenne anche lui un pessimo attore in questa orrida storia (come in altre devastazioni), quanto piuttosto ricordarci che vi è una immensa (e reiterata) responsabilità intellettuale, che ha prosperato (e in diversi subdoli modi ancora prospera) nell’accademia, a cominciare da quell’università germanica che, da dopo Lutero sino agli inizi del XX secolo, è stata l’indiscusso (e potente) modello del pensiero umanistico occidentale, con molte innegabili luci e con devastanti tenebre. Il tanto vituperato papa Alessandro VI Borgia o il buon suo sifilitico successore Giulio II, del pari di altri pontefici rinascimentali, erano uomini intemperanti e stracolmi di vizi (il che non fa che rendermeli in qualche modo simpatici), ma non più crudeli – e certamente meno pericolosi – dei vari Paolo IV, Pio V o Martin Lutero e così via: questi ultimi, difatti, erano, non solo spesso inconsapevoli di essere a loro volta dei mostri, ma armati fino ai denti perché mossi dallo zelo di pugnare per una presunta giusta causa (la loro), ossia di detenere e operare il bene. Non è un caso che, e non di rado, la situazione degli ebrei sia stata meno nefasta con personaggi quali certi papi medievali o della Rinascenza di dubbia morale, taluni re libertini o certi califfi e sultani, seppur sempre a rischio, piuttosto che con i moralisti virtuosi – araldi di morali religiose oppure laiche -: con un delinquente, per quanto disagevole, si può patteggiare e capirsi, con un delinquente convinto di essere buono e nel giusto – o costretto a recitare quella parte – è impossibile. Si tratta di amare e scomode porzioni di verità, che i moralisti disdegnano.

Parte significativa della progressiva barbarie che sta affliggendo oggi la vita politica delle società occidentali, certamente perfettibili, è legata alla dottrina sociologico-politica dell’intersezionalità, di giorno in giorno più dogmatica, aggressiva e al suo interno contraddittoria. Anch’essa è un prodotto intellettuale, un “regalo” delle università, di chiara ispirazione marxista, con dunque tutta la sua carica seducentemente sovversiva e la sua pretesa ed esibita morale para-messianica. Il libro di Murray rende conto dall’interno di quanto stia succedendo e del progressivo esasperarsi del problema, con gran dovizia di fatti concreti, spesso tragici e crudeli o che lasciano frastornati. È bene sapere di che si tratta, dato siamo sempre più bombardati da accuse di razzismo, xenofobia, sessismo, omofobia, transfobia. Ma anche, e spesso a sproposito e con abusi, di fascismo e di antisemitismo. Ora, in alcuni ambienti, anche di islamofobia.

In estrema sintesi, l’idea soggiacente a questo immenso e terrificante minestrone è che vi sia un’unica radice – con varie sovrapponibili modalità di estrinsecazione dell’odio – delle diverse discriminazioni e dominazioni. Che si tratti di un’ideologia grossolana e incoerente, benché oggi assurta a indiscusso dogma – in forma soft, come in Italia sinora, o in forma radicale, come altrove -, è palese dal fatto che spesso tra questi diversi gruppi di vittime di discriminazioni c’è tensione, se non talora persino nette opposizioni. Che, ad esempio, non renda conto dell’antisemitismo è evidente, dato che il vero focus, in questo caso, non è, se non per occasionali tangenze, il razzismo o la xenofobia, bensì l’odio per il fratello, per il simile, per la radice, per l’uguale, per l’alterità interna – e non quella esterna -: è un “mistero” di cui rende bene conto la Bibbia nell’odio di Esaù per il “gemello”, non per il diverso o lo straniero. E non è affatto un caso che negli ambienti universitari e politici (tutti progressisti) ove questa teoria descrittiva (e – ancor più – con pretese ferocemente prescrittive) del reale impera e dilaga, essa si nutra e diffonda ora antisemitismo (Murray, p.372), con argomentazioni – e qui sta l’ulteriore paradosso – razziste: «Gli ebrei sono bianchi? …la fine del privilegio bianco inizia ponendo fine al privilegio ebraico (questo nell’anno 2016/2017 nell’Università dell’Illinois)».

Siamo molto distanti dalle sacrosante rivendicazioni di Martin Luther King, che coraggiosamente lottò tanto contro il potere bianco quanto contro quello nero; prospettiva che non poteva essergli in alcun modo perdonata dai devoti dell’intersezionalità. Non è affatto un caso che nel pur interessante (e, in alcune parti del percorso museale, notevole) National Museum of African American History and Culture (ove comunque una visita è doverosa) a Washington lo spazio dedicato al reverendo King sia meno che infinitesimale, dato che non accarezzava, nemmeno come correttivo al detestabile e omicida razzismo bianco, il black power, ma auspicava piuttosto «il potere di Dio e il potere dell’essere umano».

«I sostenitori della giustizia sociale, della politica identitaria e dell’intersezionalità – scrive Murray – vogliono farci credere che viviamo in una società razzista, sessista, omofoba e transfobica. Insinuano che queste oppressioni siano interconnesse e che se riusciamo a vedere com’è fatta questa ragnatela, e a disfarla, potremo infine disinnescare le oppressioni della nostra epoca. …. È improbabile che un giorno lo scopriremo mai. Innanzitutto, perché le oppressioni interconnesse non sono tra loro collegate in bell’ordine, ma hanno un tremendo attrito tra loro e al loro interno, facendo un gran baccano. Accentuano il logorio, anziché attenuarlo, e aumentano le tensioni e la pazzia della folla più di quanto non producano serenità». Continua l’autore, evidenziando che sollevare certe questioni in tale modo è divenuto una modalità nuova e distorta «non solo per mostrare compassione, ma per l’esibizione di una nuova moralità. È il modo con cui si pratica questa nuova religione». Tale sfoggio di “virtù” richiede strumentalmente che si esasperi ed esageri ogni questione e a ogni costo, per perversamente amplificarla. Douglas Murray argomenta con attenta perizia tutto questo: omosessuale e non credente, in questo suo attualissimo e urgente saggio recupera mirabilmente e laicamente il valore – di matrice biblica, ebraica e cristiana – del perdono, anche in una dimensione politica e intergenerazionale, forse con maggiore nitore e onestà di molto ciarpame melenso che dilaga invece da parte “credente”.

Ha perfettamente ragione Murray quando sintetizza che «se l’uguaglianza razziale, i diritti delle minoranze (come nel caso di gay, lesbiche e trans, ma anche neri, ebrei etc. etc.) e quelli delle donne sono i migliori prodotti del liberalismo (e solo del liberalismo e solo in Occidente), come fondamenta sono a dir poco destabilizzanti. Tentare di elevarli a cardine è come rovesciare uno sgabello da bar e poi provare a starci sopra in equilibrio. I prodotti del sistema non possono riprodurre la stabilità del sistema che li ha prodotti; se non altro perché ciascuna di queste problematiche è di per sé una componente estremamente instabile». Il problema qui, infatti, non sono in alcun modo questi benedetti diritti appena ricordati – dopo, occorre sempre tenerlo a mente imparandone le lezioni, secoli di persecuzioni, odio, dileggio, sofferenze, talora ancora in atto oggi nelle nostre stesse società (e talora purtroppo, più o meno intensamente, persino in seno alle nostre rispettive comunità religiose o famiglie), che tuttavia però sono le uniche ad aver fattivamente cercato di smascherare e arginare furie persecutorie, aguzzini e sadici, e che tutt’ora restano una sparuta minoranza nel mondo! -, bensì un’ideologia furiosa con il “reale”, quest’ultimo sacrificabile e odiato in nome di un’”idea”.

Viene da chiedersi se il mondo occidentale, cresciuto e divenuto prospero anche per innegabili e positivissime conquiste legate proprio al paradigma contrattualista-liberale, nell’estendere senza riserva il paradigma del “libero consenso” – della libera scelta – a ogni ambito della vita, non sia più in grado di capire e dunque di tollerare – rifiutandolo – tutto ciò che si sottrae all’arbitrio, risultando “indisponibile” (o, in qualche modo, “trascendente”): genitori e figli, universo linguistico-simbolico in cui si nasce; se, quando e come nascere; come e quando morire; che corpo avere. Peccato che si tratti dei più profondi “dati” esistenziali che permettono a una persona di essere e di definirsi – o di ripensarsi -, e che ciascuno di essi presupponga non solipsismo assolutista ma relazione. Sono domande più che angosciose… Constatiamo però che siamo in preda a ubique pulsioni di morte, non solo per quanto riguarda gli odiatori – verso cui bisogna essere sempre molto vigili -, ma nei riguardi di tutti quegli ambiti essenziali e intimi della nostra esistenza, vitali per il sano mantenimento in essere di qualsivoglia società.

Viene da chiedersi se le incomprensioni, le derive, le ideologie paradossali e le pulsioni di morte tradottesi in normativa – talora anche tremenda e applicata a minori -, di cui questo libro rende ampiamente conto, non siano correlative rispetto alla connivenza e alla resa di quella stesse aree politiche e culturali all’Islam politico dilagante in Occidente, anche con investimenti milionari e con “gestione” dei drammatici fenomeni migratori e demografici. Se, rispetto alle prime, la tentazione è di dire “guarda e passa”, rispetto ai secondi (l’Islam politico) non si può che “ammirare” calcoli, paziente attesa e intelligenza strategica. Purtroppo, l’arroganza dei primi farà sì che, come già stiamo vedendo, assieme a trascinare con sé tutto il resto e ogni altra persona e retaggio culturale, si consegneranno fatalmente al loro carnefice (i secondi), che non sarà tenero, come già dichiara in maniera peraltro cristallina e senza troppi infingimenti. E, d’altronde, perché mai dovrebbe? E, ancora, appare chiaro a chi scrive che le più retrive forze – forse anche di frange dell’ebraismo e del cristianesimo – messe alle strette tra queste derive deliranti e l’Islam politico, sceglieranno giocoforza, anche se a carissimo prezzo, l’Islam politico, che dimostra astuzia, non accontentandosi dell’istante ma approntando strategie efficaci nel futuro. Questo, purtroppo, a totale detrimento della cultura dei diritti, che, se rettamente intesa, come ricorda Murray, è una delle migliori e più straordinarie conquiste della nostra travagliata storia occidentale (o un suo frutto compiuto), “secondaria” – come afferma Remy Brague – rispetto ad Atene e Gerusalemme, sempre più incomprese, delegittimate e vituperate. C’è di che rabbrividire, tutti, che si appartenga o meno a una – o talora anche più di una – delle varie minoranze (in quest’ultimo caso, ovviamente, c’è ancora più da temere, perché assediati da troppi mostri).

Forse è vero e prolettico un antico detto latino, che non è peregrino qui ricordare: quos deus perdere vult prius dementat.

 
 
 

TRATTATIVA STATO-MAFIA.

Post n°1620 pubblicato il 28 Settembre 2023 da scricciolo68lbr

A parziale integrazione del post precedente, pubblico questo articolo tratto dal Peridico Panorama, datato 31 agosto 2012.

 

ESCLUSIVO - Ecco il contenuto delle telefonate tra Napolitano e Mancino
Giovanni Fasanella

 

Abbiamo deciso di pubblicare l'articolo di Panorama in edicola che ha fatto tanto discutere - Il nostro speciale

 

Che cosa si sono detti il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e Nicola Mancino? Sulle conversazioni segrete intercettate dalla Procura di Palermo si sta scrivendo una pagina di storia repubblicana assai tormentata, con inedite coalizioni di commentatori e politici le une contro l’altre armate. Ma è una storia che, se avesse un titolo, potrebbe essere molto semplice: la grande ipocrisia.

Ovvero: come usare ogni artifizio retorico e/o giornalistico per fare capire di sapere ciò che c’è nelle intercettazioni senza dichiararlo apertamente. Vediamo di comprendere meglio e, soprattutto, per quale scopo vengono lanciati questi messaggi (vedere anche l’editoriale a pagina 12 e il riquadro a pagina 64). Con due premesse. La prima: da sempre Panorama critica il devastante potere delle intercettazioni nel deformare il pensiero di chi parla, con la trascrizione di frasi fuori dal contesto in cui sono pronunciate. La seconda premessa riguarda la grande cautela con cui bisogna guardare a messaggi trasversali, soprattutto quando sono rivolti a una figura delicata e decisiva come quella di Napolitano in questa fase della vita politica italiana. Ma i fatti sono fatti e vanno raccontati, soprattutto quando possono nascondere manovre non limpide verso un’istituzione fondamentale come la presidenza della Repubblica. E svelarli per quel che sono e per quel che si può capire significa contribuire a rompere e interrompere ogni gioco poco chiaro (o forse troppo chiaro) che si voglia costruire.

Iniziamo dal contesto dei colloqui telefonici. Si dice che tre indizi costituiscono una prova: e qui di indizi, per ricostruire i contenuti dei colloqui, ce ne sono appunto tre. Sono i commenti di altrettanti osservatori, certamente bene informati (e non appartenenti a un unico fronte politico o editoriale), che il 24 e il 25 agosto hanno ipotizzato in modo univoco e convergente che cosa potrebbero «nascondere»le famose telefonate intercettate su input della procura siciliana e oggetto di un tormentato conflitto di attribuzioni sollevato dal Quirinale davanti alla Corte costituzionale.

Ad aprire le danze è Ezio Mauro, sulla Repubblica di venerdì 24 agosto, con un editoriale in cui a un certo punto scrive: «Facciamo un’ipotesi astratta, di scuola. Quante telefonate avrà dovuto fare il capo dello Stato nelle due settimane che hanno preceduto le dimissioni di Silvio Berlusconi da Palazzo Chigi? Se quelle conversazioni, che hanno preceduto e preparato l’epilogo italiano di vent’anni di berlusconismo, fossero diventate pubbliche quell’esito sarebbe stato più facile o sarebbe al contrario precipitato nelle polemiche di parte più infuocate, fino a rivelarsi impossibile?».

Il giorno dopo Marco Travaglio sul Fatto quotidiano è rapido nel sottolineare: «Se per caso fossero stati legittimamente intercettati colloqui del presidente relativi alla crisi che ha portato alla fine del terzo governo Berlusconi, noi non troveremmo nulla di scandaloso che fossero resi noti». E subito dopo aggiunge un indizio: «Anzi se, come Napolitano ha sempre assicurato, si è attenuto scrupolosamente al dettato costituzionale, sarebbe suo interesse dimostrare che le cose stanno davvero così e che abbiamo almeno un politico che dice in privato le stesse cose che dice in pubblico».

Più cauto, il 25 agosto, Adriano Sofri sul Foglio«Mettiamo che Napolitano – invento del tutto, eh! – abbia detto a Mancino che “il tale è un imbecille” o che “il talaltro è un farabutto” . È comprensibile che non desideri vedere rese pubbliche le sue frasi private».

Ecco dunque messe in fila le tre «ipotesi di scuola» che, guarda caso, non si discosterebbero poi di tanto dal reale contenuto delle conversazioni. Diverse fonti hanno infatti confermato a Panorama nei giorni che hanno preceduto gli interventi di Mauro, Travaglio e Sofri che il contesto da loro delineato, e abilmente dissimulato, è molto prossimo alla verità. Per essere ancora più espliciti: le telefonate dirette tra il capo dello Stato e Mancino risalirebbero al periodo dell’ultima crisi di governo (siamo agli sgoccioli del 2011) con corollario di giudizi su diversi protagonisti di quella fase, alcuni dei quali molto ruvidi e, ovviamente, impossibili da rintracciare nelle dichiarazioni ufficiali dell’epoca o successive.

Quei colloqui dovrebbero essere blindatissimi, conservati in nastri non ancora sbobinati. Eppure le maglie del segreto non sono così strette, come aveva rivendicato il dominus dell’inchiesta, Antonio Ingroia, in una recente intervista al Corriere della sera, se qualcosa delle chiamate captate dagli investigatori sta trapelando attraverso il tam-tam che dagli uffici giudiziari siciliani si sta diffondendo nelle stanze del potere romano e dell’informazione.

Avventurarsi nei virgolettati sarebbe un esercizio pericoloso e soggetto a facile smentita, dal momento che non esistono tracce di questi colloqui nelle carte processuali. Di certo nel novembre e dicembre del 2011 Napolitano ebbe con Mancino alcune conversazioni, del tutto ignaro che l’interlocutore fosse ascoltato dai magistrati che indagavano sulla «trattativa» tra Stato e mafia. In particolare, tra le persone oggetto delle discussioni fra il capo dello Stato e un amico di vecchia data come l’ex leader democristiano ci sarebbero stati Berlusconi, Antonio Di Pietro e parte della magistratura inquirente di Palermo. Napolitano, in particolare, avrebbe espresso forti riserve sull’operato della procura e sull’apparato mediatico che fiancheggia acriticamente le toghe siciliane.

Anche su Di Pietro le confidenze telefoniche a Mancino non avrebbero risparmiato critiche. È noto che l’ex pm di Mani pulite e attuale leader dell’Italia dei valori non gode di buona stampa nell’entourage del Quirinale per quel populismo giudiziario che da 15 anni condiziona gran parte del centrosinistra, impedendo la crescita di una cultura garantista e riformista.

E parole molto poco benevole con il ricorso a metafore assai lontane dal linguaggio ovattato proprio delle alte cariche istituzionali, infine, sarebbero state riservate anche a Berlusconi, al quale verrebbe addebitata la responsabilità di avere appannato l’immagine internazionale dell’Italia al punto da fare tirare un sospiro di sollievo dalle parti del Colle per la sua uscita di scena da Palazzo Chigi. 

Se si considera che l’utenza di Mancino è stata ascoltata dal novembre 2011 all’aprile di quest’anno, non è insensato ipotizzare che le telefonate dirette tra il presidente e l’ex ministro dell’Interno possano essere più numerose delle due di cui si continua a parlare senza alcuna smentita da Palermo. Da qui la preoccupazione del Quirinale: quali sarebbero le conseguenze sugli assetti politico-istituzionali interni e sui rapporti internazionali dell’Italia se le intercettazioni (tutte le intercettazioni) fossero divulgate nei dettagli?

La pubblicazione di robusti giudizi su leader politici finirebbe per collocare le parole del capo dello Stato fuori dal contesto in cui sono state pronunciate, al punto di travisarle, come insegna la storia delle intercettazioni telefoniche in Italia. Darebbe inoltre un’immediata rilevanza a conversazioni private (oltretutto prive di interesse penale, come gli stessi magistrati palermitani hanno sottolineato), avvenute con una persona con la quale Napolitano ha una lunga consuetudine di rapporti e con la quale ovviamente i filtri dell’aplomb istituzionale sono azzerati per via di un’antica amicizia consolidata nei decenni anche per gli incarichi (ministro dell’Interno, presidente del Senato e vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura) ricoperti da Mancino.

Quelle parole, quindi, finirebbero inevitabilmente per alimentare un clima già rovente. Con effetti potenzialmente destabilizzanti non solo per la tenuta e il ruolo terzo del Quirinale, ma anche per l’attuale governo. E questo proprio quando gli sforzi (e i sacrifici in termini di consenso) dei partiti che appoggiano il gabinetto dei tecnici si fanno più pesanti per l’elettorato di riferimento.

Questo scenario è stato attentamente valutato al Quirinale. Sin dal giorno in cui sono uscite le prime indiscrezioni sulle intercettazioni ordinate dalla Procura di Palermo e sulla conseguente irritazione del Colle (vedere Panorama del 27 giugno scorso). Napolitano ritiene che il deposito delle intercettazioni che lo riguardano violi le prerogative presidenziali e che il pm debba immediatamente chiederne al giudice la distruzione (vedere riquadro a pagina 64). Da qui la sua decisione di sollevare il conflitto di attribuzioni di fronte alla Corte costituzionale. Mossa che «costringe» la Procura di Palermo a rispettare l’obbligo di non depositare le intercettazioni, sulle quali, almeno fino a quando non ci sarà il pronunciamento, penderà il sospetto di illegittimità costituzionale. E poiché è improbabile che la Consulta affronti il problema in tempi rapidi (in settembre è atteso solo un primo via libera per l’ammissibilità del quesito), la decisione potrebbe arrivare a ridosso o dopo le prossime elezioni politiche (febbraio o aprile 2013), magari con un nuovo inquilino al Quirinale. Quando cioè le frasi di Napolitano, se fossero rese pubbliche, risulterebbero comunque prive del loro attuale potenziale esplosivo.

Queste valutazioni non sono estranee al conflitto emerso all’interno del quotidiano La Repubblica con gli interventi dell’ex presidente della Consulta, Gustavo Zagrebelsky, critico nei confronti della decisione di Napolitano, e di Eugenio Scalfari, che invece ne ha difeso la decisione di sollevare il conflitto di attribuzioni. Una rumorosa battaglia di punti di vista (vedere anche l’articolo a pagina 68) in un ambiente che finora si era sempre schierato in modo compatto e quasi ideologico a difesa delle iniziative della magistratura, a volte anche di quelle più azzardate.

Zagrebelsky è parso andare a rimorchio della campagna lanciata dal Fatto quotidiano e da Di Pietro a sostegno dei pm palermitani. Il fondatore del quotidiano, che ha sempre avuto un filo diretto e di profonda amicizia con Napolitano, sa molto bene invece a quali rischi andrebbe incontro il Paese se venissero pubblicate le conversazioni private del presidente. Ne è sembrato consapevole lo stesso successore di Scalfari, Mauro. Il quale, sfidato dal direttore del Foglio Giuliano Ferrara a dire da che parte stesse, se con l’amico Zagrebelsky o con Scalfari-Napolitano, ha appunto citato il «caso di scuola», seguito a ruota da Sofri e da Travaglio: certamente il più grande amico e sodale, mediaticamente parlando, di Ingroia.  

 
 
 

È LA FINE DI UN’EPOCA?

Post n°1619 pubblicato il 27 Settembre 2023 da scricciolo68lbr
 

La biografia dell’ormai defunto (aveva 98 anni) Giorgio Napolitano potrebbe essere riassunta con una parola: servilismo! Infatti dedicò la sua vita alla causa di coloro che volevano speculare sulla millenaria storia e civiltà dell’Italia, sulle sue ricchezze, culturali e perché no anche materiali, da tempo nemesi degli ambienti massonici e liberali. La sua carriera politica probabilmente molti lo ignorano, non iniziò però sotto la bandiera rossa del comunismo, quanto invece sotto quella bandiera nera nel periodo in cui l’ancora giovane “Re Giorgio” era iscritto ai “gruppi universitari fascisti”,  muovendo i suoi primi passi da attore di spettacoli teatrali messi in scena per i citati GUF nei primi anni 40. Nato a Napoli il 29 giugno 1925 da una ricca famiglia liberale – mosse infatti i primi passi nei Gruppi universitari fascisti partenopei, collaborando con il settimanale IX maggio, dove teneva per restare in tema, una rubrica di critica teatrale. Recitò come attore in un paio di piccole parti nella compagnia del Guf, al Teatro degli Illusi presso Palazzo Nobili. Anni dopo ricorderà quelle esperienze avallando la discussa interpretazione di Zangrandi sui Guf come palestre di antifascismo mascherate, tesi che oggi gli storici tendono a vedere in chiave alibistica. Nel 1944, quando le cose per il fascismo volgono al peggio e in Campania già ci sono gli americani, Re Giorgio entra in contatto con un gruppo di comunisti napoletani e a poco a poco il giovane studente partenopeo decide di spostarsi verso altri lidi politici, quelli della causa marxista-leninista e lo fece ufficialmente solo dopo il 1943, durante il crollo del fascismo, in seguito alla decisione di Vittorio Emanuele III di fare arrestare Benito Mussolini.

Quell’arresto diede vita alla sequela di eventi che portò l’Italia a macchiarsi dello sporco affare dell’armistizio di Cassibile.  Napolitano divenne comunista come molti altri ex fascisti che intuirono che in quel passaggio storico per poter fare carriera e salire di rango in futuro era molto più conveniente spostarsi su altre posizioni. Non quelle del partito fascista, e della Repubblica Sociale ma quelle del PCI. Il politico partenopeo divenne così uno dei più spietati e feroci difensori della ortodossia comunista.

Quando gli operai ungheresi scendevano in strada nel 1956 per poter respirare quella libertà che il blocco sovietico loro negava, l’ex capo dello Stato li apostrofava con sommo disprezzo come “sporchi” e traditori della causa della rivoluzione sovietica.

Qualcosa di simile avvenne dodici anni più tardi, quando una nuova rivoluzione scoppiò a Praga nel 1968 e quando i cecoslovacchi provarono a spezzare le catene che li legava a Mosca. Anche in quella circostanza, Re Giorgio rimase fedele alla dottrina dello stato sovietico. Solamente molti anni dopo l’ex presidente mostrò un rimpianto e un ripensamento per le sue posizioni ma non in pochi notarono che quelle di Napolitano erano lacrime di coccodrillo versate per mostrare un pentimento che probabilmente non era né spontaneo né sincero. Se il pentimento fosse stato davvero veritiero esso avrebbe dovuto esserci non negli anni in cui ormai l’uomo era salito ai vertici dell’establishment politico, ma ben prima, quando ancora la sua carriera non lo portò sulle vette della Repubblica.

Negli anni 70 inizia quella transizione dal Napolitano comunista di stampo stalinista, a quello post-comunista di impronta progressista e democratica, quest’ultima nel senso più “deteriore” del termine.

Questo passaggio significò la dismissione dei panni della vecchia ortodossia marxista-leninista per indossare quelli della sinistra liberal-progressista che diventerà poi il perno del potere finanziario degli anni 70. È importante comprendere che non esisteva una vera e reale contrapposizione tra un blocco, quello atlantico, e un altro, quello sovietico. Affermare che quello del secolo scorso è stato un conflitto controllato, all’interno del quale si fronteggiavano due blocchi gestiti dagli “stessi poteri”, non è affatto avventato se si guarda alla genesi del comunismo e alle forze che lo hanno governato, sin dai suoi primi passi. La storia del comunismo rivoluzionario non è stata mai una storia di una filosofia che aspirava a prendere il potere per consegnarlo nelle mani degli operai. Il fumoso e indefinito concetto di “dittatura del proletariato” è una invenzione di Karl Marx, già iscritto alla massoneria come rivelato dal teologo francese Henry Delassus, che serviva solo a creare una opposizione di comodo alla deriva liberal-capitalistica che stava trattando al rango di schiavi i lavoratori europei schiacciati dalla seconda rivoluzione industriale.

Quando poi il comunismo salì al potere nel 1917 nel corso della rivoluzione bolscevica lautamente finanziata dalle banche di Wall Street, si potè vedere quale era la vera anima del comunismo. È una spietata figura senz’anima, votata non alla libertà, bensì all’oppressione, che non ha mai migliorato le condizioni dei ceti più poveri, ma li ha mantenuti ghettizzati, perché non utili alla causa rivoluzionaria. Il comunismo dunque per quanto ad alcuni possa sembrare paradossale, non è altro che l’altra faccia della medaglia del liberalismo. Esso si proponeva di mettere fine allo Stato e alle sue istituzioni quali la famiglia naturale e la religione cattolica esattamente come vuole fare il liberismo, anche se in maniera differente, giocando sull’indifferenza. Queste due ideologie partono dunque apparentemente da punti di partenza diversi per mirare poi verso gli stessi obiettivi. La transizione dal comunismo marxista-leninista alla sinistra liberal-progressista fu il naturale proseguimento della strategia dei poteri finanziari, visto che ormai non avevano più bisogno di una sinistra così radicale, divenuta ormai un ingombrante relitto ai fini dell’avanzamento dei piani del mondialismo. Quando Giorgio Napolitano viene invitato a Washington nel 1978 è perché i poteri che da sempre rappresentano il Deep State (il governo segreto degli Stati Uniti) avevano individuato proprio in lui l’uomo ideale per poter attuare questa transizione in Italia. Mentre l’allora politico comunista, meglio post-comunista, faceva il giro delle istituzioni e dei circoli intellettuali e politici più influenti d’America, quali Harvard e Aspen, in Italia negli stessi giorni Aldo Moro si trovava sequestrato e prigioniero delle Brigate Rosse. Le carriere di Napolitano e Moro sono come due rette divergenti che spiegano perfettamente sia la folgorante carriera politica del primo, sia la morte del secondo, sia la declinante parabola che l’Italia prese dal 1978 in poi.

 

Quando due anni prima del suo rapimento, Moro veniva esplicitamente minacciato da Henry Kissinger, ex segretario di Stato USA e uomo di spicco del gruppo Bilderberg, era perché l’ex presidente della DC aveva una visione tale del Paese che lo rendeva una minaccia intollerabile per l’anglosfera. Aldo Moro aspirava a vedere un’Italia sovrana e non più legata alle catene dell’anglosfera che dal 1943 ha indirizzato e scritto la storia di questo Paese. Una storia di sangue, ruberie e stragi senza le quali l’Italia sarebbe inevitabilmente sfuggita alla morsa atlantica. Così venne decisa la morte di Moro (ricordo le parole dello statista, allorché critico la linea del governo di allora che decise di non trattare mai coi brigatisti, riflettendo sul fatto di come l’Italia avesse sempre vissuto sul compromesso, mentre adesso votava la linea della fermezza) che periva esclusivamente per la sua aspirazione a restituire la sovranità perduta all’Italia. Così spiccava il volo Re Giorgio che invece veniva definito proprio dall’uomo che minacciò Moro, Kissinger, come il suo “comunista preferito”.

 

Gli anni 80 diventano non a caso dopo questo passaggio il cantiere politico nel quale nasce il futuro PDS. A Mosca, l’URSS di un tempo già non esisteva più perché un altro uomo molto amato dall’Occidente liberale, Mikhail Gorbachev, stava accompagnando verso la sua dismissione il vecchio blocco sovietico.

 

Altre ombre giacciono da sempre sulla storia politica dell’ex presidente, ricordiamo in molti ciò che successe in quel lontano 1986, quando la procura di Palermo indagava sulla trattativa tra lo Stato e la Mafia. Dopo la sua rielezione al Quirinale, Giorgio Napolitano vide la chiusura della vicenda attinente alle intercettazioni del Colle con l’ex ministro Nicola Mancinoregistrate nell’ambito dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia. Tutte le conversazioni furono distrutte dal gip di Palermo, Riccardo Ricciardi.

La distruzione dei file audio avvenne nel carcere Ucciardone, dove si trovava il server in cui i file erano conservati. Alle operazioni partecipò anche il tecnico della Rcs, la società che gestisce gli impianti di intercettazioni per conto della Procura di Palermo. “Le registrazioni hanno costituito un vulnus costituzionalmente rilevante” e per questo devono essere distrutte “con procedura camerale”, senza contraddittorio tra le parti, si potè leggere nelle motivazioni della sentenza della Cassazione, che aveva dato il via libera al macero, respingendo il ricorso di Massimo Ciancimino

Quella delle intercettazioni tra il Colle e Mancino è una vicenda lunga, che ha visto numerose tappe. Le telefonate risalivano infatti a fine 2011, ma la storia è divenuta pubblica solo nel giugno 2913. Da quel momento dapprima il conflitto di attribuzione sollevato dal Quirinale nei confronti della Procura di Palermo, poi il pronunciamento della Corte costituzionale a dicembre e infine la richiesta dei pm di Palermo al gip di distruggere le telefonate. Ecco però poi arrivare il ricorso di Massimo Ciancimino, che in quanto parte in causa chiese, in virtù del diritto i difesa, di poter ascoltare le conversazioni. Richiesta ritenuta “inammissibile” dalla Corte di Cassazione, che diede quindi il via libera alla distruzione. 

Il telefono sotto controllo su mandato degli inquirenti era quello di Mancino, in quella fase indagato e oggi imputato di falsa testimonianza: secondo i pm, l’ex ministro, insediatosi al Viminale il primo luglio 1992, sapeva della trattativa e avrebbe mentito sui rapporti tra pezzi dello Stato e pezzi di Cosa Nostra intercorsi nei primi anni ’90. Per lui e per altri undici indagati i pm hanno chiesto il rinvio a giudizio il 24 luglio scorso e l’udienza preliminare è in corso. Mancino, preoccupato per l’inchiesta che lo riguardava, ha compiuto diverse diverse telefonate contattando anche lo stesso Napolitano. Il Capo dello Stato ha ritenuto lese le proprie prerogative e la Consulta gli ha dato ragione. 

 

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Il golpe di Mani Pulite: l’inarrestabile ascesa di Napolitano

Gli anni 90 e quelli successivi sono gli anni della definitiva consacrazione politica di Re Giorgio. La Seconda Repubblica nasce per esplicita volontà di quegli stessi ambienti che avevano deciso che era il momento di disfarsi dell’URSS. La classe politica della Prima Repubblica non serviva più all’impero americano. Essa costituiva anzi una potenziale minaccia perché nel suo grembo c’erano politici quali Giulio Andreotti e Bettino Craxi che erano alquanto riluttanti a tenere ancora l’Italia nell’orbita del Patto Atlantico, soprattutto alla luce della liquidazione dell’URSS che rappresentava la fine della apparente ragion d’essere della NATO.

Cosi nasce “Mani Pulite” con il preciso scopo di attuare un colpo di Stato chirurgico e rimuovere, in un colpo solo, la politica attraverso “la magistratura”, vero e proprio cavallo di Troia delle oligarchie nazionali e internazionali. Tutti vengono seppelliti da arresti a avvisi di garanzia, tranne il PCI ormai già divenuto PDS e pronto ad assumere il ruolo di nuovo garante dello stato profondo di Washington e dei vari circoli sovranazionali della Trilaterale e del Bilderberg. Craxi intuì immediatamente la manovra in atto e provò a denunciare nell’aula giudiziaria del tribunale di Milano, come fosse impossibile che Napolitano non si fosse accorto della enorme mole di fondi neri che transitava dalle casse del PCUS, partito comunista dell’Unione Sovietica, al PCI.

Si parla di somme astronomiche pari a 989 miliardi di vecchie lire. Un fiume di denaro sporco sul quale la magistratura non indagò mai e che invece costò la vita a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino che compresero perfettamente che quella pista avrebbe portato alla probabile incriminazione dei maggiorenti del nuovo PDS. Allo stesso modo, la magistratura chiuse gli occhi anche sulla telefonata tra Napolitano e l’ex ministro dell’Interno, Mancino, avvenuta nel 1992 e nel quale si parlava presumibilmente della trattativa tra Stato e mafia. Una trattativa che apparentemente avrebbe visto lo Stato promettere alla mafia vari benefici in cambio della esecuzione del disegno stragista del biennio 1992-1993.

Un patto scellerato e infame che ha consentito a Matteo Messina Denaro, scomparso nello stesso periodo di Napolitano, di restare impunito e latitante per 30 anni grazie alle indispensabili protezioni della massoneria. Le stragi del 1992 e del 1993, come tutte quelle della storia d’Italia dal 1943, in poi erano state concepite ad un livello superiore che quello nazionale. Esse servivano nell’ottica del patto Euro-Atlantico a destabilizzare l’Italia e produrre quella catena di eventi sovversivi che avrebbero portato l’Italia a firmare Maastricht con la rinuncia alla propria “sovranità monetaria”, seguita dalla dismissione dell’intero patrimonio industriale decisa ed eseguita da Mario Draghi a bordo del Britannia, da Giuliano Amato a palazzo Chigi, e da Romano Prodi. Napolitano in quel frangente storico così come nei decenni successivi sedeva dalla parte dei “vincitori” e nel 2006 arrivò la tanto agognata ricompensa: il Quirinale. Nel 2010 l’ex presidente della Repubblica dimostrò ancora una volta tutta la sua antica e immutata devozione alla causa di quei poteri che già negli anni 70 lo avevano scelto come uno dei loro principali referenti. A palazzo Chigi sedeva allora Silvio Berlusconi, un uomo entrato in politica per tutelare i propri interessi e che tuttavia, in alcune circostanze provò incidentalmente a fare anche quelli del Paese, fino a quando l’insanabile conflitto non fu risolto ovviamente a favore dei primi. Nonostante questo, a Londra, la City dominata dalla famiglia dei banchieri Rothschild aveva deciso che il cavaliere era d’intralcio per l’avanzamento dei piani dell’establishment globalista.

C’era un disegno preciso per l’Italia ed era quello del club di Roma fondato dai Rockefeller. L’Italia doveva morire così come Aldo Moro nel 1978. Al Quirinale viene tessuta quella tela eversiva che portò al rovesciamento di Berlusconi. Napolitano irretì l’ambizioso e da tempo prono alla finanza anglosassone, Gianfranco Fini, e lo convinse a fare una fronda politica nei confronti del suo stesso governo. Anche se Fini negò sempre, mai portò prove per smentire chi parlò di questa sua macchinazione. La macchina era stata messa in moto e Berlusconi venne letteralmente crivellato dai colpi della speculazione finanziaria in borsa, che fecero perdere decine e decine di milioni di euro al patron di Fininvest. Una volta vistosi mettere a repentaglio il suo patrimonio, Berlusconi abdicò e nel novembre del 2011 consegnò lo scettro a Mario Monti, uomo della Trilaterale e del Bilderberg, già scelto nei mesi prima da Goldman Sachs e con il quale Napolitano era in contatto da tempo.

Il golpe ebbe successo perché l’ex presidente della Repubblica rivestì il decisivo ruolo di cavallo di Troia che tramò contro il suo Paese e contro tutto il popolo italiano. Oggi (per chi scrive 27 settembre 2023) il quotidiano La Verità, riporta una intervista a Marco Reguzzoni, 52 anni, che ha ricoperto l’incarico di presidente della Provincia di Varese e poi, dal 2010 al 2012, capogruppo alla Camera dei deputati per la Lega. Reguzzoni conferma le manovre di Gianfranco Fini, la caduta di Silvio Berlusconi, l’arrivo a palazzo Chigi di Mario Monti. Dietro le quinte, anzi sopra, manovrava Re Giorgio Napolitano. Reguzzoni ha raccontato a La Verità i suoi incontri con l’ex capo dello Stato, uno che quando c’era da convincere un politico a fare quello che diceva lui si spingeva anche a PRONUNCIARE FRASI ASSAI SIBILLINE, ACCOMPAGNATE DA COMPLIMENTI AFFETTUOSI. Reguzzoni racconta di avere frequentato molto il capo dello Stato, in quanto era all’epoca, uno dei due capigruppo di maggioranza del governo Berlusconi. Il rapporto con Napolitano ERA ABBASTANZA TESO, in quel periodo. Ad aprile 2010 Fini ruppe con Berlusconi, uscì dal Pdl e formò un gruppo autonomo, Futuro e Libertà, e con Italo Bocchino capogruppo, dichiarò che avrebbe continuato a sostenere il governo. E qui entrò in scena Re Giorgio, che chiamò Reguzzoni al Quirinale e gli disse: “Guarda, adesso il governo non ha più i numeri”. Naturalmente Reguzzoni gli rispose che i numeri erano rimasti invariati, la maggioranza c’era ancora. Nonostante questo Napolitano tentò di convincere Reguzzoni che la maggioranza non c’era più e bisognava cambiare premier, li invitava infatti a proporre un altro nome. Reguzzoni non volle sentire altro dal Presidente della Repubblica. Bossi fu informato dell’accaduto, idem Berlusconi. Pii accadde l’insospettabile: Fini tolse la fiducia al Governo. Eppure il Giverno continuò a mantenere la maggioranza, grazie a Scilipoti e i famosi “responsabili”.  A quel punto Reguzzoni tornò da Napolitano e gli disse che la posizione del gruppo era quello di sciogliere le Camere. Il Governo aveva una maggioranza risicata e per non finire nel pantano, volevano andare a votare. Fini, Casini e Berlusconi non erano dello stesso parere. Napolitano a quel punto disse: “ No, le Camere non le scioglierò mai”. Dopo un lungo discorso a Reguzzoni su tutti i casi precedenti simili a quello, in cui era il Presidente della Repubblica che doveva decidere se sciogliere o meno le Camere, prende sotto braccio Reguzzoni e gli fa: “Ma perchè ti comporti così, sei giovane, sei un ragazzo sveglio, perchè ti metti contro di noi, non metterti contro di noi”. Reguzzoni dice di non avere compreso chi fossero quei “noi” a cui si riferì Napolitano con quelle parole. Solo Berlusconi seppe di questo colloquio. Berlusconi però rimase contento, lui a votare non ci voleva tornare.  Poi però nell’autunno del 2011 arriva Mario Monti al posto di Berlusconi e la Lega assieme a Di Pietro, non gli votano la fiducia. 

 

La visione di Napolitano a questo punto, risulta chiara: non è mai stata quella di onorare e servire la propria patria. Napolitano non aveva una patria se non quella della repubblica universale, di cui vagheggiano tutte le massonerie.

 

Quando l’ex presidente nel 2012 e con Mario Monti già insediato stabilmente a palazzo Chigi affermò chiaramente che era indispensabile marciare verso un “Nuovo Ordine Mondiale” non fece altro che disvelare la sua vera identità politica. La stessa identità politica che caratterizzava personaggi quali Henry Kissinger, Winston Churchill, David Rockefeller, George H. Bush, Nicolas Sarkozy, Angela Merkel e Barack Obama. L’identità di chi ha deciso di essere devoto a quel gruppo di poteri che vuole annichilire la sovranità delle nazioni, per sostituirla con un impero totalitario globale, nel quale la religione cristiana viene messa al bando, così come i suoi praticanti. È lo stesso spirito satanico che ha governato la defunta farsa pandemica. Questi sono i poteri che Re Giorgio ha servito con riverenza e assoluto ossequio per la sua intera vita. E questi sono i poteri che oggi lo celebrano, con le loro insopportabili e false orazioni funebri. Quando lo stato profondo ha provato a imporre un minuto di silenzio negli stadi di calcio la reazione è stata quella di un rigetto di massa, da Nord a Sud.

Il popolo dei tifosi, ha fischiato quel minuto perché non si riconosce e non si identifica con qualcuno che ha preso la sovranità del Paese e l’ha sacrificata sull’altare del mondialismo e del capitalismo finanziario. Il popolo non si riconosce più da tempo, nella farsa delle istituzioni liberal-democratiche. Si chiude con la morte dell’ex presidente, la stagione dei tradimenti. Si chiude la stagione che dal 1992 ha portato al potere una classe politica di comprimari e di saltimbanchi, pronti a tutto pur di compiacere i propri padroni delle élite finanziarie. La storia non ha virato verso il Nuovo Ordine Mondiale tanto atteso da Napolitano e dai suoi sodali. Ha virato verso sentieri opposti dove la sovranità nazionale torna di nuovo al centro dei processi politici e non più ai margini. Quella attuale è una fase terminale dei vecchi equilibri del 1992. 

Forse la storia, con la dipartita di Napolitano, sembra per ironia del destino, voler scandire che quel tempo e quella stagione sono definitivamente volti al termine. Adesso c’è la fase della definitivo sgretolamento degli zombie che rappresentano questa vecchia classe politica. Le autocelebrazioni di un sistema che ha inflitto così tante ferite all’Italia e al suo popolo, sono state scoperte. Il popolo lo ha compreso e ovunque può, grida a gran voce il suo disprezzo  verso questa classe politica marcia e corrotta. 

 

 

 

 
 
 

ORGASMI MULTIPLI FEMMINILI, ESISTONO?

Post n°1618 pubblicato il 26 Settembre 2023 da scricciolo68lbr
 

È davvero possibile riuscire a raggiungere orgasmi consecutivi?

Spesso ne avrete sentito parlare, molti sono scettici, eppure so che esistono davvero e si possono avere regolarmente. Credo che questa potenzialità, tuttavia, appartenga al genere femminile, più che a quello maschile.

Secondo il parere di molti esperti, raggiungere più volte consecutive il culmine del piacere durante un rapporto non solo è possibile, ma è anche alla portata di tutti.

Kim Anami, esperta di relazioni e sesso olistico racconta di aver avuto una cliente che “aveva regolarmente da 30 a 40 orgasmi in una sessione con il suo uomo. Questo potrebbe essere estremo, ma averne da 1 a 5 è assolutamente normale e fattibile per qualsiasi donna”.

Oltre a provocare piacere, l’orgasmo porta una serie di benefici. Chris Rose, educatrice sessuale presso Pleasure Mechanics afferma che “il tatto, il piacere e gli orgasmi hanno tutti una serie di benefici per la salute, tra cui l’aumento del sistema immunitario, la regolazione dei cicli del sonno, l’alleviamento dell’ansia e della depressione e la creazione di benessere emotivo”.

Secondo Rose, più piacere si prova, più il proprio corpo diventa attivo nel rilasciare gli ormoni del piacere, attivando così un ciclo di feedback positivo.

Oltre ai benefici chimici e ormonali, gli orgasmi portano anche a maggiori livelli di liberazione emotiva e apertura alla donna.

Dal momento che avere un orgasmo fa bene, è facile immaginare quanto sia salutare riuscire ad averne due o più nello stesso rapporto sessuale.

A questo punto la domanda è: come riuscire a raggiungere orgasmi consecutivi? Kim Anami e Chris Rose hanno messo a punto una semplice guida per agevolare questo percorso.

Chris Rose afferma: “Molte donne non si lasciano eccitare completamente, e l’eccitazione è ciò che alimenta più orgasmi”.

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Controllare le proprie emozioni

Costruire l’eccitazione e sperimentare orgasmi consecutivi è sicuramente una questione di tecnica fisica, ma il primo passo è impostare i propri pensieri e le proprie emozioni.

“Diventare una donna multiorgasmica è una questione di mentalità più che altro”, dice Rose.

Per prima cosa bisogna credere di essere in grado di poterlo fare, dice Anami.

Il secondo passo è quello di imparare a rilassarsi: “Gli orgasmi più profondi riguardano lo stato di rilascio molto intenso, quindi devi essere disposto a tuffarti nell’ignoto e lasciarti andare”, aggiunge Anami.

“Una volta che il proprio atteggiamento inizia a cambiare, due o più orgasmi potrebbero diventare la normalità”, dice Rose.

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Rallentare l’orgasmo maschile

“La resistenza maschile è fondamentale per le donne che sono in grado di raggiungere più alti livelli di piacere e orgasmo,” dice Anami.

In media, l’uomo impiega da tre a sette minuti per raggiungere il culmine del piacere, mentre alla donna servono tra i 10 e i 20 minuti.

Una discrepanza che i ricercatori chiamano “il divario di eccitazione”.

Ma come si può accorciare questo lasso di tempo? I preliminari incentrati sulle donne sono una delle migliori tecniche, perché permettono di iniziare il percorso di eccitazione prima degli uomini.

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Diventare protagonista dell’esperienza sessuale

Nella maggior parte dei casi, l’uomo è molto contento se la propria partner riesce a raggiungere molti orgasmi: “La maggior parte degli amanti sono generosi e disponibili e si compiacciono nel vedere le loro prtner godere in più di un orgasmo, ma molte donne hanno difficoltà a ricevere così tanta attenzione erotica”, dice Rose.

Se si vuole raggiungere più orgasmi consecutivi, bisogna concedersi “il ​​permesso di essere la protagonista dell’esperienza sessuale”.

Se una donna avverte preoccupazioni come “Sto prendendo troppo tempo” o “Deve essersi annoiato lì sotto”, nessun tipo di stimolazione l’aiuterà a raggiungere il piacere più intenso.

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Aiutare il partner a usare le mani

“Per la maggior parte delle donne, le mani e la bocca del proprio partner sono gli strumenti migliori per raggiungere il picco, quindi è bene assicurarsi che sappia come usarle”, dice Rose (audace!).

È bene mostrare all’uomo esattamente, come si vuole essere "toccate".

“Molte donne adorano la combinazione di sesso orale con ausilio di poche dita dentro. Questo funziona per una buona ragione, poiché questa combinazione gli consente di attivare sia il clitoride esterno sia le sue radici interne “, suggerisce Rose.

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Prendere fiato dopo il primo

“Dopo il tuo primo orgasmo, prenditi un momento o due per assaporarlo appieno prima di iniziare a risvegliare l’eccitazione. Il tuo prossimo orgasmo potrebbe essere a pochi minuti di distanza”, dice Rose.

Concentrati sul tuo respiro: “Quando le persone si eccitano sessualmente, tendono a trattenere il respiro o a respirare veramente superficialmente”, dice Anami.

“Più riuscirai a praticare una respirazione profonda e costante, più ti rilasserai e rimarrai nel momento presente e aumenterai anche la potenza e il piacere del tuo orgasmo”.

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Cerca un tipo di rapporto orgasmico

“Una volta arrivata all’apice, continua la stimolazione del clitoride”, suggerisce Rose.

La maggior parte delle donne non raggiunge l’orgasmo dal sesso penetrativo, ma può solo arrivare all’apice dalla stimolazione del clitoride, come riportato da uno studio pubblicato sulla rivista Clinical Anatomy.

“Per la maggior parte delle donne, questo è il modo in cui si possono raggiungere orgasmi completi (e consecutivi) durante il rapporto sessuale”, aggiunge Rose.

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Mantenere la connessione

Sentirsi sulla stessa lunghezza d’onda del proprio partner può aiutare molto.

“Mantenere il contatto visivo con lui è qualcosa di molto profondo, ma questo ti costringe anche ad essere più vulnerabile e aperta, che è la chiave per raggiungere queste profonde esperienze orgasmiche”, spiega Anami.

E una volta raggiunto il secondo orgasmo, le porte sono spalancate: “se puoi averne due, puoi averne tre, quattro o più! Non c’è limite al numero di orgasmi che una donna può provare”, dice Rose.

 
 
 

BISOGNA ABBATTERE IL VECCHIO PER POTER COSTRUIRE IL NUOVO!

Post n°1617 pubblicato il 25 Settembre 2023 da scricciolo68lbr
 

Le vicende susseguite ai funerali di Napolitano, con tanto di valanghe di insulti sul web da parte della gente comune, ha evidenziato. se mai ce ne fosse bisogno, quale distacco si è venuto a creare tra i comuni cittadini e la classe politica italiana, marcia e putrescente, oggi più che mai. Il sistema partitico italiano sin dagli inizi degli anni Cinquanta si è caratterizzato per un’estrema rigidità della sua struttura e della sua organizzazione. Tale sistema si è poi consolidato e protratto anche quando l’istituzionalizzazione del sistema democratico non richiedeva più quell’eccessiva stabilità che spesso si è tradotta in “immobilismo e inerzia del sistema stesso”.  Nel corso della storia repubblicana italiana, ai tradizionali partiti del secondo dopoguerra si sono affiancati soggetti politici e movimenti di matrice localista o di natura antisistemica, sorti negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, potenziali portatori di ideali e messaggi, espressione di un determinato momento storico. Le divisioni sociali, politiche e culturali, la separazione politico-ideologica imposta dal contesto internazionale della guerra fredda, e un sistema elettorale che garantiva la rappresentanza parlamentare anche con un numero molto esiguo di voti, hanno caratterizzato per decenni il sistema politico italiano. Il sistema partitico era contraddistinto da una bassissima volatilità e da un’elevata stabilità elettorale, da un’organizzazione dei partiti fin troppo ben definita e da una identificazione dei partiti con specifiche tematiche che si traducevano in messaggi e proposte precisi e ben distinguibili. L’identificazione partitica è sempre stata un valido strumento di rilevamento dei legami tra partiti e società civile; ideologia e polarizzazione, elementi sostenuti dalla propaganda di partito, sono stati i principali mezzi di catalizzazione del consenso. Oggi tutto questo non funziona più, le persone avvertono un distacco non più colmabile rispetto ai soggetti politici, nonostante ci siano stati tentativi di portare qualche novità nel panorama politico, rovinosamente naufragato, vedi l’esperienza tragicomica del M5S. Quindi? Oggi si avverte l’esigenza, per molti certo non per tutti, di evitare di affidarsi, tramite il consenso elettorale, a individui spesso poco preparati, nel migliore dei casi, quando a personaggi scaltri e legati a poteri forti o alla malavita, nel peggiore dei casi. Il popolo sente il bisogno di contare di più, di smetterla di assistere in maniera deludente, alle scialbe performance dei politici di turno, che promettono e propongono programmi elettorali ambiziosi e basati sulla difesa e valorizzazione delle classi più basse, quanto poi rimangiarsi tutto e adottare provvedimenti non condivisi neppure dalla base dell’elettorato di chi è confluito al potere. Insomma c’è da ripensare tutto, individuare una forma e modello nuovi di governo del Paese, dove le scelte non siano solo fatte da persone “contrattualmente” abilitate per un quinquennio a governate il Paese, nel bene e nel male. Tutto questo, al di là degli sviluppi a cui assisteremo fa ben sperare che si possa verificare quel cambiamento nelle forme di governo del Paese, più vicine alle esigenze di tutti, rispettose della Carta Costituzionale, che fino a che è in vigore, va onorata e rispettata, rispettose delle norme basilari etiche e morali, e non solo dettate da esigenze meramente economiche.

 
 
 

CROSETTO CRITICO VERSO LA GERMANIA!

Post n°1616 pubblicato il 25 Settembre 2023 da scricciolo68lbr

Il ministro Crosetto: "La Germania non è un Paese amico, grave che paghi le Ong"

Il ministro della Difesa, intervistato da La Stampa, accusa Berlino di avere un "approccio ideologico" che "ci mette in difficoltà" e chiede un cambio di rotta a livello europeo.

"Grave che Berlino paghi le Ong, la Germania non è un Paese amico". Lo afferma in una intervista a La Stampa, il ministro della Difesa Guido Crosetto. "Ha un approccio ideologico - aggiunge - ci mette in difficoltà. Parigi blocca le frontiere e nessuno dice niente, l'Europa spesso sbaglia strategie".

Secondo Crosetto, "I problemi del governo, in questo momento, sono l'immigrazione, l'inflazione e l'economia. Su questi grandi temi non possiamo agire da soli". Agli scafisti, secondo il ministro, "bisogna togliere la certezza di poter condurre i loro traffici senza che nessuno li fermi. Superato un certo limite, diventa quasi un atto di guerra. Serve però un cambio di approccio a livello europeo. Vedo che i francesi bloccano con militari e polizia le frontiere, eppure nessuno dice niente".

Come fare? "Non si può utilizzare la Marina. Senza una autorizzazione a riportare le persone da dove sono patire, finiremmo per fare il gioco dei trafficanti di esseri umani e il lavoro delle Ong. Gli scafisti vanno tratti alla stregua di criminali internazionali".

Rispondendo alla domanda sul fatto che la Germania finanzierebbe una Ong per salvare le vite nel Mediterraneo, Crosetto rincara: "È molto grave. Di fronte alla nostra richiesta di aiuto questa è la loro risposta? Noi non ci siamo comportati allo stesso modo quando Angela Merkel convinse l'Ue a investire in Turchia miliardi di euro per bloccare i migranti che arrivavano in Germania dal Medio Oriente". Crosetto non vede un disegno: "È l'approccio ideologico di una certa sinistra che non tiene conto delle conseguenze delle loro teorie sui popoli. Lo stesso approccio dimostrato dall'ex commissario europeo Frans Timmermans con la sua politica industriale per l'Ue che si rivelerà distruttiva". 

 
 
 

MACRON TENDE LA MANO ALL’ITALIA?

Post n°1615 pubblicato il 25 Settembre 2023 da scricciolo68lbr
 
Tag: #macron

Macron un Presidente in calo di popolarità, visto che diversi stati Africani stanno espellendo i diplomatici e i militari francesi dai propri territori, vedi il Niger, ad esempio.

Sui migranti, Macron tende la mano a Meloni: "L'Italia non va lasciata sola". 

La premier italiana Meloni: "Accolgo la proposta di lavorare insieme". In un'intervista alle tv il presidente francese invita Roma a risolvere insieme la questione migratoria: "L'Italia si sta assumendo le sue responsabilità e sta svolgendo il suo ruolo di primo porto sicuro".

Dopo le tensioni con la Germania sulla scoperta che Berlino finanzia le Ong che salvano i migranti nel Mediterraneo, sullo stesso tema Roma incassa il disgelo con la Francia. L'Italia, ha detto il presidente Emmanuel Macron in un'intervista il giorno dopo l'incontro con il Papa a Marsiglia, "non va lasciata sola": per questo, Macron ha teso la mano alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni proponendole di lavorare insieme.

"L'Italia si sta assumendo le sue responsabilità, ha fatto una scelta forte e sta svolgendo il suo ruolo di 'primo porto sicuro" ma, ha detto Macron, "la risposta deve essere europea''. L'apertura è stata accolta dalla premier "con grande interesse".

"È evidente che Italia, Francia e UE debbano agire insieme per sostenere gli Stati di origine dei migranti e per aiutare gli Stati di transito a smantellare le reti criminali di trafficanti di esseri umani. È la direzione che il governo italiano ha già intrapreso e che vuole perseguire insieme alle istituzioni europee e ai propri alleati europei", ha commentato Meloni.

Le affermazioni del capo dello Stato francese erano una risposta al Papa che a Marsiglia ma anche oggi ha continuato a riproporre il suo appello contro l'indifferenza nei confronti dei migranti.

"Ha ragione - ha osservato Macron - ma credo che noi francesi facciamo la nostra parte, e non possiamo accogliere tutta la miseria del mondo", ha aggiunto, citando una celebre frase pronunciata dall'ex primo ministro socialista Michel Rocard nel 1989.

Secondo Macron, serve che l'Europa e i Paesi come Francia e Italia assieme abbiano "un approccio coerente con i Paesi di origine. La maggior parte dei migranti proviene dall'Africa subsahariana, dove i Paesi hanno aiuti allo sviluppo. Dobbiamo dire 'vi aiutiamo, ma dovete aiutarci a smantellare le reti'" dei trafficanti.

Un secondo strumento per affrontare la questione riguarda invece i Paesi di transito, come Tunisia e Algeria: "Voglio esportare in quei Paesi esperti e attrezzature" per smantellare le reti" di traffico di migranti, ha detto. "Voglio proporre partenariati e risorse per impedire a queste persone di partire. E quando arrivano, dobbiamo avere una politica europea".

Tensione con la Germania

Di tutt'altro tenore il clima dello scambio a distanza fra Roma e Berlino: al ministero degli Esteri tedesco che ha rivendicato la correttezza del finanziamento alle Ong di ricerca e salvataggio in mare dei migranti, ha risposto il ministro della Difesa Guido Crosetto in prima persona, dicendo che si sarebbe aspettato "aiuto e solidarietà in un momento di difficoltà, come abbiamo l'abitudine di fare noi italiani con tutte le nazioni, quando sono in difficoltà".

"A noi italiani viene naturale. Per quanto riguarda i salvataggi in mare, voglio rammentare agli amici tedeschi che quelli effettuati dalle Ong rappresentano appena il 5%". All'Agi, Crosetto ha detto che "anche l'Italia salva, e ha salvato, migliaia di persone, anche senza l'aiuto delle Ong. Far finta che le migrazioni si affrontino solo finanziando le Ong e non stando accanto alle nazioni amiche è un modo poco congruo" di affrontare il problema".

Il ministro degli Esteri Antonio Tajani andrà a Parigi, dove era intenzionato a dire alla omologa Catherine Colonna che "la Francia sbaglia" sui respingimenti a Ventimiglia, secondo quanto ha detto in un'intervista precedente alle dichiarazioni di Macron. Il capo della Farnesina andrà anche a Berlino, giovedì: parlerò con la mia collega tedesca della decisione del governo tedesco di finanziare le ong. È un atteggiamento strano, cercheremo di capire perché si muove in questa maniera", ha aggiunto il vicepremier. "Il problema c'è ma va affrontato in maniera solidale, non in modo egoistico. La frontiera sud dell'Europa siamo noi".

 
 
 

LA PRIMA VOLTA DI UN PAPA IN SENATO!

Post n°1614 pubblicato il 25 Settembre 2023 da scricciolo68lbr
 

La prima volta di un Papa in Senato per Napolitano .

Il Pontefice ha sorpreso le centinaia di persone in fila dinanzi a Palazzo Madama per entrare nella camera ardente. Ha salutato la signora Clio e i familiari del presidente emerito.

l'arrivo a sorpresa di Papa Francesco a rendere il senso della 'portata' della giornata. Il Santo Padre arriva al Senato poco dopo le 13, annunciato dagli applausi dei cittadini radunati all'esterno del Senato (stessi applausi riservati al Capo dello Stato Mattarella). Il Pontefice, accolto da La Russa, fa il suo ingresso nella sala Nassiriya in carrozzella, poi si alza con l'aiuto del bastone e si dirige dai familiari, rende le condoglianze alla moglie Clio e i figli. Poi, in piedi, si pone di fronte alla bara e rimane in raccoglimento e preghiera a lungo.

Quindi il Papa si risiede sulla carrozzella e prima di andare via rimane ancora a lungo in raccoglimento e preghiera davanti al feretro. È la prima volta che un Papa entra a palazzo Madama. Prima di andare via, a bordo della 500 bianca, Papa Bergoglio tiene a lasciare la sua testimonianza sul libro delle presenze: "Un ricordo e un gesto di gratitudine a un grande uomo servitore della patria", scrive in un foglio intestato del Senato.

"È la prima volta che un Santo Padre ha varcato la soglia del Senato, lo ha fatto per rendere omaggio al presidente emerito e, come mi ha detto, a tutta l'Italia", spiega poi La Russa. "Per noi è stato un onore", aggiunge.

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dille piano...
tante volte rimangono
fanno male anche se dette per rabbia
si ricordano
In qualche modo restano.
Le parole, quante volte rimangono
le parole feriscono
le parole ti cambiano
le parole confortano.
Le parole fanno danni invisibili
sono note che aiutano
e che la notte confortano.
                                  i
 
 

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