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Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

 

Tutte le vite di Nadia

Post n°4044 pubblicato il 26 Luglio 2024 da namy0000
 

2024, Scarp de’ tenis, Intervista, Giugno

Nadia Nadim. Dagli orrori di Kabul al grande calcio. Tutte le vite di Nadia

Nadia Nadim ha 36 anni, ma ha vissuto molte vite. Aveva 12 anni quando è scappata dall’Afghanistan dove il padre – generale dell’esercito – era stato ucciso dai talebani e la sua famiglia era in pericolo.

Un lunghissimo viaggio da clandestina, molte tappe e altrettanti pericoli. Poi, l’arrivo in Danimarca, il campo profughi, l’attesa dell’asilo politico. Finalmente, la Danimarca li accoglie: lei, la madre e le quattro sorelle possono tornare a immaginare un futuro. Nadia diventa calciatrice, entra nella nazionale danese e gira il mondo nei club calcistici femminili, Francia, Stati Uniti, Inghilterra. Adesso è approdata al Milan, con lo zampino di Zlatan Ibrahimovic, ora dirigente rossonero.

Non è tutto. È ambasciatrice per l’Unesco, per Forbes è fra le venti sportive più potenti al mondo. Conosce otto lingue e sta imparando l’italiano. Due anni fa si è laureata in medicina.

Partiamo dalla tua storia, dai tuoi genitori. Cosa pensi di aver ereditato?

Mio padre veniva da un piccolo villaggio e fu il primo a frequentare la scuola. Penso di aver ereditato da lui la mia freddezza nelle situazioni difficili, quando tutto intorno a me sembra non essere gestibile riesco a mantenermi calma e concentrata sull’obiettivo. Anche la disciplina custodisco di lui. Mia mamma ora non c’è più. È morta due anni fa in un incidente stradale. Lei era una combattente, non si è mai arresa. Non aveva timore di dire quello che pensava. Mi diceva: «Se vuoi dire qualcosa puoi farlo, anche se questo potrebbe significare non essere capiti e ricevere odio».

Con tua madre e le tue sorelle hai affrontato il grande viaggio dei migranti…

Siamo state portate inizialmente dall’Afghanistan al Pakistan in un piccolo minivan. Siamo rimaste lì per circa un mese in attesa dei passaporti pakistani. Da Islamabad siamo partite alla volta di Milano, poi abbiamo ripreso il viaggio sul retro di un camion, prima di arrivare in Danimarca. Ricordo che mi sentivo sempre in modalità di sopravvivenza: non capisci esattamente tutto quello che ti circonda. Ma sai che si tratta di una situazione seria. Sapevo di dover stare zitta per il resto della giornata quando mia mamma me lo ordinava. Durante il viaggio avevo paura, ansia, eravamo affamate, avevamo freddo. Non sai cosa ti accadrà, ma sei così disperata che metti la tua vita nelle mani di persone che non hai mai incontrato prima. Ciò che mi ha dato coraggio è stata la presenza di mia madre. Sentivo che fino a quando lei fosse stata con me, non poteva accadermi nulla.

In Danimarca, l’approdo nel campo profughi, luogo di sospensione di vita per milioni di persone…

La nostra richiesta di asilo politico è stata accolta in soli nove mesi. Ma sapevo che c’erano persone che erano in quel campo già da cinque, sei anni. Io, dopo tanto tempo, nel campo potevo essere ancora una bambina e camminare senza la paura di quello che sarebbe accaduto. Lì, la guerra, non arrivava. Nel campo ho scoperto il calcio e ci giocavo tutti i giorni. Allo stesso tempo, però, capivo quanto quella situazione avesse colpito mia mamma. Perse molto peso, probabilmente era caduta in depressione. Pensava a cosa ci avrebbe riservato il futuro se ci avessero fatti tornare indietro. Deve essere stato devastante per lei e per qualsiasi adulto di un campo profughi. Con gli occhi di bambino, invece, non pensi davvero al futuro, ma solo a cosa accade in quel momento.

Cosa ne pensi delle politiche europee sui migranti?

È una domanda difficile a cui rispondere. Mi sento però di dire una cosa, ogni essere umano merita una seconda possibilità. Sappiamo bene, guardando alla storia mondiale, che l’immigrazione di massa è sempre causata dalla guerra. Nessuno, infatti, vuole davvero andarsene da casa, dalla famiglia, lasciare la propria identità e partire per una parte di mondo senza sapere cosa accadrà in futuro. Nessuno lo farebbe senza un reale motivo. Per me la definizione di umanità è quando aiuti a rialzarsi chi è caduto e non ce la fa.

È per questo, forse, che sei voluta diventare medico?

Volevo essere in una posizione in cui avrei potuto aiutare le persone, avere un impatto sulla vita degli altri. È una cosa bellissima, una responsabilità. Conosco l’importanza di aiutare uno sconosciuto. Quando cammini per strada e incontri una persona, mostra un sorriso, perché quel sorriso può aiutare un altro essere umano. Sono stati piccoli gesti di gentilezza che hanno avuto effetto su di me, e volevo ricambiare. Inoltre, mi piace essere in una sala operatoria, capire come funziona il corpo umano.

E poi c’è il presente. In Italia.

So che il calcio qui è un fenomeno enorme. Mi incuriosiva la cultura, le tradizioni e la lingua. E il Milan è un club storico, fra i più grandi d’Europa. Farne parte è un onore, mi piace essere a Milano. Gli italiani sono molto aperti e appassionati. E questo è qualcosa con cui posso identificarmi perché sono cresciuta tra due culture, quella afghana e quella danese, ma sicuramente la prima è più simile a quella italiana, come calore. Quando sono qui, è quasi come essere tra la mia gente.

C’è qualcosa che ti amareggia però…

C’è un grande divario tra il calcio maschile e femminile, dal punto di vista del pubblico e degli investimenti. Ma è anche vero che il calcio femminile è cresciuto molto negli ultimi 10 anni. Però c’è ancora una parte del mondo, anche in Europa, dove ci sono pregiudizi e persone che pensano che le donne non debbano giocare a calcio. Ma sono ottimista, siamo sulla strada giusta e spero che in futuro sia le bambine che i bambini possano avere le stesse opportunità, le stesse possibilità di accesso. Poi ognuno deve lottare e lavorare per raggiungere gli obiettivi, partendo però dalle stesse opportunità.

Nelle tue molte vite hai incontrato il dolore. Cos’è per te la felicità?

Per me è la libertà, essere sani, stare vicina alla famiglia. La felicità è per me fare la differenza, aiutare le persone intorno a me ed essere una voce per coloro che voce non hanno. Questo mi rende felice, perché mi ricorda la mia umanità. Sono grata alla vita. Quando mi sveglio ogni giorno e vedo il sole sono grata di essere viva, che ci sia del cibo, grata di essere in buona salute e di poter avere un impatto sulla vita delle altre persone.

 
 
 

L'amore vero è per sempre

Post n°4043 pubblicato il 23 Luglio 2024 da namy0000
 

2024, FC n. 29 del 21 luglio

L’amore vero è per sempre

La storia di mio zio Paolo (del 1941) e di sua moglie, zia Gianna (1946-2024), che hanno passato 58 anni di matrimonio e altri 5 di fidanzamento, essendosi sposati nel santuario di Santa Maria delle Grazie a Rocca Pietore (Belluno) nel 1966.

Paolo, nato nel cuore delle Dolomiti sul versante destro del Lago di Alleghe, e Gianna, nata su quello sinistro, si sono conosciuti in una sala da ballo nel piccolo villaggio di Caprile e si sono innamorati a prima vista e fidanzati quando lei aveva 16 anni e lui 21. Da allora sono rimasti sempre insieme, coronando il loro amore con 3 figlie e vari nipotini. Paolo nel 1951 si trasferì con il padre a Palmanova (Udine), dove il genitore aveva aperto una pasticceria, che alla sua morte, avvenuta solo 10 anni più tardi, portò avanti con passione insieme al fratello Ivano. Una decina di anni fa Gianna scoprì le prime avvisaglie dell’Alzheimer. Dopo le prime fasi della malattia, una sera, appoggiandosi alla spalla del marito, gli ha sussurrato: «Paolo, ricordami nella buona e nella cattiva sorte». Lui, con gli occhi gonfi di lacrime ha ripetuto la promessa fatta e le ha detto: «Grazie Gianna per tutto l’amore che mi hai dato e per l’intesa che c’è sempre fra noi e per quanto mi saprai ancora dare». Da quel momento si è preso ancora più cura giorno per giorno di lei fino a quando, circa 5 anni fa, la situazione, divenuta ingestibile da casa, ha costretto la famiglia ad affidarla a un’ottima struttura a Desio, dove è stata curata con amore dal personale. Da quel momento Paolo non ha mai fatto mancare la sua presenza alla sua adorata moglie, andando a trovarla due volte al giorno. La portava a passeggiare, le leggeva le lettere di quando erano fidanzati. Durante il Covid si vedevano attraverso lo schermo. Il primo incontro personale dopo la pandemia è stato molto commovente: nonostante la malattia, Gianna lo ha subito riconosciuto e lui le ha portato il primo giorno una rosa rossa “perché è il colore dell’amore”, poi una rosa gialla “perché era il colore che entrambi amavano” e, il terzo giorno, una di colore rosa in modo che vedendola si ricordasse sempre di lui.

Un mese fa Gianna ha fatto ritorno alla Casa del Padre, circondata da tutto l’amore del marito che non l’ha mai lasciata, dalle figlie e dai nipotini. Nonostante la sofferenza, la fede e l’amore sostengono la speranza di Paolo di poter un giorno rivedere e riabbracciare la sua Gianna, con cui continua ogni giorno a parlare sentendola vicino e ringraziando Dio per la grazia di questo splendido matrimonio. “Nella buona e nella cattiva sorte”. – Loris S.

 
 
 

Imparare a camminare e imparare ad amare

2024, don Maurizio Praticiello, 20 luglio

Wilma, Mario e la lezione di vita al loro funerale

La celebrazione del funerale giunge a termine. È stato un momento forte, impregnato di commozione, emozioni, dolore, preghiere. Prima della benedizione finale, sorretto da un confratello, un anziano sacerdote, sale sull’Altare per dire una parola. È il confessore di Wilma e Mario, i coniugi salernitani che, qualche giorno prima, hanno perso la vita in un orribile incidente stradale. Erano due avvocati ancora giovani, impegnati nel sociale e nella lotta per i diritti dell’uomo. In città erano stimati e benvoluti. La loro morte, fulminea, devastante, ha scosso l’intera comunità. Le famiglie sono distrutte. La chiesa è gremita. Sul sagrato, coloro che non hanno trovato posto tra le navate, attendono la fine della Messa per l’ultimo saluto. Il vecchio prete fa fatica a parlare. È malato, deambula sorreggendosi a un carrello, ma, soprattutto, si nota che è emotivamente coinvolto. Non era un semplice amico dei defunti. A lui, Wilma e Mario, per anni, hanno aperto l’animo, permettendogli di scendere in quegli abissi dove essi stessi non avrebbero potuto. Il rapporto che si crea tra il penitente e il padre spirituale non si può facilmente raccontare. I due sono – come dire – legati a un doppio filo. Il penitente sa di poter, a qualsiasi ora del giorno e della notte, bussare alla sua porta e riversare sul suo cuore i peccati, i dubbi, le ansie, le paure che lo affliggono. Il confessore sa di dover essere attento alla voce dello Spirito per consigliare, indirizzare, discernere. Di suo, don Antonio non dice molto. Sceglie, invece, di far parlare loro, i defunti. Mario stava combattendo contro il cancro. Era stato operato. Pochi giorni prima di morire, scriveva: «Don Antonio caro, la malattia mi ha scatenato un’ostinazione, tirando fuori tutta la forza nascosta. Dentro il tunnel della tac, della bet, della risonanza magnetica, ho avuto come luce Gesù. Dopo l’operazione ho dovuto imparare di nuovo a respirare, mangiare e camminare. Mi sono sentito, a un tratto, vulnerabile, scalfito nelle mie certezze». Gesù, luce nel tunnel. “La tua Parola è lampada ai miei passi, luce sul mio cammino”. Gesù, datore di forza e di speranza. “Il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto” La malattia portatrice di sconforto e di dolore ma anche ostinata cercatrice di forze nascoste. “Anche se vado in una valle oscura non temo alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza”. Ma come vive Wilma il doloroso calvario che l’amato sposo sta salendo? In che modo riesce a condividerne la sorte? Eccola, ancora una volta, fare ricorso al prete di cui si fida: «Caro don Antonio, sento il bisogno, in questo periodo, di riposare, non il corpo, bensì il cuore. La malattia di Mario mi ha completamente assorbito. Mi sembra di essere diventata madre di un figlio cresciuto in anni ma ritornato bambino». Continua, lei che non ha potuto gustare la gioia della maternità: «Non so come siano i dolori di una madre che partorisce, in questo periodo l’ho imparato… Probabilmente Mario ti ha detto che ha dovuto imparare a camminare, a mangiare, a muoversi. Io ti dico che ho imparato ad amare. Sono due cose semplici, imparare a camminare e imparare ad amare, quando ci s’ impegna. Io ho voluto impegnarmi perché penso sia la cosa più bella quella di amare». Che lezione di vita. Imboccando, sabato mattina, l’autostrada per Salerno e poter prendere parte al funerale di questa coppia, parente di un caro amico, chissà, magari avrò pensato di dover compiere un dovere. Il dovere di un prete che corre a dare conforto a un amico sul quale si è abbattuta una tragedia immane. Forse come me tanti altri presenti alla celebrazione avranno pensato la stessa cosa. Non sapevamo, non potevamo sapere, invece che stavamo andando a prendere parte a una altissima lezione di vita. Wilma e Mario hanno lasciato a tutti, parenti e amici, il loro testamento spirituale. Rileggiamolo. Meditiamolo. Facciamone tesoro. Mettiamolo in pratica.

 
 
 

La profezia di don Piero Tubino

2024, Scarp de’ tenis, Aprile

La profezia di don Piero Tubino, (1924/2012) (88 anni), “fondatore” della Caritas genovese. 

A 100 anni dalla nascita.

Don Piero, a partire dall’adolescenza, vissuta durante la seconda guerra mondiale, fino agli ultimi istanti della sua vita, ha creduto fermamente nella costruzione della pace, anche e soprattutto attraverso l’educazione dei più giovani che ha sostenuto nella scelta dell’obiezione di coscienza al servizio militare, indicando loro l’impegno fra gli ultimi come modo efficace di difesa del territorio.

C’è un filo rosso che accompagna la sua vita: dal bombardamento del 1941 durante il quale sono morte la zia e due cugine, al dialogo con tutti nella parrocchia operaia di Borzoli, dagli interventi nelle emergenze alla ricerca di dialogo negli anni di piombo, dal sostegno alla lotta dei pacifisti genovesi contro la mostra navale bellica, a “Mir Sada”, la marcia su Sarajevo durante la guerra nei Balcani. E infine… finito l’incarico di direttore Caritas, continuò a organizzare viaggi in luoghi in cui fossero evidenti le ferite della guerra.

I giovani del Campobase Caritas hanno scritto: “Caro don Piero… tu sei stato fratello del fratello che soffre, non ti sei mai fermato e ci hai insegnato a fare lo stesso. La tua testimonianza è presente oggi in coloro che si impegnano a valorizzare, in tanti modi possibili, il racconto di una vita autentica. Grazie per averla donata a tutti noi”.

Nel 2012 don Piero ha concluso la sua esistenza terrena. 

don Piero individuava i segnali di un’aurora risvegliata nella denuncia delle situazioni di ingiustizia e nella solidarietà di chi non si rassegna

Il presente momento storico sembra ancora più drammatico tra strascichi della pandemia, disuguaglianze economiche e sociali, “terza guerra mondiale”; diventa urgente svegliare l’aurora, dare voce ai segnali di nonviolenza, di fraternità, di costruzione di possibili alternative.

“Che cosa impedisce di vedere la ‘novità’ della pace in un giovane che sceglie il servizio nonviolento? Che cosa fa scartare a priori i tentativi dei pacifisti per aprire nuove strade di intesa alternative al solo confronto delle armi?” Queste domande sono state poste da don Piero Tubino in un editoriale di Caritas Notizie del giugno 1993.

Si era ancora nel pieno della sanguinosa disintegrazione della “ex Jugoslavia”; dopo pochi mesi, nel 1994, per la seconda volta una carovana di pace cercò di raggiungere Sarajevo per testimoniare solidarietà agli assediati e ribadire il no alla guerra. Mir Sada (Pace subito) era lo slogan. Don Piero era tra loro.

Per accettare un immigrato dal Terzo Mondo o un uomo senza fissa dimora di appena 35 anni o un tossicomane che non ce la fa a decidere di non “bucarsi”, o il detenuto che entra ed esce di carcere, bisogna riuscire a... riconoscersi in loro; essi rappresentano una parte che è pure in noi; sono una faccia della nostra umanità, scoperta, nuda, senza
difesa, senza facciata e senza ipocrisia. Essi mi portano la verità della loro povertà che è pure la mia e nell’offrire loro un po’ di ragioni per vivere mi confermo che la vita e la speranza

Don Pstate scritte da don Piero Tubino – “fondatore” della Caritas Genovese – nel lontano 1987.

«Ci facciamo una chiacchierata?». Quando vedeva un vuoto di umanità da colmare, un valore da far crescere, una povertà da accompagnare, don Piero Tubino ti cercava e ti rivolgeva questa domanda. E così, nel corso di una vita, don Piero ha saputo coinvolgere generazioni di genovesi, con particolare cura verso i giovani, aiutando la chiesa a superare la carità come elemosina e la città a stringere nuove relazioni di solidarietà.

I poveri, gli emarginati, i malati, la pace come tensioni fondamentali. Il Vangelo sempre alla fonte di mille proposte in grado di coinvolgere e rispettare anche i non credenti. Una spiritualità asciutta, profonda e concreta e il sopracciglio quasi sempre alzato su uno sguardo capace di essere al tempo stesso austero ed intimo, immerso nel quotidiano e profetico.

Per tutto questo e molto di più, Genova lo ricorda a 100 anni dalla nascita con una serie di iniziative promosse dall’associazione che ne porta il nome. Tra queste, in particolare, un’associazione a lui dedicata che è nata un anno dopo la sua morte.

Don Piero è stato fondatore e primo direttore della Caritas diocesana di Genova, membro di presidenza della nascente Caritas Italiana sotto la direzione degli amici. Ancora prima, e poi contestualmente, don Piero è stato direttore della Fondazione Auxilium…

Don Piero ebbe con don Giuseppe Siri, divenuto poi arcivescovo di Genova, un rapporto di obbedienza e conflitto e così fu anche con il primo direttore di Auxilium: «Tubino fa di testa sua», lo avvertì Siri quando questi lo volle comunque al suo fianco nel 1957. I cambiamenti maturano anche grazie alle scelte di chi non li ha ancora compresi: «Monsignor Cicali mi affidò responsabilità e fiducia ma aveva una visione assistenzialistica dell’intervento caritativo», ricorda don Piero «mi strattonava un po’. Non fu facile. Gli scontri con Cicali non erano che l’avvisaglia di un cambiamento in corso di cui avevamo tutti una vaga percezione».

Don Piero Tubino fu appunto al centro di questo cambiamento… don Piero fu al centro del cambiamento senza porsi al centro, anzi esercitando la capacità di far crescere la partecipazione, l’impegno, le esperienze di comunità…

Verso i giovani don Piero ebbe una particolare attenzione, come padre e compagno di viaggio. Insieme a tutta la Caritas nazionale, li accolse e li promosse come obiettori di coscienza e come volontarie dell’anno di volontariato sociale, quando la società e la chiesa li rifiutavano. Li accompagnò in numerosi viaggi nei Paesi poveri, come educazione alla Giustizia e alla Mondialità, in pellegrinaggio ai campi di concentramento e di sterminio nazisti, palestra di memoria e di corresponsabilità per il presente, nei campi di solidarietà con i Paesi colpiti da guerre, specie dei Balcani, nelle grandi calamità, le alluvioni genovesi, i gemellaggi con Venzone in Friuli e Colliano in Irpinia colpite dai terremoti.

Li sostenne nelle proteste che portarono alla fine della mostra navale bellica a Genova. Condivise il loro percorso, quale che fosse il loro punto di partenza. E oggi molti di loro, credenti e non, ne portano l’eredità nelle scelte di vita, spesso in ruoli di pubblica rilevanza.

 
 
 

La biblioteca Ostinata

Post n°4040 pubblicato il 17 Luglio 2024 da namy0000
 

2024, Scarp de’ tenis, Aprile

Biblioteca Ostinata

La sfida di Paolo: spazio gratuito e aperto a tutti

Nell’era della digitalizzazione sfrenata, c’è chi punta ancora sul valore che la lettura di un libro può avere, sia in termini culturali sia sociali. A farlo è Paolo Prota Giurleo, ex amministratore delegato di Autogrill, da sempre appassionato di libri. Da molti anni desiderava condividere parte del suo ricco patrimonio librario con la comunità della sua città, Milano, ma non riusciva a concretizzare questo sogno.

Fino al dicembre 2022, quando proprio nella via dove abita, in via Osti a pochi passi dall’università Statale, si rendono disponibili due locali. È l’occasione giusta per dare finalmente concretezza al suo progetto. Nasce così la biblioteca Ostinata, un luogo dall’atmosfera calda e accogliente che offre cultura e socialità. Curiosando sul sito, colpisce il claim “una biblioteca libera e aperta a tutti” dove sono a disposizione del pubblico 4.000 libri. Alla biblioteca Ostinata, però, non si troveranno sempre gli stessi libri: i volumi presenti saranno ciclicamente sostituiti con altri non ancora esposti. L’offerta della biblioteca Ostinata quindi non sarà mai definitiva, ma in continuo divenire.

Perché questa definizione?

Perché riflette appieno lo spirito con cui l’ho creata. La libertà è intesa sia come apertura a chiunque voglia avvicinarsi al piacere della lettura sia ai contenuti dei libri in essa raccolti. Qui è possibile trovare infatti materiale di diversa tipologia e di autori molto differenti tra loro che trattano di filosofia, letteratura, storia, poesia scienze sociali. Nei primi tempi dell’apertura, i libri riflettevano soprattutto il mio modo di essere e il mio gusto personale. Poi però, ci siamo accorti che le persone avevano bisogno anche di altro e ci siamo così adeguati alle loro richieste. Per esempio mancava la sezione per i bambini, oggi diventata molto importante. Un’altra sezione che abbiamo sempre più arricchito è quella dei romanzi. Accanto a quelli di autori classici abbiamo affiancato alcuni autori contemporanei per esaudire le tante richieste dei nostri lettori.

Che pubblico frequenta la biblioteca Ostinata?

Abbiamo quasi 2000 iscritti di diverso tipo, ma anche senza iscrizione si può accedere per leggere, studiare o lavorare. Una buona parte è formata da donne, a loro va il primo posto come appassionate lettrici. Abitano per lo più nella zona, hanno un’età over 65 e sono sole. Questo pubblico conferma il dato statistico che dice che a Milano il 30% dei nuclei famigliari è costituito da una persona sola e anziana, spesso donna. Qui, nella nostra biblioteca, trovano un punto di riferimento, non solo per coltivare la passione della lettura, ma anche per poter socializzare e colmare un vuoto esistenziale. Possiamo quindi dire che la biblioteca Ostinata favorisce la coesione sociale.

Ci può spiegare meglio?

Abbiamo firmato con il Comune il cosiddetto Patto di lettura che ci impegna a tutelare tre fasce deboli presenti in città: bambini, anziani e nuovi cittadini (i migranti). Per i giovani migranti abbiamo già istituito, finanziandoli quasi integralmente, corsi di lingua italiana (L2). Sono mandati qui dalle varie cooperative che si occupano della loro accoglienza. L’altra fascia debole a cui, come detto, teniamo molto, è quella degli anziani. Per loro organizziamo anche laboratori e corsi in cui riscoprono sia la propria capacità di imparare sia di creare. Per esempio hanno avuto un grande successo i corsi di lingua araba e inglese. Inaspettatamente sono stati molto apprezzati anche due laboratori manuali: quello per creare libri d’artista e quello per imparare a lavorare all’uncinetto. Nei prossimi mesi vorremo proporre loro un corso di abilitazione alle competenze digitali. Infine per i bambini abbiamo organizzato vari laboratori, in particolare degli incontri di lettura di favole teatralizzate. Sono piaciuti moltissimo, tanto che abbiamo deciso di aprire la biblioteca anche il sabato per andare incontro alle esigenze dei genitori.

Ostinata perché per diffondere la cultura del libro a 360 gradi e in modo trasversale, ci vuole perseveranza, oggi più che mai. «Per raggiungere questo obiettivo serve infatti determinazione. La nostra mission è far leggere chi ancora non legge o far leggere di più chi già legge – dice Paolo Prota – bisogna essere ostinati e non gettare mai la spugna. Ecco perché abbiamo scelto di dare il nome di Ostinata alla nostra biblioteca: non solo perché richiama la strada in cui è situata, ma soprattutto perché rispecchia appieno il nostro spirito. Uno dei nostri motti che amo moltissimo è di Marguerite Yourcenar “Fondare biblioteche è come costruire granai pubblici; ammassare riserve contro l’inverno dello spirito, che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire”. Credo infatti molto nei valori che la lettura veicola. Ci aiuta a migliorare, a comprendere di più noi stessi e soprattutto gli altri».

Biblioteca Ostinata, via Osti 6. Aperta dal lunedì al venerdì dalle 10 alle 18, e il sabato dalle 10 alle 13.

 
 
 
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