Post n°2263 pubblicato il
02 Luglio 2017 da
namy0000
Molti se ne vanno, loro sono rimasti». Sono i calabresi che non solo dicono di no alla ’ndrangheta e denunciano, ma continuano il loro lavoro nella loro terra. Vite blindate, vite a rischio ma vite vere. «Io ho scelto come morire, da uomo libero, non da schiavo», dice Gaetano S., imprenditore edile, da 15 anni sotto scorta, dopo aver respinto le richieste di cosche... A Nino D., anche lui imprenditore, hanno sparato ben 44 colpi di kalashnikov contro l’azienda, ma non ha mollato, anche se gli dicono «ma chi te lo fa fare, perché lo stai facendo, mettiti a posto». E rimane al suo posto.
Come Viviana, medico. Anche se la ’ndrangheta le ha ucciso il marito, che si era opposto al passaggio sui suoi terreni, dei clan. «Andarmene – dice – avrebbe significato dargliela vinta». La pensa così anche Nino, ex sindaco, mandato a casa su ordine del boss, che fece dimettere gran parte dei consiglieri comunali. «Io non andrò mai via dal mio paese. Non ho ceduto mai, neppure una volta». Quattro calabresi, quattro storie poco note, raccontate in questi anni. Storie raccontate in prima persona. «È il racconto del presente, non storie clamorose, ma di disperata normalità», sottolinea il vicepresidente della Commissione antimafia, Claudio Fava, figlio di Pippo Fava, giornalista ucciso da "cosa nostra". «La Calabria è una terra non raccontata, che non si vede, eppure l’emergenza ’ndrangheta è palpabile», spiega Emilia B. «C’è la storia della mia vita, della mia famiglia – afferma B. –, ma va raccontata. Ho accettato per svegliare qualche coscienza sopita. Ognuno deve fare il suo dovere. Se ognuno lo facesse non saremmo ora qui a raccontare la ’ndrangheta» - Antonio M. M. (2016, Avvenire, 7 luglio).
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