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Pensavo di essere preparata

2024, HuffPost, 7 ottobre

Pensavo di essere preparata, poi ho visto cosa accade a Gaza

di Medici Senza Frontiere (a cura di Gaia Giletta, infermiera di Medici Senza Frontiere)

 

All’inizio volevo solo piangere. Poi, tragedia dopo tragedia, la disperazione si trasforma in rabbia. E in vergogna verso un mondo che lascia accadere tutto questo, che consente che il diritto internazionale umanitario venga ripetutamente e impunemente violato

Quando sono partita per Gaza con Medici Senza Frontiere pensavo di essere preparata. Avevo letto, guardato, ascoltato ogni fonte su cui fossi riuscita a mettere le mani. Ma non sapevo niente. Nessuno qui sa davvero niente di quello che sta succedendo a Gaza. Se davvero si vuole provare a capire qualcosa bisogna essere lì, occorre partire dalla realtà.

Bisogna lasciare che un cancello – che è solo un buco in un muro alto 9 metri – ti si chiuda alle spalle senza sapere se e quando potrai uscire. Bisogna camminare nei vicoli claustrofobici tra le tende e sentire l’odore delle fogne straripate, dei corpi non lavati, delle ferite che marciscono. Guidare su strade costellate di crateri, ai cui lati non c’è più un singolo edificio che non sia ridotto in macerie, immaginare quanti corpi ancora sono sepolti lì sotto, quante famiglie sono state per sempre cancellate dalla faccia della terra, come se non fossero mai esistite. Bisogna lasciare che l’umido ti si appiccichi addosso, con la sabbia sollevata dai carretti trainati dagli asini, il caldo come un muro solido attraverso il quale devi spingerti.

Bisogna guardare negli occhi quegli esseri umani che da un anno lentamente muoiono ogni giorno non solo sotto le bombe, ma di fame, di malattie, per mancanza d’acqua pulita. Di indifferenza.

In molti mi chiedono cosa si provi a tornare da un posto come Gaza; pensi che riuscirai mai a superare quello che hai visto? Mi domandano. Come glielo spiego? Hai presente che suono fa l’urlo di una madre che ha perso suo figlio? Hai presente l’ultimo respiro di un bambino? Il silenzio dell’attimo successivo che avrebbe dovuto essere riempito da un altro respiro ed invece rimane sospeso, vuoto, immobile, senza senso.

Hai mai tenuto una piccola mano, sapendo che presto sarebbe stata fredda, e che tu non puoi farci niente? Con un pennarello indelebile qualcuno ha scritto su quella mano: WCNSF (Wounded Child No Surviving Family - Bambino ferito, nessun parente sopravvissuto).

Sai quando tu e i tuoi colleghi vi guardate, nel mezzo del caos di un ospedale, con l’odore metallico del sangue così prepotente da sentirlo in bocca, e sapete che dovrete prendere decisioni impossibili su chi verrà curato per primo, e poi con quelle decisioni dovrete convivere?

Hai presente quando guardi un sacco bianco e ti rendi conto – lo sai con la pancia, prima che con il cervello – che non contiene un corpo intero ma solo parti, parti di un essere umano?

Sai quando ogni giorno, durante la riunione del mattino, vi contate per essere sicuri di essere sopravvissuti alla notte di bombardamenti?

All’inizio, avevo solo voglia di piangere. Il nodo alla gola non mi dava tregua, mi bruciavano gli occhi per lo sforzo. Poi, ingiustizia dopo ingiustizia, tragedia dopo tragedia, la disperazione si trasforma in rabbia. E in vergogna. Verso un mondo che regredisce invece di progredire, che ancora crede alla violenza come strumento per risolvere i conflitti, un mondo che lascia accadere tutto questo, da un anno. Un mondo che lascia che il diritto internazionale umanitario venga ripetutamente e impunemente violato, che accetta che alle organizzazioni umanitarie venga impedito di fare il proprio lavoro in un modo che faccia davvero la differenza per la popolazione civile.

Tornare significa accettare il senso di colpa per essere potuta uscire, mentre i tuoi colleghi continuano a vivere nel terrore. Ogni giorno, temono che possa essere l’ultimo.

Ogni giorno, io temo che possa essere il loro ultimo. Basta guerra. Torniamo umani.

 
 
 
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