Creato da namy0000 il 04/04/2010

Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

Messaggi di Aprile 2019

In arte Cibo

Pier Paolo S., in arte Cibo, usa i suoi disegni per coprire frasi che inneggiano a razzismo o intolleranza. ‹‹Lo faccio gratis, per la mia città››.

Su un muro di una casa abandonata, per coprire una scritta ci disegnò sopra un wurstel alla griglia. Ma dopo poco, la scritta ritorna, uguale, sopra il wurstel. È stata quella volta che Cibo, pseudonimo di un giovane artista veronese dalle mille sfaccettature, capì che la creatività sarebbe stata la sua arma contro il razzismo e le intolleranze. Riprese una bomboletta spray, questa volta rossa, e spalmò sul suo wurstel, e sulla scritta, una dose generosa di ketchup.

Ma non era finita lì, perché questa volta il suo murale fu coperto interamente da pennellate beige. Lui non si lascia scoraggiare da questi attacchi, anzi, sembra quasi che si diverta: ‹‹Era diventata una sfida, loro si erano arrabbiati e io rispondevo facendo disegni e soggetti sempre più belli››.

Così la macchia beige è diventata una chiazza di senape, su cui ha disegnato un altro salsicciotto e la scritta more sauce please, ancora altra salsa, per favore.

Cibo è la forma che usa per questo progetto, ma Pier Paolo è un artista con molti lavori a portfolio. Anche decisamente diversi tra loro.

Pier Paolo, 36 anni, un diploma di liceo artistico e una laurea in disegno industriale, oggi si occupa di grafica come di design, di illustrazione e di arte contemporanea come di arte murale. E anche in questa è un professionista versatile: ha iniziato vent’anni fa in strada con i disegni di robot, il suo primo progetto, e oggi disegna su commissione sui muri di istituzioni e scuole, nelle case di privati, realizza performance in eventi pubblici. Le aziende sono dei grandi committenti, per loro soprattutto realizza murales disegnando forme geometriche e poligoni e firmandosi ilpier.

‹‹I committenti me li cerco e me li trovo. La sfida è avere sempre idee e progetti nuovi e superfici maggiori. Le aziende sono mecenati moderni, quelli che hanno i soldi per pagare l’arte. Ho lavorato per Apo Scaligera e per Fiera di Verona, ad esempio››.

L’arte, Pier Paolo, ce l’ha nel Dna: sua madre è un’artista e di certo in casa non l’hanno ostacolato quando ha realizzato il suo primo disegno su muro, in camera sua. Poi è stata la volta del garage, e poi gli spazi erano finiti ed è sceso in strada. Lì, a disegnare con le bombolette, c’erano i writer legati alla cultura dell’hip hop: ‹‹andavo a disegnare con loro ma volevo avere un progetto da seguire. Loro usavano colori audaci e io, nel tempo, per abbinare i miei disegni ai loro colori, ho lasciato da parte i robot e ho trovato la chiave nel cibo. Il cibo è colorato, ha tutti i colori del mondo, tranne l’azzurro. Per questo i miei sfondi sono tutti azzurri››.

Perché proprio il cibo, colori a parte? ‹‹Il cibo è il simbolo della nostra cultura, del nostro territorio, e anche delle nostre aziende. Nei miei disegni omaggio i prodotti del territorio. In un Comune del veronese, dove si coltivano gli asparagi, li ho dipinti abbinati alle uova››…

Quando disegna, Pier Paolo cerca sempre di fare le cose in regola. ‹‹Dove ci sono edifici abbandonati non sempre è possibile, ma io faccio tutto alla luce del giorno, non ho nulla da nascondere. In molti mi chiamano e mi segnalano scritte di odio che deturpano il paesaggio, io le copro gratis, perché per me questo significa davvero prendermi cura della mia città››.

Qualche denuncia se l’è beccata, da qualche amministratore che non ha apprezzato. ‹‹Diventa una questione politica, mi mandano intimazioni di cancellare il murales o tasse sulle opere artistiche››.

 Coi privati è diverso: ‹‹Suono il campanello, mostro il lavoro che intendo fare e chiedo il permesso. Me lo danno sempre: siamo gente semplice, di campagna››.

Però non è così facile come sembra. Recentemente, in due sole notti gli hanno cancellato o rovinato ben 17 murales. Lui e i suoi genitori hanno ricevuto diverse minacce.

‹‹Ma io non mi fermo perché non è che sto difendendo due salsicce: io difendo la libertà di pensiero. Copro l’odio, disegno per prendermi cura del mio territorio. Per questo voglio rendere pubblico il mio progetto     per esportarlo: cerco emulatori, altri artisti che a loro volta si prendano cura della loro, di città›› (Scarp de’ tenis, Dic. 2018)

 
 
 

Il mistero del beluga

Post n°3007 pubblicato il 30 Aprile 2019 da namy0000
 

2019, Il Post 29 aprile. Il mistero del beluga con l’imbracatura, in Norvegia

È una storia strana e qualche studioso ha ipotizzato che l'animale facesse parte di un piano di addestramento della marina russa

Giovedì scorso, nel mare tra le isole Rolvsøya e Ingøya nel nord della Norvegia, tre pescatori si sono imbattuti in un beluga che indossava una strana imbracatura: dopo aver avvisato le autorità e aver ricevuto l’aiuto di un biologo marino, l’animale è stato liberato e si è infine allontanato. Non si sa chi fosse stato a mettergli addosso l’imbracatura, ma per via di un marchio su di essa e sulla base delle dichiarazioni di un professore dell’Università di Tromsø è stata avanzata l’ipotesi che l’animale facesse parte di un programma di addestramento della marina russa.

I beluga (Delphinapterus leucas) sono mammiferi marini con la pelle tutta bianca, che fanno parte della stessa famiglia di orche e delfini, anche se la specie a cui sono più vicini è Monodon monoceros, i narvali. L’esemplare che lunedì scorso si è avvicinato ai pescatori Joar, Håvard ed Erlend Hesten era ancora giovane e probabilmente era stato addestrato, dato che è rimasto vicino al peschereccio degli Hesten molto a lungo, si è lasciato toccare da chi lo ha liberato dall’imbracatura ed era evidentemente abituato a ricevere pesce da mangiare dalle persone.

Dopo essersi accorti dell’imbracatura i pescatori avevano fatto delle foto e dei video all’animale per mandarle al biologo marino e docente dell’Università di Tromsø Audun Rikardsen. A sua volta Rikardesn le aveva mandate al Fiskeridirektoratet, l’agenzia governativa norvegese che si occupa delle cose che riguardano la pesca e della liberazione dei mammiferi marini che restano impigliati nelle reti: l’agenzia aveva poi mandato il biologo Jørgen Wiig ad aiutare i pescatori. Nel frattempo era passato un giorno, ma il beluga nuotava ancora vicino al peschereccio degli Hesten. Dopo averlo attirato con dei filetti di pesce, Wiig e un suo collaboratore hanno provato a slacciare l’imbracatura indosso all’animale, che secondo Wiig stava chiaramente «chiedendo aiuto». Il beluga però si allontanava mentre i biologi cercavano di liberarlo: alla fine Wiig ha quindi indossato una muta e si è immerso per togliere l’imbracatura all’animale.

Sull’imbracatura c’era un sistema per attaccare una piccola telecamera subacquea, tipo una GoPro, e un marchio che diceva «attrezzatura di San Pietroburgo». Rikardsen ha detto alla Norsk rikskringkasting (NRK) – la radiotelevisione norvegese, il primo media a raccontare la storia del beluga – che né i ricercatori norvegesi né quelli russi metterebbero mai un’imbracatura a un mammifero marino, ma che alcuni studiosi russi con cui è in contatto gli hanno detto che potrebbe essere stato qualcuno alla base della marina russa a Murmansk, nel nord-ovest della Russia.

Per quanto si sa, la Russia non ha mai usato balene e beluga per scopi militari ma l’Unione Sovietica aveva un programma di addestramento per delfini nella base di Sebastopoli, in Crimea, durante la Guerra Fredda: gli animali venivano addestrati a cercare mine o altri oggetti. Con la fine dell’Unione Sovietica la base era passata all’Ucraina, ma dal 2014 è di nuovo in mano alla marina russa. Intervistato dall’emittente russa Govorit Moskva sulla storia del beluga in Norvegia, il colonnello russo Viktor Baranets, esperto di addestramento di mammiferi marini, ha escluso che il beluga fosse legato ai militari russi ma non ha negato che la marina abbia un programma di addestramento per questo tipo di mammiferi marini.

Nel 2016 il ministero della Difesa russo aveva pubblicato un annuncio per l’acquisto di cinque delfini per un programma di addestramento: l’annuncio non diceva quale fosse il fine del programma ma diceva che i delfini dovevano avere denti in salute. Poco dopo essere stato pubblicato comunque l’annuncio era stato rimosso da internet. Baranets ha detto che la marina russa usa i delfini per analizzare i fondali marini, proteggere una zona subacquea, uccidere sommozzatori stranieri o attaccare mine sugli scafi di navi nemiche. Durante la Guerra Fredda anche gli Stati Uniti avevano un programma di addestramento per delfini e leoni marini in California: gli animali venivano usati per localizzare mine e altri oggetti pericolosi sul fondale. Nel 2003 alcuni delfini furono usati nel golfo Persico durante la guerra in Iraq.

Sia Rikardsen che Wiig hanno parlato con i giornali della loro preoccupazione che il beluga non sia in grado di procurarsi il cibo da sé dato che è abituato a riceverlo dalle persone: molti mammiferi marini cresciuti in cattività (come l’orca Keiko) non sono stati in grado di cacciare da soli una volta rimessi in libertà.

 
 
 

Convincendo se stesso

Enzo Muscia, convincendo se stesso che è meglio essere pazzi che persi, un po’ folli ma anche un po’ sognatori, e non rinunciare a battersi per una causa giusta.

La sua era la rinascita della A Novo, a Saronno, azienda di costruzione e riparazione di monitor e dispositivi per i grandi marchi dell’elettronica che nel 2012, da un giorno all’altro, annunciò prima l’amministrazione controllata e poi il fallimento.

‹‹Eravamo bravi e competitivi – ricorda -, la crisi era alle spalle e noi avevamo tutto quel che serviva per restare sul mercato››. Le multinazionali hanno ragioni di business che non contemplano le relazioni umane. La dismissione della A Novo er stata pianificata con questa dicitura: cessione di ramo d’azienda. Un ramo secco, sul quale erano appoggiate 320 famiglie. Muscia ci lavorava da 20 anni. Era entrato come perito elettronico fino a diventare direttore commerciale. La mattina in cui un sindacalista davanti al personale in assemblea disse: ‹‹Non vi auguro buongiorno, perché questo non lo è››, era all’estero per una nuova commessa. Racconta: ‹‹Nel giro di una settimana ci fu la desertificazione. I primi a sparire furono i vertici. Poi tutti gli altri, a cascata. Giornate avvilenti. Mi aggiravo per i locali dell’azienda come un superstite. Laboratori silenziosi, uffici vuoti, corridoi popolati di ricordi. Alle cinque del pomeriggio, quando gli ultimi uscivano, ero oppresso dalla consapevolezza che non li avrei rivisti né l’indomani né mai. Ogni uscita era un esilio e ogni saluto un addio.

Muscia poteva guardare altrove. Era bravo e ricercato dalla concorrenza. Ma resta al suo posto. ‹‹Chiudere questa azienda è un delitto››, gli confida il curatore fallimentare. ‹‹E lei lo dice a me?›› gli risponde. ‹‹Se non ci pensa lei, non ce la farà nessuno››. Così, da dipendente, comincia a pensare che deve diventare imprenditore.

Il percorso non è facile. Chiede aiuto alle banche, ma in questi casi disperati le banche non ci sono. Si deve arrangiare da solo. Nel 2015 la svota: richiama 20 ex colleghi e si butta: ‹‹Se va, si torna a vivere››, dice ai suoi dipendenti ‹‹se spacca, si torna a casa››. Va.

La sua storia diventa un titolo sul Corriere: “Licenziato si ricompra la fabbrica fallita e riassume i suoi colleghi”. Quando l’ho scritto, nel 2016, la rete ha fatto un botto. Muscia viene chiamato dalla presidenza della Repubblica. La sua avventura ispira una fiction per Rai3. Gli chiedono di scrivere un libro. Lo chiamano in Tv. Inaugura a Torino un altro centro di assistenza, riassume 5 operai licenziati dalla precedente gestione. ‹‹Se sono riuscito io, possono riuscirci tutti›› (Scarp de’ tenis, Dic. 2018)

 
 
 

Storytelling

2019,  Luca Sofri,  Wittgenstein,  GiornalismoJeff Jarvisstorytelling, Il Post 26 aprile.

Jeff Jarvis è da oltre un paio di decenni uno dei più bravi studiosi dei cambiamenti nell’informazione e nelle cose digitali che ci sia in circolazione: in questo blog è stato citato più volte, per esempio con la sua sensatissima definizione di cosa sia il giornalismo, che disdegna le sciocchezze sulla professione, la categoria, il tesserino, in favore della qualità del servizio pubblico.
Ora Jarvis ha scritto una 
cosa lunga e ricca di idee molto ben argomentate e non banali (di alcune aveva parlato a Perugia, c’è il video in coda all’articolo): ne cito due perché sono passate anche da questo blog, ma ce ne sono molte altre e migliori, alcune delle quali tratte da due libri che sembrano essere molto interessanti.
Una è – per dirla con quel famigerato titolo – la riflessione sul 
fottuto storytelling.

…..Jarvis cita lo studioso Alex Rosenberg e il suo libro sulle neuroscienze e la storiografia.

…..L’altra cosa che cito è, per dirla con quell’altro titolo, meno famigerato, che il giornalismo è un inganno.

…..Leggetevelo, l’articolo di Jarvis, se vi interessano le cose dell’informazione contemporanea. Soprattutto nella seconda parte ci sono efficaci e preziosi esempi su cosa sia un giornalismo intento solo a raccontare “storie” (che va bene, eh: basta non pensare sia tutto lì) e cosa sia invece un giornalismo utile a capire le cose e permettere di migliorarle. Ovvero quel giornalismo là, di cui dicevamo:…..

informed community is journalism

 

 

 
 
 

Una ricchissima ereditiera

Post n°3004 pubblicato il 27 Aprile 2019 da namy0000
 

2019, Il Post 26 aprile.Una ricchissima ereditiera che non lo era

Storia di Anna Sorokin, che truffò per mesi banche, hotel, ristoranti e amici per entrare nell'alta società newyorkese, riuscendoci

Anna Sorokin, una donna accusata di essersi finta una ricca ereditiera raggirando banche, ristoranti, hotel e diverse persone dell’alta società di Manhattan, è stata giudicata colpevole di truffa aggravata e furto da un tribunale di New York. Sorokin avrebbe compiuto truffe per circa 270mila dollari, sostenendo di essere una ricca ereditiera tedesca con un patrimonio di 67 milioni di dollari in Europa. In questo modo è riuscita a ottenere ingenti prestiti dalle banche e a condurre una vita ben al di sopra delle sue possibilità, utilizzando assegni a vuoto e documenti contraffatti. Della storia di Sorokin e del processo che l’ha vista protagonista si sta parlando molto negli Stati Uniti, e al momento sono già in produzione due serie tv su di lei, una scritta da Shonda Rhimes per Netflix e una da Lena Dunham per HBO.

Sorokin è nata in Russia nel 1991 e si è trasferita in Germania nel 2007: suo padre non era un ricco imprenditore, come lei voleva far credere, ma un camionista. Nel 2011 lasciò la Germania per andare a studiare moda a Londra, al Central St. Martin’s College, ma non terminò gli studi e si trasferì prima a Berlino e poi a Parigi, dove trovò un lavoro da stagista alla rivista Purple. In questo periodo Sorokin iniziò a frequentare gli ambienti della moda e della cultura parigina, e prese a farsi chiamare Anna Delvey. Il suo nome iniziò a circolare tra quelli che contavano nell’alta società francese e il suo account Instagram all’epoca contava già 40mila followers. La sua scalata al successo, fatta di bugie, inganni e truffe, era già cominciata ma raggiunse il suo apice solamente nel novembre del 2016, quando si trasferì a New York.

Per tre mesi visse all’11 Howard, un hotel di lusso a SoHo, dove alloggiò in una stanza da 400 dollari a notte. Neff Davis, la concierge dell’hotel, ha raccontato a The Cut che Sorokin (o Delvey, come si faceva chiamare al tempo) stupì tutto il personale per il suo stile di vita estremamente dispendioso: lasciava sempre 100 dollari di mancia, comprava vestiti molto costosi in continuazione e organizzava cene in ristoranti esclusivi a cui partecipavano personaggi famosi, atleti, capi di aziende importanti. «Il suo posto fisso per la cena era diventato Le Coucou [un lussuoso ristorante newyorkese, ndt]», ha raccontato Rachel Williams, photo editor di Vanity Fair, che era diventata sua amica.

«Era cliente fissa di Christian Zamora, dove andava a farsi fare extension alle ciglia da 400 dollari e ritocchi da 140. Per il colore andava al Marie Robinson Salon, per un taglio di capelli da Sally Hershberger. Aveva noleggiato un aereo privato per partecipare alla riunione degli azionisti di Berkshire Hathaway a Omaha. Ogni cosa che faceva era all’eccesso», ha spiegato Williams elencando i posti esclusivi e costosi che frequentava Sorokin.

A New York Sorokin progettava di prendere in affitto la Church Mission House, uno storico palazzo di Park Avenue, a Manhattan, per farne un club con gallerie d’arte e ristoranti. L’investimento, disse lei all’epoca, sarebbe stato garantito da un prestito della società immobiliare del suo amico Gabriel Calatrava, figlio del famoso architetto Santiago. Nelle sue intenzioni il club sarebbe stato un “centro dinamico di arti visuali”, con esposizioni di artisti famosi come Urs Fischer, Damien Hirst, Jeff Koons e Tracey Emin. Agli investitori che coinvolse nel progetto disse di aver raggiunto un accordo con l’artista Christo per “impacchettare” l’esterno dell’edificio in occasione dell’inaugurazione, come nelle sue più famose installazioni. Disse anche di aver parlato con André Balazs, noto imprenditore del settore alberghiero, per aggiungere delle stanze d’hotel su due piani del palazzo e con Richie Notar, co-proprietario della catena di ristoranti Nobu, per aprire tre ristoranti, un bar e una bakery.

I fondi di cui Sorokin avrebbe avuto bisogno sarebbero stati in tutto circa 25 milioni di dollari, ma dopo alcuni tentativi falliti di trovarli tramite investitori privati decise di cambiare i suoi piani e provare a raccoglierli da sola. Grazie ai suoi amici nel mondo della finanza riuscì a mettersi in contatto con Joel Cohen, famoso per essere stato il procuratore nel caso del broker Jordan Belfort – quello del film The Wolf of Wall Street – e che ora lavora per lo studio legale Gibson Dunn, specializzato in pratiche immobiliari.

Lo studio assicurò alle banche che Sorokin aveva abbastanza liquidità per chiedere 25 milioni di dollari in prestito e le disse di rivolgersi alla City National Bank e al Fortress Investment Group. Nel novembre del 2016 Andy Lance, un socio dello studio Gibson Dunn che lavorò alla pratica di Sorokin, in una lettera inviata alla City National Bank motivò la richiesta di prestito dicendo che la sua cliente aveva un ingente patrimonio in Europa, e che sarebbe stato garantito da una lettera di credito da parte della banca svizzera UBS. La banca non ritenne che ci fossero abbastanza garanzie e le negò il prestito.

Un mese dopo, Sorokin inviò gli stessi documenti al Fortress Investment Group, chiedendo un prestito tra i 25 e i 35 milioni di dollari. La banca accettò di farle credito, ma in cambio chiese un deposito di garanzia di 100mila dollari. Sorokin allora convinse un rappresentante della City National Bank a concederle un fido bancario per girare quella cifra al Fortress Investment Group. Dopo aver ricevuto i primi 45mila dollari, il Fortress Investment Group decise di inviare degli ispettori in Svizzera per controllare che Sorokin avesse davvero i beni di cui parlava. A quel punto Sorokin, iniziando a temere di essere scoperta decise di tenere per sé i restanti 55mila dollari e di versarli su un conto presso la City National Bank, utilizzandoli poi per spese personali.

Nel frattempo anche l’hotel in cui viveva aveva iniziato a insospettirsi. Quando Sorokin era arrivata per la prima volta all’11 Howard non aveva lasciato una carta di credito ma aveva promesso che avrebbe pagato tramite bonifico bancario. L’hotel aveva aperto da pochi mesi e una cliente che sembrava così facoltosa e che avrebbe alloggiato per un periodo così insolitamente lungo sembrava alla dirigenza un motivo buono per accettare. Le settimane però passavano e in tutto le spese di Sorokin erano arrivate a 30mila dollari (comprese le cene presso il ristorante Le Coucou, addebitate sul conto della stanza).

Dopo molte insistenze da parte della dirigenza dell’hotel, Sorokin inviò un bonifico di 30mila dollari a nome di Anna Delvey: i soldi erano una parte di quelli ottenuti con il fido della City National Bank. Nonostante avesse ricevuto il pagamento, però, in mancanza di una carta di credito valida per le future spese l’hotel fu costretto a cambiare il codice necessario per accedere alla sua stanza. Una volta lasciato l’11 Howard, per ripicca, Sorokin acquistò una serie di domini web con i nomi dei dirigenti dell’hotel, sostenendo che un giorno questi l’avrebbero pagata “un milione di dollari ciascuno” per averli.

Prima di riprendere tutte le sue cose in hotel, Sorokin organizzò un viaggio in Marocco insieme a Williams e a una videomaker che avrebbe dovuto realizzare un documentario sulla vacanza. Prenotò una casa da 7mila dollari a notte con maggiordomo privato a La Mamounia, un resort di lusso di Marrakech. Dopo alcuni giorni la dirigenza del resort disse a Sorokin che la carta di credito che aveva dato come garanzia non era valida e che era necessario che lei o una delle altre due ospiti ne fornissero una funzionante. Williams ha raccontato che alla fine dovette dare la sua carta, pagando di tasca sua circa 62mila dollari, più di tutto quello che guadagnava in un anno. Sorokin le promise che le avrebbe restituito tutto, ma un mese dopo il viaggio tutto quello che ricevette furono 5mila dollari.

Williams e la videomaker tornarono negli Stati Uniti mentre Sorokin andò sulle montagne dell’Alto Atlante a stare nel Kasbah Tamadot, un resort di lusso di proprietà dell’imprenditore britannico Richard Branson e poi nell’hotel Four Seasons di Casablanca. Anche qui ci furono problemi con la sua carta di credito e l’hotel minacciò di avvertire la polizia. Alla fine Sorokin chiamò in soccorso la sua personal trainer a New York che convinse la dirigenza del Four Season che il problema era dell’hotel e non della carta di credito e prenotò a Sorokin un volo di ritorno per New York. «Me lo puoi prendere in prima classe?» disse quest’ultima ringraziandola per il favore.

Tornata a New York andò ad alloggiare in altri due hotel, ma entrambi si accorsero in pochi giorni che la sua carta di credito non era valida e la cacciarono. Nel luglio del 2017 la sua storia di truffe finì per la prima volta sui giornali: Sorokin venne arrestata con tre accuse per furto e rilasciata su cauzione. Pochi giorni dopo incontrò di nuovo Williams e la sua personal trainer che le chiesero spiegazioni su tutto quello che aveva fatto. All’inizio tentennò e poi scoppiò in lacrime: «Avrò abbastanza soldi per ripagarvi, appena mi concederanno il prestito» disse loro.

Il 5 settembre sarebbe dovuta comparire davanti al giudice ma non lo fece: ottenne altri 8mila dollari grazie a due assegni a vuoto e li usò per andarsene a Malibu, in California, per stare in un centro di riabilitazione per dipendenzeVenne arrestata lì il 3 ottobre e poi trasferita nel carcere di Rikers Island, a New York, con sei accuse per truffa aggravata e tentata truffa aggravata, oltre alle tre accuse per furto.

Il processo a suo carico iniziò nel marzo del 2018, e attirò fin dall’inizio l’attenzione dei media anche a causa dell’eleganza di Sorokin alle udienze. La prima settimana indossò un tubino nero e una collana choker, per esempio: il New York Post scrisse che l’abito era della casa di moda italiana Miu Miu, mentre l’account Instagram che pubblica gli outfit di Sorokin durante le udienze scrisse che era di Michael Kors.

Secondo Time, Sorokin avrebbe ingaggiato una stylist, Anastasia Walker, per la scelta dei vestiti da indossare al processo e il suo avvocato difensore, Todd Spodek, ha spiegato a GQ di aver suggerito personalmente a Sorokin di assumere una stylist per il processo, per mostrare alla giuria come l’eleganza fosse parte integrante del suo modo di vivere. Ora Sorokin rischia fino a 15 anni di carcere e l’espulsione in Germania: la sentenza verrà pronunciata il prossimo 9 maggio.

 
 
 

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