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Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

Messaggi di Febbraio 2020

Still i Rise

Post n°3247 pubblicato il 19 Febbraio 2020 da namy0000
 

2020, Giornalettismo, 18 febbr. Nicolò Govoni, il fondatore della Ong “Still I Rise”, candidato al premio Nobel per la pace

C’è il nome di un giovane italiano nella rosa dei candidati al prossimo premio Nobel per la Pace: si tratta di Nicolò Govoni, classe 1993 e fondatore della Ong Still I Rise, nata nel 2018 e con primo progetto una scuola  per i minori profughi sull’isola di Mazì. L’obbiettivo della organizzazione non governativa internazionale è di offrire educazione, sicurezza e protezione ai profughi minorenni nei “luoghi caldi” della migrazione globale.

A spingere per la candidatura di Nicolò Govoni è stata Sara Conti, membro del Consiglio Grande e Generale della Repubblica di San Marino. «Mi ha colpito in modo sconvolgente approfondire quanto grave sia la situazione nell’hotspot sull’isola di Samos», ha spiegato lei a Repubblica, «conoscere un ragazzo di 27 anni che dedica la sua vita al sostegno e protezione dei diritti dei minori non solo ha meritato la nostra attenzione, ma il nostro pieno appoggio alla candidatura per il Premio Nobel per la Pace».

È già il fatto di essere stato preso in considerazione è per Govoni un grandissimo riconoscimento. «È il più grande onore della mia vita finora. Sono a corto di parole. È un sogno che si avvera, un sogno che mai avrei sperato di concretizzare – scrive il giovane sulla sua pagina Facebook – Non so che dire. Solo: grazie. Sono stati anni difficili, e gli ultimi mesi specialmente. Questa notizia arriva in un momento in cui sento di aver quasi toccato il fondo, e mi solleva lo spirito».

«È la prima volta nella storia di San Marino che lo Stato candida qualcuno al Nobel. Noi siamo i primi. Noi . continua a scrivere Nicolò – Perché considero questo un nostro traguardo, non solo mio». Dopo aver ricordato i passi compiuti con la sua Ong, dalla scuola di Mazì, ai libri scritti, fino alla denuncia delle condizioni del campo profughi di Samos, Nicolò si proietta verso il futuro: «Grazie di essere rimasti al mio fianco fino ad ora. Il meglio, lo giuro, deve ancora venire – scrive sempre su Facebook-  Aiutateci a diffondere l’incredibile forza della nostra Missione. Noi cambieremo il mondo, insieme, un bambino alla volta».

 
 
 

L'educatore

Post n°3246 pubblicato il 19 Febbraio 2020 da namy0000
 

2020, Avvenire 18 febbr.

Comunità Kayros. Da «ragazzo cattivo» a educatore: la storia di Daniel

Vuole fare l’educatore, da bullo che era, per spiegare ai ragazzi come si diventa grandi nonostante gli sbagli

C’era una volta un ragazzo cattivo, che si chiamava Daniel. Pensava di non dover studiare, o lavorare, per poter vivere, e che contasse solo esser ricchi. Così – aveva sì e no 15 anni – cominciò a minacciare e a picchiare i suoi coetanei, a rubare le borsette per strada e la merce nei negozi, finché divenne uno dei bulli più temuti del suo quartiere, alla periferia di Milano. Violento e spietato. Nemmeno quando fu arrestato, Daniel capì che doveva cambiare: anzi, continuava a comportarsi male e a prendere punizioni.

Finché per la prima volta nella sua vita incontrò qualcuno – don Claudio, il cappellano del carcere minorile Beccaria – che non lo guardò come un ragazzo cattivo: «Sei migliore di così» disse don Claudio, e si prese Daniel nella sua comunità di recupero. Era il 2015.

Già dopo un anno il ragazzo cattivo non esisteva più: Daniel capì che aveva sbagliato e che la vita doveva avere tutto un altro senso. Cominciò a studiare, dall’Inferno di Dante Alighieri, un librone che gli aveva messo in mano un’anziana professoressa in carcere, che come don Claudio aveva visto qualcosa in lui. E con quelle storie di cattiveria e di dolore, con la poesia, con le regole di condivisione della vita in comunità e il sostegno della sua famiglia, Daniel ricominciò a camminare. Giovedì scorso – qualcuno fra i suoi vecchi amici ha fatto persino fatica a riconoscerlo, tanto luminosi erano i suoi occhi – s’è laureato brillantemente all’Università Cattolica di Milano in Scienze della formazione.

Vuole fare l’educatore, da bullo che era, per spiegare ai ragazzi come si diventa grandi nonostante gli sbagli, o forse anche grazie a quelli.

Ad assistere alla sua tesi di laurea, oltre a don Claudio e alla professoressa dell’Inferno di Dante, c’era anche il giudice del Tribunale per i minorenni di Milano che l’ha fatto condannare tante volte, fino a costringerlo al carcere: «È una grande vittoria di tutti noi, questa» ha detto stringendolo fra le braccia come una seconda mamma.

La pm, insieme a Daniel, gira le scuole e incontra gli studenti raccontando che si può «non cedere alla tentazione del lato oscuro della forza. Lui è riuscito a trovare dentro di sé la forza del cavaliere Jedi e in questo è un esempio per i ragazzi». Il primo a essergli stato affidato si chiama Bragan, ha 17 anni. Era un ragazzo cattivo, finché Daniel non l’ha guardato come don Claudio ha fatto con lui.

 
 
 

E' piccola un'ostia, e basta per un Dio

Post n°3245 pubblicato il 18 Febbraio 2020 da namy0000
 

Maurizio Patricello, Avvenire, domenica 16 febbraio 2020

Sull’Altare, come ogni sera, per stendere le mani sull’Ostia bianca e sul calice del vino. Come ogni sera, anche stasera, ho la pretesa di scomodare Dio. Non sempre la fame di quel Pane benedetto è tanta, a volte è appena percettibile, altre volte ancora sembra mancare del tutto. Ma Lui non ci bada. E viene.

L’Eucarestia: dono e mistero. Da quando è iniziato il sinodo sull’Amazzonia, il pensiero che milioni di fratelli vorrebbero partecipare alla Messa ma non possono, ha cominciato a martellare nel cuore con insistenza. Mi sembra di vederli. Mi appaiono come quei bambini malnutriti nei Paesi in guerra che si aggirano con la scodella vuota in mano. E la tendono verso coloro che dovrebbero provvedere a sfamarli, ma – ahimè! – non possono.

E la scodella è destinata a rimanere vuota. Mi appaiono così, le sorelle e i fratelli dell’Amazzonia, in tutto simili a noi. Stessi diritti, stessi doveri, stessi sentimenti, stessa identica fede. Stesso Dio, stesso amore alla Chiesa, alla terra, al Papa. Che importa se sei nato al di là dell’Oceano, delle Alpi o degli Urali? La sete è la stessa. Sete di senso, di pienezza, di eternità. Sete di Dio. Stesse domande. A Messa, come ogni sera, anche questa sera, un piccolo gruppo di persone. Fortunati? Privilegiati? Penso all’Amazzonia, alle sterminate foreste, ai milioni di abitanti. E la Chiesa, la nostra Chiesa, mi appare ancora più bella, radicata su una Roccia che nessuno si è inventata; in maestoso equilibrio tra forze diverse, pensieri diversi, culture diverse, economie diverse, santità diverse.

Così diversi, gli uomini di Chiesa, eppure una cosa sola. Il miracolo è questo. L’essere uniti è la grande sfida. Non a caso ce l’ha chiesta Gesù. Ut unum sint. Che siano una cosa sola. L’unità commuove anche i più distratti. È giusto che ci siano idee diverse; è umano, oserei dire, divino. Vuol dire che la Chiesa ha a cuore la libertà. È giusto argomentare, confrontarsi, dialogare; chissà, forse è giusto finanche alzare la voce. Ma quando, alla fine, la Chiesa parla, si esprime, noi dobbiamo tacere, per meglio ascoltare, meglio imparare, meglio interiorizzare.

Non importa se quel che dice ci convince, non importa se il nostro amor proprio è soddisfatto o calpestato, non importa se non è stato recepito nemmeno uno iota del nostro lavoro. Fa niente, la Chiesa vede più lontano di noi. Sull’Altare, la grazia mi ha condotto anche questa sera. È vero, per capire c’è bisogno degli opposti. Nel buio desideri la luce, nel freddo il tepore del calduccio, quando sei solo implori l’amico che ti tenga compagnia. Stasera celebro la Messa con il cuore e la mente rivolti all’Amazzonia.

Chi siamo noi per avere avuto in sorte tanta grazia? Chi siamo perché ogni giorno, in questa antica e supponente terra d’Europa, possiamo saziarci del Dio nascosto? «È piccola un’ostia e basta per un Dio», scriveva don Mazzolari. Da impazzire. Da stasera, allora, con la Chiesa che è in Amazzonia, vivremo ancor più in comunione. C’è chi semina e chi raccoglie, chi innaffia e chi estirpa le erbacce. A noi il Pane appena consacrato, a voi i frutti del Sacramento celebrato. Non è utopia. Questa 'alchimia' divina è la comunione. Addirittura è possibile realizzarla con i morti. Io lavoro, tu passa a ritirar la paga.

Dopo aver tanto discusso del sinodo sull’Amazzonia, adesso facciamo la nostra parte. Questa adesione è la missione. Non dimentichiamola, non voltiamo frettolosamente pagina. Chi può andare laggiù, vada, corra senza indugi a servire Dio nei fratelli più poveri. E chi, per età, salute, limiti vari, non può, non si scoraggi, non alzi bandiera bianca. Sulle ali della preghiera ci ritroveremo tutti. Santo Padre, che grazia! In questi giorni le distanze si sono accorciate, il mondo si è fatto più piccino, il cuore si è gonfiato di fraternità.

 
 
 

Querida Amazonia

Post n°3244 pubblicato il 17 Febbraio 2020 da namy0000
 

Querida Amazonia, l’amore che sana le ferite

Querida Amazonia. È racchiuso in questo inizio sorprendentemente poetico il segreto dell’esortazione apostolica post-sinodale di Francesco. Cara Amazonia. Come fosse la lettera a una persona cara. Solo chi ama sa prendersi cura dell’amato o dell’amata. E sogna per lui, o per lei, un futuro migliore. Così nella sua lettera, invitando la Chiesa a rileggere il documento finale del Sinodo, e a farsene interpellare, Francesco elenca quattro sogni. Che sono progetti. Che sono cammini. Che sono anche indignazione. Perché bisogna indignarsi, come si indignava Mosè, come si indignava Gesù, come Dio si indigna davanti all’ingiustizia.

In questi sogni c’è la chiave di un futuro che ci riguarda tutti. Perché tutto è legato. Un futuro che non si può ridurre a un elenco di regole e divieti, alla stregua di un’istruzione per l’uso, di un contratto. Un futuro da scrivere, invece; rimanendo fedeli alla Fede che lo sostiene. Un futuro da costruire camminando insieme. Nel tempo. Senza scorciatoie. Ma con una visione. Un orizzonte. Che Francesco indica ricorrendo anche alla poesia.

‹‹Il mondo soffre per la trasformazione della pala in fucile, dell’aratro in carro armato››, scrive citando Vinicius de Moraes. Ma la Chiesa – aggiunge – può ancora sognare e agire per un mondo dove siano garantiti i diritti dei più poveri, dei popoli originari, degli ultimi; dove la loro voce ascoltata e la loro dignità sia promossa. Dove la cultura dell’incontro permetta di coltivare senza sradicare; di promuovere senza invadere; dove l’ecologia si integri con la giustizia e le città non siano il luogo dove chi cerca la liberazione trova invece schiavitù.

Di qui l’importanza anche dell’educazione. E in essa la riscoperta di qualcosa che il mondo sta perdendo, ma in Amazonia vive ancora: il senso della comunità e del bene comune. Un futuro dove la Chiesa percorra nuovi cammini non tagliando le ali allo Spirito santo, valorizzando il ruolo dei laici e delle donne senza clericalizzarli, recuperando lo spirito missionario, trovando vie nuove per evangelizzare attraverso l’incontro, il kerygma, la manifestazione di Dio, le comunità di base.

In questa prospettiva di cammino, di amore e di futuro, anche alune semplificazioni sui temi della inculturazione e del celibato sacerdotale (inquadrate in una prospettiva più ampia) rimpiccioliscono. E appare ingannevole il tentativo di ridurre tutto a referendum pro o contro. Il tema non è la fretta di qualificare come superstizione o paganesimo alcune espressioni religiose. Piuttosto, il saper riconocere il grano che cresce in mezzo alla zizzania.

Il tema non è discutere del celibato come di un dogma (che non è); o delle sue possibili deroghe, che Francesco non muta, dimenticando quelle che già esistono. Il tema è il sacerdozio come servizio a comunità vive alle quali non può essere negata la celebrazione dell’Eucaristia o il sacramento del perdono. Il tema non è la funzionalizzazione, ma la vocazione. Il tema non è stare fermi, ma camminare (FC n. 7 del 16 febbr. 2020).

 
 
 

Unire l'Amore

Post n°3243 pubblicato il 16 Febbraio 2020 da namy0000
 

Shjmanto, morto a 9 anni: il bambino che ha unito l'amore di tutti

Questa storia parte dal sacrificio più grande: la vita di un bambino. Una vita che nel momento della sua perdita diventa sacra, capace di annullare distanze culturali e religiose, perché quando l’amore è incarnato, quando diventa amicizia, gioco, divertimento, non esiste distanza che tenga.

Roma. Quartiere Monteverde. Shjmanto aveva 9 anni, era nato a Roma mentre i suoi genitori venivano dal Bangladesh, un bambino inserito perfettamente nel tessuto del quartiere, nella scuola elementare che frequentava con buoni risultati, pieno di amici e di gioia da condividere. Un male terribile ha fatto irruzione nella sua vita, consumandolo un poco alla volta, sino alla morte, avvenuta all’inizio di febbraio.

L’intero quartiere ha seguito la vicenda di Shjmanto, sperando e pregando, sino al finale tragico, che nessuno avrebbe mai voluto. La famiglia del piccolo, di religione musulmana, ha organizzato il rito funebre nei locali dell’Associazione culturale islamica di Circonvallazione Gianicolense. È qui che accade l’evento inatteso, che la vita di Shjmanto, nel momento della sua dipartita, diventa seme di novità per tanti, potenzialmente per tutti.

I responsabili della comunità islamica hanno organizzato il rito come di norma, ma non potevano prevedere la portata di tutto l’amore che Shjmanto aveva piantato attorno a sé. La mattina del rito funebre, fuori dai locali della comunità si sono ritrovati tutti quelli che hanno conosciuto il bambino: genitori e compagni di scuola, maestre, semplici cittadini del quartiere, riuniti per fare un ultimo saluto a lui e per stringersi stretti attorno alla sua famiglia. Di fronte a quella testimonianza d’amore, i responsabili dell’Associazione islamica hanno risposto con uguale amore, e libertà: hanno aperto le porte della piccola moschea a tutti, anche a donne e bambini.

Tutti assieme. Due comunità, una islamica l’altra cristiana, unite nella preghiera, ognuno con le sue parole, con i suoi riti. Unite da Shjmanto, perché il dolore non fa differenze, come il pianto, come la preghiera che vive dentro lingue diverse, ma che, quando sincera, spiana la strada tra l’uomo e Dio. L’unico Dio che veglia il mondo intero…(Avvenire, 15 febbr. 2020)

 
 
 

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