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Un mondo nuovo

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Messaggi di Marzo 2020

Senza mascherine

Post n°3277 pubblicato il 17 Marzo 2020 da namy0000
 

2020, Avvenire 16 marzo. Coronavirus. «Io, vicesindaco, senza mascherine e assediato dalle ambulanze... »

Mauro Davoli, fotografo di fama, racconta la paura e l'isolamento in una cittadina in provincia di Parma: “Non facciamo che le nostre lacrime di dolore si trasformino in lacrime di rabbia”

“Mi si stringe il cuore a sentire il suono delle sirene e a veder correre le ambulanze con cui gli angeli soccorritori accompagnano i nostri amici e i genitori, i figli, i nostri nonni a ospedali che sembrano ormai lazzaretti nonostante la straordinaria professionalità, il coraggio e la dedizione di medici e infermieri”.

La sindaca è a casa in quarantena e come lei tanti altri dell’amministrazione comunale, e Davoli è per ora tra i pochi fortunati che possono continuare a lavorare. “Sono 18 le persone di cui si sa con certezza che sono state colpite dal virus, ma altissimo è il numero di coloro che devono restare chiusi a casa perché manifestano sintomi. Non abbiamo un ospedale, c’è solo un presidio sanitario e anche alcuni dei medici sono in quarantena. Le persone che si ammalano vengono portate negli ospedali di una delle città vicine, Parma, Borgo Taro o Fidenza. Ed è un continuo via vai di ambulanze con i volontari. Poche ora fa un’impiegata del Comune ha accusato disturbi respiratori ed è stata portata via d’urgenza".

Si respira un clima surreale e pesante nell’emergenza è la sensazione di impotenza, esacerbata dalla mancanza dei sussidi più elementari, come le mascherine “Ne abbiamo solo del modello più semplice che evita ai contagiati di diffondere il virus, ma sono necessarie quelle che permettono di impedire di essere contagiati, modelli come il PFP2, e non ce ne sono. Io, come tanti altri, devo lavare ogni giorno la mia mascherina di cotone per paura di non trovarne un’altra o di sottrarla ai medici che in Pronto soccorso rischiano la vita per salvarla ad altri.

”Solo questo possono evitare a medici, volontari, personale della Protezione civile, di non contagiarsi. “Bisogna fare cose semplici ma essenziali. Perché non basta scrivere ‘Andrà tutto bene’. Dobbiamo creare le condizioni perché questo avvenga veramente. E quando un numero crescente di persone dev’essere accompagnato in ospedale, o quando è necessario consegnare in a casa di chi è malato o in quarantena il cibo o le medicine bisognerebbe permettere a chi svolge queste mansioni di non contagiarsi. Una mascherina può salvare vite. Ma non ne abbiamo”.

Sui giornali locali aumenta il numero di necrologi, ieri sulla Gazzetta di Parma ce n’erano cinque pagine piene. Eppure c’è ancora qualcuno che non riesce a modificare le proprie abitudini. “Per quanto la Polizia municipale giri con l’altoparlante avvisando di stare in casa ed evitare contatti, si vedono ancora capannelli di giovani che scherzano per strada”.

Ma l’urgenza porta anche a maggiore solidarietà e comprensione: “Non riceviamo più tante proteste, e sono tanti a collaborare. C’è solidarietà, come non s’era mai vista”. Se arrivassero anche le mascherine, pur nell’emergenza, tutto sarebbe più semplice.

 
 
 

La Grecia scoppia

Post n°3276 pubblicato il 16 Marzo 2020 da namy0000
 

2020, FC n. 11 del 15 marzo. EMIGRANTI.

La Grecia scoppia. ‹‹I migranti vogliono scappare via da qui, ma le frontiere sono chiuse››, allarga le braccia padre John Luke Gregory, francescano della Custodia di Terra Santa e parroco della chiesa di Santa Maria della Vittoria di Rodi, una delle isole più orientali dell’Egeo dove la presenza francescana risale a ottocento anni fa. La Turchia è a circa 17 chilometri e le forze di polizia greche vigilano sul confine per evitare che altri profughi in fuga dai campi della Turchia arrivino nel Paese. Il cessate il fuoco siglato da Putin ed Erdogan per il nord ovest della Siria non cambia di molto la situazione.

‹‹Da mesi viviamo in emergenza, siamo il primo paese d’Europa, ma nessuno vuole fermarsi qui››, dice Gregory. Le condizioni degli hotspot e dei centri d’accoglienza di Lesbo, Chios, Samos, Kos e Leros sono altamente inadeguate. È vero che gli arrivi in Europa dal Mediterraneo sono crollati rispetto alla crisi del 2015, ma quelli in Grecia sono aumentati lo scorso anno, peggiorando il cronico affollamento delle isole. Rodi compresa. ‹‹Qui non c’è nessun centro ufficiale finanziato dal governo, ma ugualmente accogliamo grazie alla generosità della Custodia e le offerte dei turisti, centinaia di profughi che arrivano soprattutto da Siria, Iraq, Gaza, Afghanistan, Somalia. Ci sono anche molti curdi››, spiega padre Gregory. Idlib è solo l’ultima emergenza capace di far deflagrare una situazione già esplosiva.

L’hotspot dell’isola di Leros (54.000 chilometri quadrati per 7.900 abitanti), sud dell’Egeo, può ospitare al massimo 700 persone. ‹‹Ce ne sono più di 3.500››, dice padre Luke, ‹‹ammassati in edifici fatiscenti, senza letti, acqua, servizi igienici, elettricità, assistenza sanitaria e riscaldamento››. Sull’isola di Kos è stato aperto da poco un centro d’accoglienza e ci sono già 4.000 persone. ‹‹Dall’altra parte del mar Egeo, nei campi profughi della Turchia, ci sono 2.000.000 di persone››, spiega, ‹‹ma non abbiamo né foto né numeri ufficiali anche perché i giornalisti non possono andare a verificare. Dobbiamo credere a Erdogan››. Oltre a quelli via terra, gli arrivi via mare non si arrestano e Rodi è uno degli avamposti più delicati: ‹‹In questo periodo il mare è sempre molto mosso, però i migranti rischiano lo stesso pur di venire qui e scappare dall’inferno di Idlib››, sottolinea Gregory, che spiega come funziona: ‹‹gli scafisti si fanno pagare anche fino a 1.000 dollari a viaggio. Su un piccolo gommone mettono 30 persone e la benzina appena sufficiente per uscire fuori dalle acque territoriali turche. Poi loro tornano in Turchia e lasciano i profughi in mezzo al mare sperando che intervenga la Guardia costiera greca per portarli a terra››.

A Rodi padre Gregory distribuisce cibo, medicinali, shampoo e bagnoschiuma grazie alle offerte dei fedeli raccolte da ATS (Associazione Terra Santa): ‹‹Gli italiani sono molto generosi, lo scriva, grazie a loro riusciamo ad aiutare tanta gente qui››, precisa. Tra le tante storie raccolte da padre Gregory c’è quella di un bimbo di due anni di Damasco che mimava come erano state uccise la madre e la sorella in un raid. ‹‹Ora è rimasto solo e non sappiamo se c’è qualche familiare che possa prendersi cura di lui››.

 
 
 

Rimette il camice

2020, Avvenire 14 marzo. Coronavirus. Don Fabio rimette il camice bianco e va in ospedale

Prete e medico, ha deciso di rimettersi il camice bianco ed è stato assegnato all’ospedale di Busto Arsizio. Da sempre volontario Cuamm, è stato accolto dai 'colleghi' a braccia aperte

In prima linea, dove c’è bisogno. «Mi sono fatto avanti per dare una mano in un ospedale, durante questa emergenza sanitaria. Mi sono rivolto ai medici di Gallarate che conosco e loro mi hanno indirizzato a Busto Arsizio, dove ci sono le maggiori emergenze» ha raccontato don Fabio Stevenazzi ai suoi parrocchiani della comunità pastorale San Cristoforo, dove da un anno e mezzo svolge il suo ministero. Oratorio chiuso, Messe e celebrazioni comunitarie sospese, niente catechismo con i ragazzini. Così don Fabio Stevenazzi ha deciso di rimettersi il camice bianco.

Originario di Lozza, un paese in provincia di Varese, è prete della diocesi di Milano dal 2014, destinato prima agli oratori di Somma Lombardo e Mezzana e ora a Gallarate, sempre in provincia di Varese. Ma prima di entrare in seminario faceva il medico. Per dieci anni ha lavorato in ospedale, in particolare al Pronto soccorso di Legnano e non ha mai smesso di esercitare la professione: ogni estate, infatti, partiva per l’Africa per svolgere un servizio volontario con l’associazione Cuamm di Padova, così da non perdere l’abilitazione e mantenere l’iscrizione all’albo professionale.

Tanzania e Etiopia, le sue più recenti destinazioni, sempre a contatto con i più poveri e deboli: mamme con bambini all’ospedale San Luca di Wolisso e poi all’ospedale di Tosamaganga, specializzato nelle emergenze ostetriche, e nel dispensario di Migori. E ora, di fronte all’aggravarsi della situazione negli ospedali lombardi per l’emergenza coronavirus, ha deciso di fare la sua parte e non restare con le mani in mano.

I colleghi di Busto lo hanno accolto a braccia aperte: «Assunzione diretta immediata; mi hanno chiesto solo curriculum e fotocopia della carta d’identità. Da parte mia ho prodotto l’autocertificazione di laurea e specializzazione». Subito don Fabio è stato sottoposto a una serie di esami per accertare il suo stato di buona salute e ha partecipato a un training formativo per conoscere le procedure da adottare in corsia in questa particolare emergenza sanitaria. Lunedì ci saranno gli ultimi accertamenti e dai prossimi giorni sarà operativo a tutti gli effetti.

«Spero che questa mia disponibilità dia ancora più coraggio, grinta e determinazione a tutti quanti, specialmente a coloro che sono già impegnati nella solidarietà e nell’assistenza, ma anche a quelli che potrebbero decidere di darsi da fare». Al suo fianco si sono schierati subito i superiori, dall’arcivescovo di Milano, Mario Delpini, sentito dal vicario episcopale di zona monsignor Giuseppe Vegetti, fino al prevosto di Gallarate, monsignor Riccardo Festa. «È un gesto importante, che ci sentiamo di condividere » ha commentato quest’ultimo, che ha informato i parrocchiani del significato della decisione di don Fabio. «In questi giorni di difficoltà negli ospedali e anche, purtroppo, di sospensione prolungata delle attività pastorali don Fabio ha messo a disposizione la sua qualifica e la sua esperienza di medico per le emergenze degli istituti di cura del nostro territorio. Accompagniamo con stima e con la preghiera il suo cammino».

«Mercoledì sera ho conosciuto il mio primario, un tipo in gamba – sorride don Fabio –. All’ospedale di Busto Arsizio intanto ho iniziato l’addestramento ». E, poi, ai molti che hanno subito iniziato a tempestarlo di chiamate per congratularsi con lui per il gesto di altruismo ha scritto: «Forza e coraggio! Che il Signore ci conservi tutti nella salute, nella determinazione e nel buonumore».

 
 
 

Mascherine solidali

Post n°3274 pubblicato il 12 Marzo 2020 da namy0000
 

Cosenza. Le "mascherine solidali" di tessuto: il regalo di un sarto alla Caritas

Riccardo Magarò, 23enne imprenditore cosentino, s’è messo a lavoro nella sua sartoria per realizzare mascherine da distribuire gratuitamente a chi ne ha bisogno

«Ritengo giusto aiutare chi non riesce a trovare una mascherina, o magari non può sostenere i costi attuali. Il momento è difficile per tutti, non solo per quanti hanno disponibilità economiche. Anzi!» La voglia d’essere utile è stata la molla più importante per Riccardo Magarò, ventitreenne imprenditore cosentino che s’è messo a lavoro nella sua sartoria per realizzare mascherine da distribuire gratuitamente a chi ne ha bisogno.

Le prime le ha realizzate con il cotone che aveva in bottega, a doppio tessuto e lavabili, le altre in Tnt (Tessuto non tessuto) sino a quando è stato possibile reperire il materiale nei negozi che ancora erano aperti o avevano disponibilità di merce.

Quindi ha contattato la Caritas diocesana di Cosenza-Bisignano, cedendole a loro affinché le distribuissero ai soggetti più bisognosi e a rischio. Tanto in città quanto nel resto dell’area urbana cosentina e pure in provincia. Una consegna ha interessato, a esempio, la comunità di Paola, la città di San Francesco, lungo la costa tirrenica.

«Più che dal punto di vista batteriologico sono importanti sotto l’aspetto mentale, aiutando per quanto possibile a rasserenare i cittadini», racconta il giovane imprenditore, titolare del Palazzo dei Sarti di Cosenza, aiutato nell’opera di solidarietà unicamente dalla sorella Miriana poiché al momento sono sospese anche le attività degli allievi impegnati nella sartoria che si trova nel cuore del centro storico cosentino.

«Il lavoro ha previsto la preventiva sterilizzazione delle macchine da cucire, l'utilizzo di guanti in lattice e l'osservazione delle diverse misure precauzionali», sottolineano i due protagonisti. (Avvenire, 11 marzo 2020)

 

 
 
 

Addio al medico eroe

Post n°3273 pubblicato il 12 Marzo 2020 da namy0000
 

Coronavirus. Addio al medico eroe: "Siamo in battaglia. E hanno ucciso il comandante"

Un amico e collega ricorda il presidente dell'Ordine dei medici di Varese, Roberto Stella, morto a 67 anni causa del virus. "Martire e maestro, eri capace di commuoverti"

Il presidente dell'Ordine dei medici di Varese e responsabile area strategica formazione della Fnomceo, Roberto Stella, 67 anni, è morto questa mattina dopo avere contratto il coronavirus. Lo riferisce il presidente nazionale degli Ordini dei Medici (Fnomceo), Filippo Anelli, dopo il precipitare di una malattia respiratoria dovuta al nuovo coronavirus. "Oggi è un giorno estremamente triste. Il Coronavirus - anche se la causa dovrà essere stabilita dall'Istituto superiore di sanità, pare essere questa - si è portato via in pochi giorni un amico, un collega, un presidente sempre pronto a spendersi per gli altri, senza risparmiarsi. Per i suoi pazienti, per tutti i medici e gli odontoiatri dei quali curava la formazione, in particolare quella Ecm. Purtroppo oggi è arrivata la notizia che temevamo e che nessuno avrebbe voluto sentire: Roberto Stella, da qualche giorno ricoverato in rianimazione, non ce l'ha fatta". Qui di seguito il ricordo di Alessandro Colombo, collega e amico di Stella.


Sette anni fa ascoltavamo commossi un grande medico, che raccontava la sua malattia ai nostri allievi. Roberto Stella, tra le lacrime, mi disse: "A 60 piango. Perché voglio diventare così".

Quel giorno siamo diventati amici. Avevo di fronte un maestro. Era già uno importante, con cariche regionali e nazionali. Ma era soprattutto un medico di famiglia vero. Insieme abbiamo diretto la Scuola di medicina generale della Lombardia fino a giovedì sera; al telefono, a ora tarda, stavamo decidendo e riorganizzando la scuola in questo marasma. Era stanchissimo.

Roberto è un martire. Ha professato fino alla morte. Qualche giorno fa mi disse: "Abbiamo finito le mascherine. Ma non ci fermiamo. Stiamo attenti e andiamo avanti".

Un uomo così è di tutti, perché si è dato a tutti. Era più che un eroe, era un uomo che sapeva piangere. Che si commuoveva di fronte al bello e al vero. Voleva cambiare. Cambiare sé e aiutare le persone a farlo. Un maestro.

È così facile, quando hai potere, muoversi per altri fini! Con lui era meno facile. Sapeva cos’è il potere e lo gestiva bene, tra Milano, Varese e Roma. Ma alla fine aveva sete del profondo. Leggeva come un matto. Non si accontentava della superficie; come Giorgio Gaber, cui assomigliava così tanto da prenderlo in giro. E suonava perfino la chitarra!

Ho lavorato con lui giorni e notti a programmare, gestire, migliorare, sistemare i corsi per i giovani medici. Per rendere migliore il sistema sanitario. Anche con proposte “eversive”, che oggi l’emergenza sta dimostrando praticabili, Solo e sempre per i “ragazzi”. Noi due sapevamo che non c’erano altri fini, se non sostenere la grande vocazione dei medici.

Ma io lo imparavo da lui. Così, insieme, eravamo più forti delle resistenze che incontravamo. Anche delle nostre. Si discuteva, si rideva e si litigava. Ma la commozione era l’ultima parola. E in questi mesi tanti suoi colleghi medici e del sistema lombardo erano coinvolti, e aiutavano la scuola a volare alto.

Siamo in battaglia. E hanno ucciso il comandante. Abbiamo paura. Ma lui, commosso, avrebbe detto di andare avanti, di non fermarsi. Un passo dopo l’altro. Come gli alpini, cui Roberto apparteneva. A noi tocca onorare il capitano: fare quello che dobbiamo fare, stando a casa, tranquilli, fermi. Possibilmente sostenendo chi è al fronte, come possiamo. Non foss’altro con le preghiere.

I “suoi” tirocinanti oggi sono al fronte. Stamattina, proprio mentre Roberto moriva e non lo sapevano, hanno proposto temi di lavoro straordinari. Ci stanno già lavorando. È un inizio nuovo, il maestro ha seminato tanto, ha seminato bene. - Direttore dell’Accademia di formazione per il servizio sociosanitaro lombardo – PoliS Lombardia (Avvenire, 11 marzo 2020)

 
 
 

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