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Messaggi di Agosto 2021

Quando finirà questa schiavitù

Post n°3633 pubblicato il 17 Agosto 2021 da namy0000
 

2021, Maurizio P., Avvenire 16 agosto

Caivano. Salvatore, l'ultima vittima della droga. Quando finirà questa schiavitù?

Vittorio si avvicina all’Altare. La Messa dell’Assunta sta per terminare: «Un altro, padre. Al solito posto. I carabinieri sono già arrivati…». Depongo in fretta i paramenti sacri e corro. In campagna, a pochi passi dalla parrocchia, riverso nella polvere, tra l’erba alta, mucchi d’immondizie e migliaia di siringhe infette, il corpo di un giovane, giace senza vita. Un gruppo di persone, sotto il sole cocente di mezzogiorno, dialoga con i carabinieri. Sono i genitori, il fratello, qualche parente.

Mi fermo, mi presento, chiedo. «È uscito di casa, venerdì alle quattro del pomeriggio, alle cinque già non rispondeva più al telefono» mi dicono. E, preoccupati, iniziano a cercarlo. Un amico li condurrà nel luogo dove di solito si recava a comprare e iniettarsi la droga. Hanno cercato tra gli alberi, hanno rovistato, hanno chiamato. Poi la terribile scoperta.

Si chiamava Salvatore. Aveva 36 anni e un bambino che lo adorava. Il volto di sua mamma sembra scolpito nel marmo nero del dolore. Ha pianto tanto questa donna in croce. A Pasqua, le era morto un altro figlio, poco più che ventenne. La guardo e mi sembra di contemplare Maria assunta in cielo con gli abiti del lutto. Capisco che croce e resurrezione stanno o cadono insieme, fino alla fine del mondo.

Dopo la “stesa” dell’otto luglio, il “Parco Verde” in Caivano, è blindato. Decine di carabinieri e poliziotti controllano il territorio. Eppure, nonostante tutto, il commercio delle droghe continua a prosperare. I giorni di festa per coloro che vivono in solitudine, per gli ammalati, per gli schiavi di queste sostanze maledette, pesano in modo particolare. Il pensiero che tutti si stiano divertendo tranne loro, gioca brutti scherzi.

Salvatore stava uscendo dalla dipendenza. Da quando era morto suo fratello, a tutti i costi, voleva mettere fine a tanta sofferenza. Poi, l’illusione del ferragosto. L’ultima volta, dice a se stesso. L’ha promesso a suo figlio, a sua mamma, al suo papà. L’ultima volta. Ed è stata davvero l’ultima.

La gioia della Messa celebrata lascia il posto a una amarezza senza fine. Mi porto a casa i volti distrutti di quei genitori che non hanno più lacrime da piangere. Erano partiti dal loro paese con tanta paura ma anche con la speranza di ritrovarlo in vita. Sono bastate poche ore e su di loro è calata la cappa della più buia delle notti.

Quando finirà questa schiavitù? Quando la smetteremo di dire che “Parco Verde è una delle piazze di spaccio più grandi d’Europa” perché è stata smantellata? Certo, il problema è spostato, non risolto. È vero. Ma è già un successo. Quanta forza d’animo deve avere un adolescente che si avvia alla giovinezza, per resistere alla tentazione di provare, se per andare a scuola in chiesa, o al centro del paese, deve superare una, due, tre postazioni a cominciare da chi gli blocca il passo sotto la sua stessa casa? L’occasione fa l’uomo ladro.

La droga assassina acciuffa le sue vittime prima che queste abbiano la capacità di ragionare e scappare via. Bugiarda, le inganna, in tenera età, promettendo il paradiso e facendosi poi beffe di loro quando, ormai adulti, le hanno sacrificato tutto, affetti, ideali, salute e la stessa vita. Quanti sono gli schiavi delle droghe in Italia? Quanto male fanno a se stessi e agli altri? Quanto costano alla società? Quanti omicidi stradali sono procurati da chi guida in stato di alterazione da sostanze stupefacenti? Quanti bambini, come il piccolo figlio di Salvatore, saranno costretti ad affrontare la vita senza il sostegno del papà o della mamma?

Domande che per troppo tempo abbiamo evitato di affrontare, e che necessitano di risposte adeguate. Occorre andare incontro ai giovani più fragili, prima che finiscano nell’asfissiante tunnel della morte nera che arriva camuffata di veli bianchi. Occorre liberare i prigionieri del “ Parco verde” e di tanti altri luoghi che in Italia soffrono le medesime problematiche.

Addio, Salvatore. Chissà quante volte ti avrò incontrato. Chissà che anche tu qualche volta mi avrai sentito urlare come un pazzo: «Uagliù, jatevenne. Fujt. A vit è bell. Fuitevenne a ccà...». Ragazzi, andate via. Scappate. La vita è bella. Scappate via di qua. Tanti di voi, avete abbassato lo sguardo, altri mi hanno risposto malamente. Qualcuno invece, al calar della sera, è venuto a cercarmi in chiesa e mi ha aperto il cuore. Mi piace pensare che tra coloro che hanno varcato la soglia benedetta di quel luogo benedetto c’eri anche tu, Salvatore.

 
 
 

Ciao Gino. Grazie!

Scriveva Gino Strada: “Io sono un chirurgo. Ho visto i feriti (e i morti) di vari conflitti in Asia, Africa, Medio Oriente, America Latina e Europa. Ho operato migliaia di persone, ferite da proiettili, frammenti di bombe o missili. A Quetta, la città pakistana vicina al confine afgano, ho incontrato per la prima volta le vittime delle mine antiuomo. Ho operato molti bambini feriti dalle cosiddette 'mine giocattolo', piccoli pappagalli verdi di plastica grandi come un pacchetto di sigarette. Sparse nei campi, queste armi aspettano solo che un bambino curioso le prenda e ci giochi per un po’, fino a quando esplodono: una o due mani perse, ustioni su petto, viso e occhi. Bambini senza braccia e ciechi. Conservo ancora un vivido ricordo di quelle vittime e l’aver visto tali atrocità mi ha cambiato la vita”.

Dobbiamo convincere milioni di persone - scriveva ancora - del fatto che abolire la guerra è una necessità urgente e un obiettivo realizzabile. Questo concetto deve penetrare in profondità nelle nostre coscienze, fino a che l’idea della guerra divenga un tabù e sia eliminata dalla storia dell’umanità”.

Se l'uomo non butterà fuori dalla storia la guerra - ripeteva Gino Strada -, sarà la guerra che butterà fuori dalla storia l'uomo".

 
 
 

Quelli che sanno perdere

Post n°3631 pubblicato il 08 Agosto 2021 da namy0000
 

Tokyo 2020. Quelli che sanno perdere (Un altro mondo è possibile)

Omaggio alle altre storie di successo delle Olimpiadi, anche a Tokyo

«Perdere così fa male all’anima…». Lo disse Petra Zublasing, alle Olimpiadi di Rio nel 2016, dopo aver sbagliato per due millimetri l’ultimo colpo nella gara della carabina da 10 metri. Anima, sconfitta, radiografie di successi mancati. Sono le più contorte e le più struggenti. L’altro ieri una di queste fotografie se la è autoprodotta Frank Chamizo, cubano d’Italia, uomo di lotta e di sentimento. Arriva ai Giochi sapendo di essere il più bravo del mondo, invece in semifinale trova un bielorusso col nome che sembra un codice fiscale, Kadzimahamedau, contro il quale non aveva mai perso. E infatti perde. Addio medaglia d’oro, e poi anche quella di bronzo: «Sono distrutto – dice appena riesce a raccattarsi – è il lavoro di una vita andato in fumo».

Storie di perdenti, a loro modo belle e coinvolgenti. E’ quando si perde che si capisce il senso profondo delle cose. Solo abitando un’Olimpiade si può capire quanta vita scorre dentro una gara andata male, una medaglia persa per un centesimo di secondo, o un’altra che se ne va per un voto malvagio. Si può vedere quanto possano tremare le mani a uno schermitore, un tiratore, un ginnasta quando sulla pedana o sul bersaglio ci sono quei cinque cerchi magnifici e maledetti. Si può sentire quanto fa male a un lottatore, un judoka, un pugile bruciare tutto nei tre minuti di un match. E percepire quanto sia forte la scossa che provoca un fotofinish che ti mette dietro, senza rimedio.

Sulla terra dei feroci e dei fanatici, questi Giochi però sono stati un’oasi: mai una protesta insensata, mai una sceneggiata cialtrona: perché loro sono atleti veri, gente abituata a soffrire. Conoscono lo sconforto dell’insuccesso, e lo praticano spesso. Ma solo dopo, quando avranno altri quattro anni per conviverci. Nel frattempo rendono onore a chi li ha battuti, riconoscono i meriti di chi ha fatto meglio di loro.

Prendete Nesthy Petecio, pugile, l’atleta filippina che ha battuto la nostra Irma Testa: in finale contro Sena Irie, giapponese, combatte come una leonessa. Il verdetto è incerto, i giudici invece dicono 5-0 per la sua avversaria: eccesso di compiacenza verso l’eroina di casa, succede spesso. L’angolo della filippina grida allo scandalo, lei no. Fa segno ai suoi che va bene così, non serve a nulla, non vuole macchiare la gioia dell’avversaria. Le alza il braccio, la applaude. Saluta e si congeda.

Si chiama semplicemente stile, forse. La parola che racconta meglio di tutti come siamo, anzi come riusciamo a essere nelle difficoltà, nelle emergenze e nelle pressioni, quando ci trasformiamo in un «sistema di sopravvivenza», come scrive Julian Barnes. Lì si capisce di che materiale siano fatti gli uomini e le donne. A volte basta un pensiero, una parola detta o non detta, perché lo stile è anche non dire quando è più opportuno tacere.

Lo hanno dimostrato anche Isaiah Jewett e Nijel Amos, che inseguono la finale degli 800 metri: americano il primo, del Botswana l’altro. Si tamponano in pista, cadono rovinosamente, Giochi finiti per entrambi. Potrebbero prendersi a sberle: colpa mia, colpa tua. Invece si danno la mano per alzarsi, zero parole: si abbracciano e camminando arrivano insieme al traguardo.

Sono fatti così, l’Olimpiade ne offre a mazzi di storie del genere. Capaci di vincere ma soprattutto di perdere. E allora viene in mente che sarebbe bello se potessimo essere come loro, anche solo per un quarto d’ora al giorno. Se sapessimo dire grazie. Se riuscissimo a essere concreti e seri, appassionati ma non fanatici. Se fossimo capaci di accettare un verdetto, anche doloroso: in famiglia, al lavoro, nello sport. Se potessimo mantenere quel tanto di ingenuità che ci permette di illuderci di avercela fatta, senza però precipitare nella depressione o nello sconforto quando scoprissimo che così non è. Se, insomma, sapessimo vincere e perdere con la stessa forza, compresa la debolezza. Se fossimo diversi.

Anche il giapponese Kanoa Igharashinomen omen, era quasi sicuro di vincere la medaglia più bella proprio sulla spiaggia dove era cresciuto facendo surf. Spunta un brasiliano però, Italo Ferreira, debuttante ai Giochi, e gli soffia l’oro sulla cresta dell’onda. Kanoa ci resta come uno che gli è appena passato un Tir sulla testa, ma è un attimo. Si asciuga la lacrima, vede che il suo avversario è in difficoltà con l’inglese mentre lo intervistano e corre in suo aiuto: «Hey man, sono qui, traduco io: è giusto che tutti ascoltino le tue parole, quelle del nuovo campione olimpico».
Gesti, facce, esempi. Non si vince il mondo così, ma certamente un poco lo si cambia.

 
 
 

Far risuonare la voce

Post n°3630 pubblicato il 07 Agosto 2021 da namy0000
 

 

2021, FC n. 32 del 8 agosto.

Far risuonare la voce

Vorrei spendere due parole sulla riflessione di quei genitori che vedono i figli allontanarsi dalla Chiesa. Tutto inizia con i primi segnali di insofferenza alla partecipazione alla Messa domenicale, si accampano le prime scuse, i primi “oggi no”, e, da lì, il gioco è fatto. È finita la fede da “bambini” e comincia la salita. Le mie figlie, oggi 25 e 23 anni, hanno iniziato così.

Io ho sofferto, pregato, ho cercato di trovare una motivazione. In fondo, mi dicevo, trovano il tempo di fare tante cose, cos’è poi un’ora alla settimana da dedicare a Gesù! Che loro trovassero quell’oretta per venire a Messa con noi solo per far piacere a me e mio marito, non l’ho mai voluto. La questione, per me, era molto, molto più seria.

 

Sono scesa nel profondo di me stessa per capire, analizzando anche il mio cammino di fede. Ho riflettuto, meditato, sono tornata agli anni in cui anch’io avevo la loro età, ho parlato a Maria nella preghiera, le ho chiesto consiglio, guida e lume. Ho cercato di non cadere nello sconforto, che è una trappola del maligno, nell’autocommiserazione, nel pensiero che fosse tutta colpa mia per non essere stata capace di far crescere in loro, insieme al resto, l’amore per Gesù. La tentazione è sempre in agguato perché sono pur sempre convinta che il primo catechismo avvenga in famiglia. Dal significato stesso della parola “catechismo”, che dal greco significa “far risuonare la voce”. La voce del Vangelo, la voce di Gesù, che attraverso di me doveva arrivare a loro. Sicuramente qualcosa ho sbagliato, ma di questo ho già chiesto scusa a Dio. So però che nulla è perduto e a tutto c’è rimedio se si cammina sulla terra con lo Spirito di Gesù come compagno di viaggio.

 

Non è la Chiesa che è inadeguata a parlare ai giovani o anacronistica nei suo rituali o lontana dal mondo reale. La Chiesa resta sempre la Chiesa, un tempo come oggi; è Gesù che sta con i discepoli che lo vogliono ascoltare e seguire. Questa è la Chiesa. E la buona novella è sempre quella, da qualunque parte la si giri. Non sarà certo trasformandola in danze e canti moderni, chitarre e quant’altro a renderla più appetibile ai ragazzi. Non è insomma questione di renderla al passo con i tempi o più desiderabile agli occhi del mondo moderno. I giovani se vogliono divertirsi o svagarsi sanno già dove andare. Non è la Chiesa che deve avvicinarsi allo stile di vita moderno incarnato dai giovani, ma sono i giovani che dovrebbero sentire, fra la giungla di desideri in cui sono immersi, il desiderio di Dio, la sete di infinito, la fame di silenzio nel caos del mondo, il desiderio di autenticità e di verità. E lo sentono, eccome. Basti pensare a come vanno di moda ultimamente le pratiche di filosofie orientali atte a “ritrovare se stessi”; quindi non è vero che i giovani sono superficiali e non pensano ai valori profondi o non sono interessati a trovare significati nella loro vita. Piuttosto bisogna stare attenti a dove vanno a cercarli, questi significati. E questo dipende anche da noi adulti, dalla testimonianza che diamo, dallo stile di vita che scegliamo, dal terreno che prepariamo per loro. E poi serve tempo, tempo per crescere. La vita è una ruota che gira, anche per loro.

 

Quando avranno questi aneliti nell’animo, e stiamo sicuri che li avranno, se il terreno preparato per loro è stato buono, dobbiamo stare certi che in una chiesa ci entreranno, prima o poi. E quando lo faranno, troveranno sicuramente ciò che cercano. E scopriranno che non ci sarà nulla di anacronistico o antiquato. La Parola, che non conosce età, sarà fresca e illuminante come allora; colmerà ogni loro vuoto e gli darà quella pace e quella forza per affrontare il mondo moderno in cui sono dentro. Ed è tanta la gioia che si sente quanto si sa di essere cari a Gesù, che è lì ad aspettarli, e sempre, mai è successo il contrario, si fa trovare da coloro che lo cercano con il cuore in mano. Quando il Signore li chiamerà non è dato però a noi mamme saperlo. Affidiamoli a lui e staranno al sicuro. Io mi sono fidata e vedo ogni giorno la sua mano premurosa nella vita delle mie figlie. Quante grazie. E loro nemmeno se ne accorgono. Io glielo faccio presente ogni tanto e loro sorridono. In fondo al cuore so che a loro modo pregano e credono.

 

Una è insegnate e l’altra infermiera. Nella difficoltà del loro lavoro capisco che hanno già dovuto fare i conti con la vita, loro e degli altri. La vita, quando la si pensa, è mistero. E dietro il mistero c’è sempre un interrogativo. Che nessuna scienza potrà mai spiegare. Nemmeno nel mondo più evoluto o fra cent’anni. Perché dietro il soffio che dà la vita a ogni creatura c’è solo Dio. Quindi cominciare a pensare alla vita è il primo passo per cominciare a pensare a Dio.

 

Concludendo, dico alle mamme e ai papà della mia generazione (fra pochi giorni compirò cinquant’anni) che sicuramente una volta le chiese erano più intasate di giovani, ma quanti erano lì per desiderio di stare con Gesù, per portare una vera lode al Signore, per volontà propria o piuttosto per tradizione o abitudine? La Chiesa è a un bivio, ma non è il numero dei discepoli a renderla migliore o peggiore. Tutto sta nell’uomo e nel suo desiderio di Dio. Siamo legati da un filo lunghissimo al Cielo, elastico al punto che ci porta talmente lontano da non vederne più l’inizio. Quel filo però l’ha in mano Dio, e deciderà lui quando tirarlo. Noi mamme dobbiamo pregare tanto, al punto di far prepotenza al cuore di Dio, affinché tiri il filo dei nostri figli vicino a lui, prima che si spezzi nelle lande del mondo. La preghiera è l’arma più potente che abbiamo in questo mondo confuso e superbo. E con la preghiera e il sacrificio si possono portare tante anime a Dio. Questa è la mia speranza – Giovanna P. , Cisano

 

 
 
 

A te che non puoi più correre

Post n°3629 pubblicato il 06 Agosto 2021 da namy0000
 

2021, Avvenire 6 agosto

Lettere da Tokyo. A te che non puoi più correre la corsa della vita

Il cappellano degli azzurri: lo sport dia a tutti, a cominciare dagli oppressi, la possibilità di mettere in movimento i talenti, come forma alta di riscatto e inclusione sociale

Giochi olimpici di Tokyo. Chiediamo a don Gionatan De Marco a chi vorrebbe scrivere oggi la sua lettera.

Oggi ho deciso di scrivere a tutti quegli uomini e quelle donne a cui guerra, violenza, discriminazione, abuso ancora oggi negano il diritto a far correre la vita.

Cosa vuoi scrivere?

“Carissimo amico, carissima amica,

per me oggi tu non hai un nome da evocare, ma rappresenti la miriade di persone a cui è stata negata la possibilità di correre quando, come in quel lontano 6 agosto fissato nella memoria di tutti, la follia della guerra, delle armi e della violenza spegne vite e, con esse, i sogni! Follia pura che si arroga il diritto di bruciare via in un solo colpo migliaia di nomi e di volti! E le Olimpiadi di Tokyo attraversano oggi questo triste anniversario, emblema di tutti gli anniversari che ricordano una morte violenta! Ecco, perché oggi voglio scrivere a te, che in quei giorni hai visto interrompere la tua corsa. Non hai un nome, ma li racchiudi tutti! E non rappresenti solo le corse tagliate di un popolo, ma rappresenti tutti quegli uomini e quelle donne a cui guerra, violenza, discriminazione, abuso ancora oggi negano il diritto a far correre la vita!

Oggi, come ieri, occorre ascoltare il grido di coloro a cui viene negato il diritto di correre! Occorre disarmare le menti e far conoscere i veri motivi che sostengono ogni tipo di guerra e di violenza: l’egoismo e l’insaziabilità di profitto e di potere. Occorre disarmare ogni forma di indifferenza, perché la vita di tutti ci deve interessare che stia scritta nel campionato della storia. Occorre chiamare per nome ogni cosa che taglia le corse vitali degli uomini e delle donne di ogni tempo! È questione di fair play!

Oggi, come ieri, occorre prendere posizione in favore di coloro a cui viene negato il diritto di correre! Noi, cronisti contemporanei, dovremmo dar voce a quelle storie cariche di significato perché parlano di riscatto, di sacrificio, di folle ostinazione per il bene. Occorre, oggi più che mai, ridare slancio alle corse rallentate degli oppressi, che non sono solo i popoli di quello che noi chiamiamo sud del mondo, ma sono forse i nostri vicini di casa o compagni di gioco che vedono sempre rimandato il loro turno nella maratona della felicità. È questione di fair play!

Oggi, come ieri, occorre lottare perché venga ridato il diritto di correre a quanti questo diritto è stato negato! Occorre organizzare avamposti in cui, anche attraverso lo sport, vengano riattivate le possibilità per tutti a far parte della classifica dei benedetti! Occorre organizzare avamposti in cui, soprattutto attraverso lo sport, dare a tutti la possibilità di mettere in movimento i talenti, come forma alta di riscatto e inclusione sociale. E non è solo questione di fair play! È questione di scommessa sul futuro! Un futuro che chiede a tutti, nella corsa della vita, di dare il massimo e, soprattutto, di dare il meglio!”.

Gionatan De Marco

direttore dell’Ufficio nazionale Cei per la pastorale del tempo libero, turismo e sport

Cappellano della squadra italiana

 
 
 

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