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Un mondo nuovo

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Messaggi di Ottobre 2023

La "scala del pollaio"

Post n°3929 pubblicato il 26 Ottobre 2023 da namy0000
 

2023, Avvenire 25 ottobre

La vita come la “scala del pollaio” e il seme che la cambia

Da bambino avevo un libro sul Vangelo di Luca, tutto a riquadri illustrati. Mi affascinava, l’ho letto più volte. Mi colpivano molto in particolare le parabole e, tra questa, quella del seminatore, che, devo confessarlo, non mi convinceva granché. Certo, alla fine il terreno buono produce cento volte tanto, la Parola porta frutto, però quanta fatica. E tutto quel seme sprecato sulla strada, sul terreno roccioso, tra i rovi? Pensavo che il seminatore fosse poco oculato, disattento. Quando sono diventato prof, ho capito che il seminatore dovevo essere io. A insegnarmelo è stato Umberto, un allievo di terza istituto tecnico, la classe più difficile che abbia mai avuto.

Ero al mio primo anno da docente. I ragazzi, tutti maschi, tutti alleati tra loro, avevano fiutato la mia paura fin dal primo giorno in cui ero entrato in classe e, ovviamente, ne avevano approfittato. Non mi rispettavano, mi prendevano in giro di continuo, non riconoscevano il mio ruolo. Alla fine, esasperato, mi ridussi a contare il numero di giorni che mancavano alla fine della scuola, quando la supplenza sarebbe terminata: li depennavo dal calendario come un carcerato, uno dopo l’altro. Il più spietato di tutti era Umberto: privo di interesse, mago della bigiata, sempre impreparato. Una volta, durante una verifica, era stato sorpreso con dei bigliettini e, per togliere di mezzo le prove del suo misfatto, se li era mangiati davanti a tutti, come fanno le spie nei film, suscitando una ilarità tale nella classe che era stato impossibile concludere la prova.

Proprio Umberto fu il protagonista assoluto della prima lezione della mia vita sulla Divina Commedia. La mattina mi ero svegliato entusiasta: avrei dovuto raccontare il ventiseiesimo canto dell’Inferno, quello di Ulisse, uno dei brani più belli mai scritti nella storia dell’umanità. Me lo ripetevo spesso a memoria; a volte lo recitavo da solo, lasciandomi prendere dallo splendore dei versi. Ero sicurissimo che Dante avrebbe scalfito un pochino l’indifferenza anche di quella terza, perché il sommo poeta ha un tocco magico che non può lasciare indifferenti. In effetti fu così, almeno un pochino. Ma prima ci fu lo show di Umberto. Entrato in classe, decisi di improvvisare per spingere i ragazzi a mettersi in gioco. Avendo in mente il grande viaggio che tutta la vita dell’Ulisse dantesco era stata, quel suo inseguire «virtute e canoscenza» fino all’estremo orizzonte, chiesi d’impulso: «Qual è, secondo voi, il senso della vita?».

Silenzio assoluto. La paura di esporsi davanti agli altri aveva fatto il miracolo: aveva zittito quella classe perennemente agitata. Nel silenzio però spiccava una mano alzata con decisione, quella di Umberto. Era così serio che non sospettai nulla. «Dimmi, Umberto». «Secondo me aveva ragione mio nonno, che diceva che la vita è come la scala di un pollaio». La scala di un pollaio? Non l’avevo proprio mai sentita. Non capivo il paragone. Ma, essendo molto legato a mio nonno, pensavo a tutti i nonni come a degli anziani saggi: mi immaginai, nonostante le apparenze, qualcosa di inatteso, di illuminante. «In che senso, scusa?», chiesi. Umberto, paziente, ripeté e completò il modo di dire del suo avo: «La vita è come la scala di un pollaio: corta e piena di merda». Risate. Sipario sulla saggezza degli antenati. Fine della discussione.

Ci rimasi male, ovviamente. Non tanto per l’infelice uscita di Umberto, ma per ciò che nascondeva: il nulla. Un cinismo pazzesco, una visione senza speranza, un pessimismo privo di prospettive. La vita fa schifo ed è breve, punto. Possibile che un sedicenne non avesse null’altro da dire? L’anno successivo non fui più prof di quella classe. Persi di vista tutti gli allievi. Passarono anni. In una calda sera di luglio, quando ormai avevo dimenticato Umberto e la scala del pollaio, un amico mi invitò a una mostra dal titolo “La rinascita di Sarajevo dopo la guerra in Bosnia“, che si teneva nel circolo di un’associazione in centro a Milano, a due passi dai Navigli. Ci andai: la storia della ex Jugoslavia in generale e quella della Bosnia Erzegovina in particolare mi hanno sempre interessato. Non c’era molta gente. I presenti erano quasi tutti over quaranta: la mostra era bellissima, ma Milano a luglio, nella zona dei Navigli, offre possibilità che a un giovane in cerca di spensieratezza possono sembrare ben più allettanti.

Un ventenne però c’era: massiccio, barbuto, coi capelli lunghi, in sandali, calzoncini e maglietta. Mi venne incontro sorridente, salutandomi con un ciao, come se fossimo amici da sempre. Ricambiai dubbioso, certo che mi avesse scambiato per qualcun altro. Non l’avevo riconosciuto. Da vicino, a rivelarmi chi fosse, furono gli occhi azzurrissimi, con una punta di allegra malizia. «Prof! Come stai?». «Umberto! Che sorpresa!». Era proprio lui, Umberto: quello della scala del pollaio. Era lì, a una mostra su Sarajevo che parlava di dolore e di ripartenza, di rinascita e di futuro. Aveva scelto quella opzione e non i Navigli. «Che ci fai qui?», chiesi stupito. Ciò che mi raccontò mi commosse moltissimo perché, inconsapevolmente, mi spiegò meglio di chiunque altro la parabola del seminatore.

«Prof, intanto scusa: quando tu eri mio insegnante ero proprio un...»: disse una parola che non scriverò qui. Non lo smentii. «Però in quarta superiore è cambiato tutto», continuò. «La prof che è arrivata dopo di te ci ha dato da leggere I dolori del giovane Werther di Goethe e io proprio in quel momento stavo vivendo una storia strana con una tipa, una roba malata. Vuoi che ti racconto?». «No, grazie, Umberto. Puoi risparmiarmi i dettagli».

«In quel romanzo ho scoperto che la storia del protagonista era più malata della mia - proseguì Umberto -. Mi ci sono specchiato un po’. Mi ha fatto male, ma anche bene. Forse mi ha addirittura salvato. Così ho capito che leggere, che studiare, può servire davvero, e mi ci sono messo. E allora ho scoperto un’altra cosa: alle superiori avevo sbagliato totalmente indirizzo. Così, all’università, ho cambiato: mi sono iscritto a Scienze dell’educazione e grazie ai miei studi ho conosciuto questa associazione. È tre anni che d’estate vado in Bosnia come volontario. Faccio l’animatore in un progetto sportivo che unisce ragazzi di etnie diverse. I padri combattevano gli uni contro gli altri in guerra, i figli giocano insieme. È bellissimo, prof. Fare l’educatore è proprio la mia vita». Tacque un istante, prima di cambiare argomento. “Ho anche una fidanzata. Stiamo bene insieme. Parliamo di sposarci. Proprio io, se lo immaginava?».

Non risposi. Abbassai lo sguardo perché avevo gli occhi lucidi. Non riuscivo a non commuovermi di fronte al miracolo di quel ragazzo che aveva sfondato la scala del pollaio e si era avventurato in mare aperto, proprio come Ulisse. Tutto era partito da una prof che gli aveva assegnato un libro. Quello era stato il seme giusto, tra i tanti finiti tra i rovi e sulla strada. Il seme caduto sul terreno fertile del suo dolore, della sua vita. Il seme che aveva portato frutto cento volte tanto. Capii che nessun seme è davvero sprecato, se anche uno solo va a segno. Perché un solo seme nel terreno fertile cambia tutto.

 
 
 

Le challenge

2023, Avvenire 24 ottobre

Le sfide social ora sono sul cibo, rischio trappola per 243mila ragazzi

L’ultima frontiera delle challenge tra gli adolescenti, inaugurata dalla “Hot chip” (nel mirino dei Nas), è quella con gli alimenti: facili da acquistare, ma che diventano pericolosi per la salute

Sulle sfide social – quelle che in un gergo ormai diventato immediato anche per gli adulti prendono il nome di challenge –si è parlato tanto in occasione dell’incidente di Casal Palocco dello scorso giugno. Allora si tornò a spiegare, con forza, che il rischio di perdere il filo tra il mondo virtuale e la realtà può anche uccidere, ciò che accadde al piccolo Andrea, morto stritolato tra le lamiere della smart della sua mamma dopo quell’incidente terribile.

In queste ultime ore lo spettro di un fenomeno illuminato dai media (col rischio di amplificarne la diffusione) e non ancora affrontato con l’incisività necessaria (nonostante la stretta annunciata proprio in questi giorni dall’Ue sui contenuti veicolati dagli influencer) torna però prepotentemente alla ribalta. E non solo per la vicenda delle due bambine di 12 anni che sono finite in ospedale ieri, in Sicilia, dopo aver ingerito della candeggina, che una di loro aveva addirittura portato a scuola, in una bottiglietta.

Coincidenza impossibile, secondo gli inquirenti, che hanno subito ipotizzato la possibilità che tra i più piccoli stia circolando una nuova, pericolosissima sfida veicolata proprio dai social. A tener banco ormai da giorni anche nel nostro Paese è soprattutto la moda della “Hot chip challenge”, ovvero la patatina superpiccante venduta liberamente su Internet che ha già fatto una vittima negli Stati Uniti (dove è stata ritirata dal mercato) ai primi di ottobre, un ragazzo di 14 anni morto dopo una crisi respiratoria.

I pacchetti, monoporzione ed eloquentemente a forma di bara, sono finiti in queste ore sotto la lente del Nas per volere del ministero della Salute, in seguito alla segnalazione di alcuni malori: a rendere pericoloso l’alimento sono infatti i suoi ingredienti, Carolina reaper e Trinidad scorpion, due varietà di peperoncino entrate nel Guinness dei primati come i più piccanti al mondo. Scopo della sfida, il cui hashtag conta già su 131 milioni di visualizzazioni: mangiare la patatina e resistere il più possibile senza bere acqua.

La verità, documentata dagli esperti dell’Istituto superiore di sanità in una recente ricerca condotta sugli adolescenti, è che delle 243mila challenge a cui gli studenti italiani tra gli 11 e i 17 anni hanno partecipato almeno una volta in un anno, le più diffuse sono sempre più spesso quelle legate al cibo. Intanto perché le sfide sono più facili da realizzare: il cibo si compra ovunque, liberamente, a prezzo accessibile.

«E poi le sfide che hanno il cibo come protagonista – spiega Claudia Mortali, che è prima ricercatrice del Centro nazionale dipendenze e doping dell'Iss – sembrano meno pericolose di quelle che, tanto per fare un esempio, richiedono di buttarsi da un piano alto dentro una piscina. Magari la finalità iniziale di chi ci entra è quella di far ridere, nell’idea dei ragazzini il rischio non è così grande e si pensa di poterlo tenere sotto controllo. Tutt’al più di poter avere un disagio momentaneo».

Niente di più falso. E se, nel caso della “Hot chip”, spiegarlo ai propri figli diventa di nuovo urgente, sono soprattutto le conseguenze di queste prime sfide all’apparenza innocue a dover essere prese in esame a lungo termine. La social challenge «non è una dipendenza – avverte ancora l’esperta dell’Iss –, ma un comportamento legato a un uso distorto del cellulare e dei social. È tuttavia fortemente connessa a comportamenti di dipendenza. Nel corso della nostra ricerca abbiamo visto infatti che tutti coloro che avevano dei comportamenti già problematici rispetto al tema delle dipendenze comportamentali praticavano le social challenge in misura maggiore rispetto a coetanei che non avevano questo rischio».

Per dirla in numeri: se fra gli 11-13enni, cioè i ragazzi delle scuole medie, si cimenta in sfidecirca un 7% di chi non presenta rischi di dipendenza, questa percentuale arriva fino al 20-23% fra gli studenti che questo rischio di dipendenza e ritiro sociale ce l'hanno». E ancora: rispetto al cibo c'è anche un altro problema, «usato in un certo modo – avverte Mortali – può correlarsi ai disturbi alimentari».

Quelli che, dalla pandemia in avanti, hanno fatto registrare un record di malati proprio tra i teenager: oltre un milione e mezzo. Allarmi e raccomandazioni, come al solito, rimbalzano addosso sui genitori: «Non lasciate i figli troppo soli con i loro smartphone» avvertono dall’Iss. Ma negare il cellulare e la possibilità di creare account prima di una certa età rimanda solo il rischio: servono, il più presto possibile, altre soluzioni.

 
 
 

Il sogno della pace è possibile

2023, Avvenire 21 ottobre

Quel kibbutz con radici bergamasche che coltiva il sogno della pace

I semi calpestati di una convivenza possibile germogliarono nel 1947 nel deserto del Negev. A venti chilometri dalla Striscia di Gaza e a poco più di cinque dall’Urban warfare center, la finta cittadella araba dove i militari israeliani dal 2005 si addestrano alla guerriglia urbana. Il kibbutz di Tze’elim nacque inseguendo un sogno di pace, ma poi si è ritrovato l’esercito come ingombrante vicino di casa. Una beffa del destino. Eppure i bambini arrivati da Selvino hanno sempre vissuto tendendo la mano ai palestinesi. Perché così gli avevano insegnato i maestri che li accolsero a Sciesopoli, ex colonia fascista sulle montagne bergamasche riciclata in centro di accoglienza.

Dopo il 1945 in Val Seriana arrivarono 800 piccoli orfani sopravvissuti ai lager, raccolti dalla Brigata ebraica e dalla Bricha - l’organizzazione che radunò gli scampati all’Olocausto - mentre vagavano attorno ad Auschwitz o nelle foreste tra Polonia, Ungheria e Romania. Da Selvino quella generazione perduta ripartì clandestinamente verso la Palestina, per «costruire una società finalmente protettiva, fondata sul dialogo e la collaborazione con gli arabi che già vivevano in quella terra», spiega Marco Cavallarin, lo storico milanese che nel 2012 tolse dall’oblio la meravigliosa storia di Sciesopoli. Ma prima di attraversare il Mediterraneo in senso opposto rispetto ai migranti di oggi, i bambini «furono riportati alla vita» grazie al lavoro paziente di insegnanti e psicologi, con l’aiuto degli stessi abitanti di Selvino, degli ebrei milanesi e del Cln. Lezioni di musica e teatro, interrotte da tante partite di pallone, per riscoprire il significato dell’essere umani, cancellato nei campi di concentramento.

Con quel bagaglio di speranza salparono dai porti italiani, insieme ad altri 30mila ebrei, nascosti a bordo di mercantili o pescherecci: chi riuscì a superare il blocco navale della marina britannica, sfuggendo ai campi di prigionia inglesi a Cipro, sbarcò sulle coste della Terra promessa. Quattro bambini di Sciesopoli, ormai ragazzi, morirono combattendo nella guerra del 1948, la prima tra il neo proclamato Stato di Israele e i vicini arabi. Molti si insediarono invece nel kibbutz di Tze’elim, appena fondato dai movimenti giovanili ebraici. Da orfani si trasformarono in padri e madri, e iniziarono a sviluppare l’agricoltura intrecciando i saperi europei con la conoscenza della terra che solo gli arabi possedevano.

Alcuni di loro abitano ancora nel villaggio (sfiorato dall’attacco di Hamas) e continuano a trasmettere quei valori a figli e nipoti. «Nonostante i conflitti, a Tze’elim si è sempre coltivata la tolleranza: non solo tra ebrei e musulmani, ma anche verso i cristiani – dice Cavallarin -. Molti avevano amici tra gli arabi, avevano relazioni. In altri kibbutz c’erano scuole miste. Chi avrebbe immaginato, nel 2023, di assistere a un nuovo pogrom, quello di Hamas. Ancora una volta quegli ideali sono stati violentati, nel modo più orribile». I bambini e i giovani nel mirino, oggi come 80 anni fa.

«Credo che ci sia un programma ben preciso in tutto questo – riflette Cavallarin –. Colpire le nuove generazioni significa uccidere il futuro di un popolo. Lo abbiamo visto con il massacro del Bataclan, lo abbiamo rivisto ora. Siamo tornati indietro nel tempo, perché i nazisti fecero le stesse cose. Nei lager i primi a essere eliminati furono i vecchi, considerati un fastidio, ma poi si passò ai più piccoli. Durante il rastrellamento del 16 ottobre 1943 nel ghetto di Roma furono portati via 200 bambini: nessuno di loro fece ritorno». Di fronte allo scenario di guerra che incombe sul Medioriente, il ricordo di Sciesopoli sembra sbiadire sempre più. Ma la memoria, insiste Cavallarin, va conservata.

«A Selvino abbiamo fatto un museo, è allestito in municipio: lo visitano le scolaresche di tutta Italia. Otto anni fa organizzammo un raduno degli ex bambini, vennero in tanti da ogni parte del mondo. Una festa bellissima». Il coro della scuola elementare di Selvino intonò le strofe di Gam Gam, la canzone ispirata al Salmo 23 che gli ebrei cantano durante lo Shabbath: «Anche se andassi per le valli più buie, di nulla avrei paura, perché tu sei al mio fianco».

Quel giorno l’86enne Sidney Zoltak, accanto agli amici ritrovati, si lasciò sfuggire una lacrima silenziosa. Poi disse: «Ricordare è duro, ma necessario». Purtroppo non basta. La spirale di violenza sembra non avere mai fine. «Prevalgono gli integralismi – riflette Cavallarin, che ha parenti in Israele e una nipote arruolata – da una parte e dall’altra. E in Occidente ci dividiamo in fazioni, tifando per questo o per quello. Un atteggiamento che dà sicurezza a chi, non avendo ricchezza di pensiero, è incapace di affrontare la complessità. Invece bisognerebbe essere più miti: mostrando umanità, potremmo innescare un circolo virtuoso e provare a immaginare un mondo diverso, migliore».

 
 
 

Aiuto! Nel mondo sta scomparendo l'amore

Post n°3926 pubblicato il 21 Ottobre 2023 da namy0000
 

2023, FC n. 42 del 15 ottobre

Scompare l’Amore ma non mi arrendo

C’è davvero da chiedere soccorso se nel mondo non c’è più l’Amore. Se quell’energia divina che «move il sole e l’altre stelle», per dirla con Dante, ha smesso di animare l’agire dell’uomo, il futuro che si prepara non può che essere di distruzione e di morte. Lo dice con chiarezza, ma anche senza cedere a un pessimismo nichilista, il cardinale Angelo Comastri nella sua ultima fatica appena edita da San Paolo, Aiuto! Nel mondo sta scomparendo l’Amore. È un grido d’allarme il libro del vicario generale emerito di papa Francesco per la Città del Vaticano e per le Ville pontificie di Castel Gandolfo, arciprete emerito della basilica di San Pietro in Vaticano e presidente emerito della Fabbrica di San Pietro.

«Questo allarme», spiega, «nasce da una provocazione che mi ha profondamente ferito. E la provocazione viene dalla rivista tedesca Der Spiegel, che tempo fa è uscita con una copertina raffigurante un giovane che bacia sé stesso allo specchio. Sull’immagine la scritta “La società del futuro, la società dell’io!”. Ho pensato che il futuro sarà un mondo di egoisti, un mondo di persone incapaci di amare. E subito mi sono venute in mente queste lucide parole di Madre Teresa di Calcutta: “Sfido chiunque: non troverete mai un egoista felice!”. Vogliamo un mondo così? Vogliamo un mondo di egoisti infelici e violenti? Osserviamo i fatti: si ripetono stupri a Palermo, a Caivano, a Milano, a Torino. Non solo! A Milano una mamma (che dovrebbe essere il simbolo dell’Amore!) lascia morire la figlia di 18 mesi abbandonandola sola in casa… perché non voleva perdere l’amore – così si è giustificata – del suo ultimo compagno! Vogliamo andare in questa direzione?».

Lei riporta la confessione di Julian, figlio di John Lennon, che di suo padre dice di avere un solo ricordo, quello della sofferenza inflitta a lui e a sua madre. E aggiunge che il fondatore dei Beatles non ha mai amato nessuno. Pensa che i grandi miti siano, in realtà, incapaci di dare (e seminare) amore?

«È vero! E se continuiamo a incensare questi miti non abbiamo futuro. Nel 1950 avevo sette anni e ricordo benissimo la partenza di un pullmann scassato (eravamo nel dopoguerra) per portare a Roma 50 giovani del mio paese dalla Toscana. Sapete dove andavano? Alla canonizzazione di Maria Goretti. Partecipò una grande folla di giovani perché si riconoscevano nelle scelte di quella ragazza e capivano che, senza purezza, non può esistere un vero amore, ma soltanto il capriccio (cosa ben diversa). Oggi dove andrebbe un pullmann di giovani? Andrebbe a un concerto (è accaduto!) dove un celebre cantante ha proclamato: “Cerco un senso a questa vita anche se questa vita un senso non ce l’ha!”. E i giovani, ingannati da questi messaggi, volete che trovino un senso all’amore? volete che vivano l’amore come impegno? Non sarà mai possibile se diamo ai giovani questi segnali».

Sesso e amore sono davvero oggi così disgiunti e perché questa frattura?

«La sessualità è il linguaggio attraverso il quale, nel disegno del Creatore, deve esprimersi l’Amore. E dall’Amore di un uomo e di una donna, espresso attraverso il linguaggio del corpo può sbocciare una nuova vita umana. Il libro della vita è scritto così. Nessuno può negarlo! Ma oggi cosa sta succedendo? La sessualità non è più al servizio dell’amore, ma è fine a sé stessa: è gioco, è capriccio, è egoismo. Nel mio libro ho raccontato la storia drammatica, ma al tempo stesso eloquente, di Alessandra, figlia del celebre politico Antonio di Rudinì. La sua vita venne sconvolta quando trovò il padre abbracciato con una donna che non era la sua sposa. Lo racconto nel mio libro. Madre Teresa di Calcutta diceva: “Il più bel dono che un padre può fare ai propri figli è amare la loro madre, e il più bel dono che una madre può fare ai propri figli è amare il loro padre”».

Ci sono però anche esempi controcorrente, anche nel suo libro.

«Il vero maestro dell’amore è Dio, Dio, infatti, è Amore. se vogliamo imparare l’-amore, dobbiamo andare a scuola da Lui. Così hanno fatto tante famiglie e tanti uomini e tante donne che anche oggi hanno il coraggio di vivere l’amore vero e lasciano dietro di sé una vera scia di luce che riempie il cuore di speranza. Il mondo può essere diverso. Dipende da noi». 

 
 
 

Il Desiderio

Avvenire, 17 ottobre 2023

Elia "stronca" Petrarca: il desiderio conta più della volontà

Ho sempre adorato Francesco Petrarca: mi ha conquistato fin dalla prima volta in cui mi sono imbattuto nei suoi versi. Quel suo dissidio interiore è il mio, quella sua tensione spirituale che fa continuamente i conti con le sue debolezze è la mia; forse è un po’ quella di tutti noi. Per questo in classe dedico diverse ore alla lettura dei testi di Petrarca, soprattutto alle poesie del Canzoniere. Dedico però anche un paio di lezioni agli altri suoi componimenti, tra cui il Secretum.

Proprio mentre presentavo il Secretum, Elia, un allievo di terza superiore, ha distrutto Petrarca in un solo secondo. Nel Secretum Petrarca immagina di incontrare sant’Agostino, che, seppur vissuto molti secoli prima, l’autore considera una sua guida. Nel dialogo che si sviluppa tra i due emerge prepotentemente la crisi spirituale di Francesco. « L’opera è divisa in tre libri » , ho spiegato quel giorno alla classe. « Nel primo, Agostino rimprovera Francesco per la debolezza della sua volontà, che gli impedisce di mettere in pratica le sue aspirazioni a una vita più virtuosa. Senza volontà, infatti, ogni proposito, seppur buono, è velleitario».

E qui, dal fondo della classe, Elia mi ha interrotto. « Petrarca dice cazzate!> »: un’esclamazione di tre parole per spazzare via uno dei miei autori preferiti. Ho fissato Elia “con occhi di bragia”, per citare il Sommo Poeta (che, peraltro, a Petrarca non andava a genio, ma questa è un’altra storia). Elia ha sostenuto il mio sguardo. “Con tutto il rispetto, eh, prof ” ha aggiunto imbarazzato: si era reso conto benissimo che gli era sfuggita un’espressione scomposta, per usare un eufemismo. Ho capito che non mi stava provocando, che voleva solo dire la sua. Era un mezzo miracolo, perché, fino a quel momento, Elia non era mai intervenuto in una lezione di Italiano.

Era un tipo simpatico, sorridente, benvoluto dai compagni, pronto alla battuta anche con me e con gli altri insegnanti all’intervallo o davanti a scuola. Ma, durante le lezioni, Elia si trasformava in un altro personaggio: assumeva un’espressione di annoiata sufficienza, appoggiava la testa improvvisamente pensante sulle mani, lottava con le palpebre che tendevano a chiudersi. A casa studiava pochissimo e consegnava sempre elaborati striminziti, sempre in ritardo. Insomma, era un maestro della mancanza di volontà, almeno dal mio punto di vista. Forse per questo il rimprovero di Agostino a Francesco lo aveva colpito tanto da spingerlo a intervenire.

Ho colto la palla al balzo: « Perché la pensi così? Cosa non ti convince? ». « Prof, Petrarca sbaglia a far dire a sant’Agostino che per raggiungere i propri obiettivi serve la volontà. La volontà non basta per niente. Nessuno si attiva solo per la volontà. Io no di certo. Non accetto la fatica solo perché so che una cosa in teoria è giusta e allora, razionalmente, decido di volerla. Serve ben altro». «E cosa serve?» , gli ho chiesto.

Mi ha risposto senza esitare: «Il desiderio, prof. Serve il desiderio. Uno ce la mette tutta se davvero gli si accende il desiderio per qualcosa. Guardi me: non mi interessa studiare, lo faccio poco e male. Eppure so razionalmente che dovrei impegnarmi di più, che potrebbe essermi utile, che eviterei le lamentele dei miei genitori e vivrei meglio. Ma niente, non ce la faccio: non mi si accende il desiderio, sento che quello che dovrei studiare non mi riguarda, non tocca la mia vita. La musica, invece...».

Così Elia ha cominciato a raccontare dalla sua passione per la musica. Poi, visto che era suonata la campanella dell’intervallo, si è avvicinato alla cattedra e ha continuato a parlarmene. Ho scoperto un Elia diverso, con una parlantina inattesa, con gli occhi accesi da un fuoco che non immaginavo potesse esserci. Suonava tre strumenti. Componeva canzoni melodiche, dolcissime, che cantava con una voce acuta molto intonata. Me ne ha fatte ascoltare un paio: mi hanno commosso.

Quel pomeriggio ho ripensato a quanto successo in classe. Forse Elia aveva ragione; forse anche più del mio amato Petrarca. Le cose che danno sapore alla vita non sono astratti doveri, imperativi categorici disincarnati, obiettivi da raggiungere perché sappiamo freddamente che è giusto. Ciò che spinge a mettersi davvero in gioco è il desiderio, quella parola bellissima la cui etimologia rimanda alle stelle, alla loro luce che irresistibilmente attrae. Se un desiderio è autentico, se intuiamo che in esso si nasconde qualcosa di grande, la passione si accende, ci rende disposti a sopportare qualsiasi fatica. Per questo la scuola dovrebbe accendere desideri più che imporre aridi doveri. Tra i banchi, ogni studente dovrebbe essere stimolato a scoprire ciò che più profondamente desidera, perché il desiderio è la via per realizzare se stessi.

Nei giorni successivi, Elia mi ha regalato ancora qualcosa. Riprendendo il discorso sulla musica, Elia mi ha raccontato della gioia che provava quando altre persone ascoltavano le sue canzoni e ne rimanevano colpite. Non era una gioia narcisistica, ma la felicità di aver regalato qualcosa di bello agli altri. Elia mi ha ricordato così che i desideri autentici riguardano sempre gli altri, sono sempre una forma di dono, un modo per dare il proprio contributo al mondo. Mi ha ricordato che le altre persone contano sempre di più dei traguardi raggiunti.

È proprio quello che sostiene Laura, una meravigliosa ex allieva ora diventata prof di Italiano alle medie. Alla fine dell’anno scolastico, Laura mi ha scritto uno dei messaggi più belli che, da prof, abbia mai ricevuto. Diceva così: «Vedo tra i ragazzi delle medie tali potenzialità che mi sono buttata a capofitto nell’insegnamento. Qualche risultato si vede ed è un’enorme soddisfazione. È prezioso pensare di poterli affiancare per un po’ in un’età così delicata e poi, dopo la terza, vederli tornare, contenti del futuro che si sono scelti.

Forse quando ho deciso di seguire le tue orme mettevo al centro la materia in sé, ma adesso mi rendo conto di quanto sia la materia umana il vero fulcro e il vero senso del nostro lavoro. Insegnare è un privilegio, me ne rendo conto ogni giorno. Sono fiera di aver fatto questa scelta di vita: sono felice del mio percorso, di tutti i giorni facili e di quelli difficili. Ho promesso a me stessa di mettercela tutta: provo a rinnovare questa promessa ogni giorno, per le classi che incontrerò».

L’insegnamento è promessa, impegno. L’insegnamento è anche sforzo della volontà, è anche fatica. Ma è una fatica che si accetta volentieri, se ci si appassiona prima di tutto alla materia umana, mettendosi in gioco nelle relazioni: solo così si scopre che anche questa fatica, paradossalmente, è un privilegio. Bisogna desiderare di essere dentro le vite di coloro che incontriamo per accompagnarli meglio che possiamo. Bisogna, insomma, ricordare che la materia in sé è al servizio della materia umana. Bisogna amare la materia umana più che la materia in sé.

 
 
 

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