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Messaggi del 15/10/2023

Inseguendo il sogno europeo

Post n°3921 pubblicato il 15 Ottobre 2023 da namy0000
 

2023, FC n. 41 del 8 ottobre

In marcia per mesi e mesi. Inseguendo il sogno europeo

 

Sono quasi 8.000, 7.890 per la precisione, gli uomini, le donne e i bambini arrivati a Trieste da gennaio a luglio di quest’anno (2023) che hanno percorso la rotta balcanica, dopo un viaggio pericolosissimo segnato da violenze e respingimenti durato mesi, a volte anni; ben più del doppio delle persone arrivate nello stesso periodo, l’anno scorso, quando gli arrivi erano stati 3.191. Bisognosi di cure sanitarie, ma anche della possibilità di lavarsi, sfamarsi, essere informati sui loro diritti. Necessità a cui hanno risposto questi stessi enti che, nel solo 2022, nell’area della stazione della città hanno incontrato e assistito 13.127 persone, tra cui 1.406 minori stranieri non accompagnati, supplendo in gran parte all’inerzia e all’assenza delle istituzioni; il sistema di prima accoglienza, infatti, si è saturato rapidamente ed è esploso il fenomeno dei richiedenti asilo abbandonati per strada, lasciati all'addiacci’ dai 30 ai 70 giorni prima di poter accedere a quanto previsto dalla legge: ad agosto 2023 i richiedenti asilo senza accoglienza segnalati erano 494 a fronte di zero trasferimenti avvenuti in quel mese; ora sono circa 200, ma “anche la strada ha la sua capienza massima”, dice un operatore del Centro diurno. “Senza questa struttura sarebbe stata certamente una catastrofe: abbiamo più volte rischiato che qualcuno morisse e succederà a breve se non si farà nulla”. L’inverno è dietro l’angolo e la preoccupazione cresce sia tra gli operatori che tra gli accolti.

Ahsan, 37 anni, è uno di loro; è arrivato dal Pakistan due settimane fa, dopo un viaggio durato 7 mesi, e ha appuntamento in Questura per formalizzare la domanda di protezione internazionale il prossimo 3 gennaio 2024; al momento dorme all’aperto, al Silos, un luogo indegno di una città che voglia definirsi civile, regno di topi e pantegane. “La situazione è strutturale, non eccezionale, è data dalla condizione storico-geografica di Trieste. C’è una drammatica sottovalutazione degli arrivi dalla rotta con una precisa volontà di creare il caos per alimentare la macchina della paura e spingere i richiedenti asilo ad andarsene, pur sapendo che oltre il 70 per cento di loro è già orientato verso l’estero”.

 

Ceuta. È il miraggio di tanti giovani disperati

La testimonianza di un missionario.

Rabat. Una strana, immensa compassione: ecco cosa provo. Di sera, uscendo dalla casa in cui vivo, chiuso il portone, getto un occhio automaticamente al muretto accanto. Nascosto dalle auto in sosta, sul marciapiede, accovacciato come un cane, c’è Ibrahim. Oppure Mohammed, insieme a un amico, oppure Abdesalam… insomma, giovani migranti subsahariani, forse appena maggiorenni. Hanno in testa un sogno, un’idea fissa, inchiodata alla mente: arrivare in Europa. Leccano una scatoletta di sardine o succhiano uno yogurt strizzato tra le mani: una miserabilissima cena.

Hanno invece fame e sete di dignità. «La dignità umana ha la caratteristica di essere assente proprio là dove si presume sia presente, e di comparire sempre dove non c’è», annota Karl Kraus. Pare una vera scommessa fatta a sé stessi, alla famiglia, alla propria gente: riuscire a passare in Spagna, vivi o morti, inshallah! Assaltano dieci, venti volte la barriera con il filo spinato di 6 metri e un sistema di sicurezza a tutta prova come quello di Ceuta. Raramente con successo. Non hanno niente da perdere. Hanno solo un immenso coraggio incosciente, una giovinezza da barattare con la libertà. Mentre ti parlano girano gli occhi a destra e a sinistra, sospettosi di tutto. Possono cadere d’improvviso in una retata e venire trasportati all’istante ai confini con l’Algeria o verso il deserto. Anche se il Marocco ha la grande “noblesse” di permettere di vivere nel suo territorio pure senza documenti. Vite giovani che fanno solo compassione. Sapendo che questo Paese è solo un corridoio (dove possono rimanere bloccati mesi o anni), ma vengono da lontano, attraversando Niger, Mali, Algeria, deserti e frontiere. Vivono sotto un sole che brucia la testa e le spalle, stendendo la mano per strada per un dirham. (…)

«Per avere la dignità bisogna passare per tante indegnità». A fine giornata si ritrovano in tasca il valore di due, tre euro, a volte nulla. (…). Riuscire a convincerli a tornare a casa si rivela missione quasi impossibile. Tanto, laggiù, nessuno li aspetta. Anzi nessuno li vuole rivedere. Giovani maledetti. Costretti ad andare avanti contro tutto e tutti. Vivono, dormono, mangiucchiano e si muovono come animali, avvistati già da lontano perché di pelle nera. Sono i combattenti di oggi per la dignità! Per una vita degna di essere vissuta. Ed è paradossalmente la loro colpa. Sanno di essere loro – giovani in fuga per anni – la speranza delle loro stesse famiglie!

Non possono permettersi cedimenti (…)

«Fate delle proposte, dateci delle alternative!» incalzano loro, senza però avere risposta. Come missionario, nomade e migrante io stesso per oltre 40 anni in Paesi diversi dove si parla francese o inglese o anche arabo, in Europa e in Africa, il cuore mi si stringe. Questi giovani combattenti mi tormentano l’anima: lottano contro i mulini a vento della nostra indifferenza, per la vita e per la morte

 
 
 

L'angelo dei treni

2023, Avvenire, 14 ottobre

Roma 1943. La tragedia del ghetto e l'angelo dei treni che salvava gli ebrei

A 80 anni dal rastrellamento del ghetto Roma la storia del ferroviere Bolgia che alla stazione Tiburtina spiombava i carri diretti ai campi di sterminio

È rimasto nella storia della capitale come “l’angelo del tiburtino”. Una vita spesa per gli altri, quella di Michele Bolgia, ma soprattutto per centinaia di ebrei che grazie al ferroviere scamparono ai “treni della morte”. Era il 18 ottobre 1943 quando dal primo binario della stazione ferroviaria di Roma Tiburtina, stipati in un convoglio composto da 18 carri bestiame, opportunamente piombati col filo spinato, più di mille ebrei romani, intere famiglie composte da uomini, donne, vecchi e bambini in tenera età, fra i quali anche un neonato, rastrellati in tutta la città all’alba del 16 ottobre, furono strappate dalle loro case per essere deportate nei campi di sterminio di Auschwitz-Birkenau.

«Di tale nucleo solo sedici uomini ed una donna scamparono all’immane eccidio, e fu proprio grazie a loro che la memoria della Shoah è rimasta viva nell’immaginario collettivo, testimone di una barbarie senza precedenti che lordò di sangue le vie della nostra Capitale, per non parlare delle coscienze dei tanti che tanto avrebbero potuto fare, ma nulla fecero per salvarli - sottolinea il colonnello in ausiliaria della Guardia di Finanza, Gerardo Severino, storico militare, che ha scoperto la storia negli archivi -. Tutto ciò avvenne nel bel mezzo della tragedia della Seconda guerra mondiale, nell’orrido della quale, scelte incaute e bellicose avevano fatto precipitare il meglio della nostra gioventù. Quella stessa guerra, ritenuta breve e utile per sedersi fra i vincitori al tavolo della pace, si era già rivelata un inferno sin dalle sue prime battute, facendo precipitare, in seguito, la nazione nel baratro più buio, ove carneficine e incredibili orrori saranno pane quotidiano sino all’aprile-maggio del 1945».

Da quell’infausto giorno la Stazione Tiburtina, per anni luogo di transito di pacifici cittadini, di turisti e di quanti lavoravano a Roma, fu teatro della tracotanza nazi-fascista e soprattutto di altri e poco conosciuti “viaggi del non ritorno”. Da essa molti altri treni merci partirono, spesso per un’ignota destinazione, con a bordo militari sbandati, giovani renitenti alla leva, altri ebrei scampati al primo rastrellamento, ma soprattutto tante e tante braccia sottratte alle proprie vite normali per essere duramente utilizzate come bassa mano d’opera nella lontana Germania.

Fra di essi il merci n. 64155, un treno composto da 10 carri che il 4 gennaio 1944 portò dapprima ad Innsbruck e successivamente in altri campi di sterminio oltre 290 prigionieri, fra ebrei e rastrellati per motivi politici, destinati ai campi di lavoro tedeschi.

«Ma lo stesso luogo della vergogna rappresentò – ribadisce Severino – anche l’orgoglio della riscossa nazionale, perché fu proprio in tale stazione che ebbero luogo le prime manifestazioni resistenziali, molte delle quali ascrivibili all’eroicità degli stessi ferrovieri italiani, primo fra tutti il guardasala Michele Bolgia, al valore delle Fiamme Gialle che vi prestavano servizio di vigilanza, ma anche alla rischiosissima collaborazione di alcuni ferrovieri austriaci ai quali veniva demandato l’ingrato compito di condurre i convogli della morte».

Le azioni umanitarie, delle quali si rese protagonista il ferroviere Michele Bolgia, «si concretizzarono durante il periodo di Roma Città Aperta, allorquando il ferroviere entrò a far parte dell’organizzazione clandestina riconducibile al tenente Alaydin Korça, un ventiseienne albanese in servizio nella Guardia di Finanza dal 1939 e che già prima dell’armistizio si trovava in forza presso la Legione allievi di Roma – sottolinea il colonnello Severino che fra l’altro da direttore del Museo storico della Guardia di Finanza firmò la proposta della medaglia d’oro al merito civile di cui fu insignito l’eroico ferroviere -. Esse si verificarono dall’autunno del ’43 al marzo del ’44, in un contesto storico nel quale Roma, come s’è detto, si trovava alla mercé delle truppe d’occupazione tedesche».

In pratica Bolgia, insieme ai finanzieri antifascisti spiombò i convogli dei rastrellati per farli fuggire e ciò avvenne all’indomani dell’arrivo in massa dei tedeschi, nella seconda metà del settembre 1943. Vittime dei rastrellamenti anche molti inermi cittadini, oltre che soldati sbandati e renitenti alla leva della Repubblica sociale italiana. I nazisti erano “a caccia” di manodopera, il cosiddetto “lavoro coatto”, necessario sia per fini militari che industriali, per i quali necessitavano grosse masse di manodopera, potendo così mantenere in continua efficienza la poderosa macchina bellica tedesca. È qui che sviluppa l’azione di Bolgia e dei finanzieri, aiutati dai ferrovieri austriaci.

Bolgia, nato a Orbetello, in provincia di Grosseto, si era trasferito a Roma per svolgere il suo lavoro di ferroviere inconsapevole che sarebbe diventato l’uomo che avrebbe fatto la differenza in un uno dei periodi più bui della storia d’Italia. Un coraggioso eroe della Resistenza il cui impegno umanitario venne scoperto dalla famiglia solo dopo molti anni. Tante le attività clandestine di Michele Bolgia, che non solo spiombava i treni per salvare i deportati, ma raccoglieva i biglietti che lasciavano cadere dai carri al fine di consegnare i messaggi ai familiari dei prigionieri, riuscendo addirittura in qualche occasione a portare in salvo bambini ebrei per affidarli alle cure di religiosi romani. Una storia, quella di Bolgia che si intreccia con l’azione di centinaia di finanzieri che salvarono gli ebrei a Roma come ricostruito nel libro L’Angelo del Tiburtino (Chillemi, 2011) firmato dal colonnello Severino. Bolgia venne catturato il 14 marzo 1944 e dichiarato morto il 24 marzo dello stesso anno. Il corpo fu poi ritrovato tra gli altri nelle Fosse Ardeatine.

 
 
 

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